martedì 30 ottobre 2018

Le cose che parlano, o sul farsi taciturno delle cose


Tema: pensa ai momenti di maggiore appagamento della tua infanzia. Cerco così nella memoria, perlustro recessi segreti o poco frequentati, ma alla fine scorgo solamente degli oggetti. Non un tramonto sul mare, mio nonno che munge la mucca Carluccia, il primo canestro segnato a mini basket… Tutte esperienze bellissime, ma vuoi mettere entrare in un negozio chiamato Piccola Città e uscirne con una confezione nuova fiammante di Lego?
Ci furono in seguito le scarpe da ginnastica Mecap, prime ad avere la voluminosa suola bianca in polimeri; la giacca a vento azzurra della K-Way – mi vedo correre nel cortile della scuola sotto il sole di maggio, toglila dice la maestra, sudi, e io che sudavo e correvo e non l’ho tolta –; il Big Jim che a un preciso tocco sulla schiena sferrava il micidiale colpo di karate; un castello medievale per i cavalieri teutonici della Airfix, il ricordo qui è vago, grigio come il suo colore; l'autopista Polistil con la replica della Lancia Fulvia di Munari e Mannucci; e che dire della pistola Oklahoma, nascosta in solaio per non essere scoperta dai miei genitori; il Subbuteo però non sono mai riuscito ad ottenerlo, al contrario di Federico che possedeva anche la bicicletta Saltafoss tutta cromata d'oro purissimo; e poi una t-shirt Fiorucci con gli angioletti e una Fruit of the Loom con, appunto, la variopinta immagine della frutta di stagione, in quella cornucopia che si apprestava ad essere la mia vita, o per lo meno così pensavo. Per finire – si fa per dire, perché gli esempi sarebbero numerosi – ci furono i jeans della Jesus, con il blasfemo invito “chi mi ama mi segua” che tanto fece infuriare Pasolini.
Semplici cose, si dirà, merci, a sancire la mia piena appartenenza alla stirpe dei baby boomer, figli di quella che fu definita la deriva consumista; un termine che faceva storcere il naso ai vecchi filosofi tedeschi quanto ai giovani marxisti, accomunati dallo spregio per la cultura americana dei consumi. Eppure non è vero che le cose non hanno un'anima, come tutti questi uomini dotti ripetevano un po’ a macchinetta. Gli oggetti di quel tempo remoto non solo avevano un’anima – un soffio leggero ma percepibile, il respiro di un gatto sul cuscino – ma anche una voce chiara e forte, che sapeva raccontarci delle storie. E sono le cose che parlano, come recitava il verso di una canzone di Battisti.
A prendere sul serio i racconti delle cose, primo fra tutti fu Roland Barthes, che si esercitò in una felice traduzione dal linguaggio "cosese" a quello nostro; linguaggio che la psiche profonda ha sempre parlato, senza che nessuno l’istruisse al riguardo. Più tardi arrivarono gli stralunati racconti di Aldo Nove, dove, anche lì, veniva offerto il microfono direttamente alle merci, per rintracciar
e l'eco sulle persone che ne venivano ammaliate, come Ulisse al canto delle sirene. Discorsi semplificati e vagamente paraculi, intendiamoci, ma pur sempre una narrazione che tentava di dar forma al trascorrere dei giorni; che in sé non hanno proprio nulla da dire se non l'implacabile cadenza del sorgere e decadere, prima di svanire.
Da qualche anno ho però l'impressione che le merci si siano fatte più taciturne, continuano a mostrarsi, ad offrirsi ammiccanti, ma parlano di meno. L'ultimo grande fenomeno di eloquenza di un oggetto è forse stato quello di Apple, per cui venne sdoganato il termine anglosassone di story telling: think different, e in effetti i prodotti della mela morsicata parlavano una lingua diversa e originale. Che era poi il vecchio alfabeto della seduzione o, meglio ancora, della proiezione seduttiva, che genera identità con sempre nuovi travestimenti.
I pubblicitari naturalmente continuano a imbeccare i prodotti con i loro slogan, ma quella voce si è fatta flebile, fatica ad arrivare, gli fanno il massaggio cardiaco ma non va oltre un debole rantolo. Niente a che vedere con quel vero e proprio coro che fu la moda degli eskimo e della Lambretta, o, nemmeno un decennio dopo che sembra un secolo, le Timberland arancioni dei boscaioli del Montana, per cui tutti accorrevano ad acquistarle per riconoscersi in un racconto collettivo, in cui la mia generazione procedeva fiduciosa camminando sulle suole a carrarmato antishock, che facevano superare gli ostacoli come gli stivaletti a molla di Paperinik.
Adesso invece solamente raccontini, cosettine, senza che nessun oggetto riesca davvero a imporsi come icona del nostro tempo, Andy Warhol andrebbe ora in bianco come la sua zazzera fluente. Magari abbiamo guadagnato qualcosa, siamo più liberi e non condizionati dal tanto deprecato consumismo, che entrava nella nostra anima per mezzo del cavallo di Troia offerto dagli oggetti. O forse qualcosa l’abbiamo persa: storie, miti in cui una comunità possa riconoscersi, che avevano il volto pacioso di Calindri mentre sorseggia un Cynar in mezzo al traffico dell'ora di punta. Miti davvero piccini piccini se paragonati a quelli di Orfeo e Euridice, Re Artù e i suoi cavalieri, Odino, e però sempre miti...
Non so, io una risposta non riesco a darmela. Ma se ancora vedo in giro una K-Way azzurra – pare che stiano tornando di moda, secondo quel principio ricorsivo a imitazione della digestione dei vitelli, per cui il nuovo è sempre una ruminazione del noto – auguro a chi l’indossa di non levarsela mai. Nemmeno quando corre, quando suda, quando fa l’amore. Uno scudo di tela sottile ma impermeabile e tenace, per dimenticare che prima poi l’intervallo finisce.

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