lunedì 22 ottobre 2018

Occidente by bus, o sulle due facce del razzismo

Il razzismo è un problema serissimo e in crescente e rapido sviluppo nel nostro Paese. Con la parallela crescita dell'occasione, fornita dalla prossimità fisica, le frontiere permeabili e musetti sempre più difformi e multietnici a sbadigliare dai banchi delle classi elementari, diviene non di rado drammatico. Posto questo, io però non ne enfatizzerei certi fenomeni estremi, come chi, su un autobus pubblico, si rifiuti di sedere accanto a un nero; ed è successo ancora di recente e di sicuro ricapiterà.
Per stilizzare in forma geometrica il mio ragionamento, mi sembra che il razzismo presenti due facce distinte, ma mescolate e confuse come in un manifesto paraculo di Oliviero Toscani, per far vendere qualche maglioncino in più. Andiamo piuttosto alla sostanza.
Esiste un razzismo che potremmo chiamare estetico, se non addirittura folclorico. I suoi effetti sono certamente funesti e non intendo ridimensionare, ma ciò che caratterizza tale atteggiamento è davvero un elemento di superficie, in cui la diversità (avversata) viene fatta coincidere con la dimensione dell’esotico; siamo insomma ancora a Bingo Bongo e Kunta Kinte, o giu di lì. 
La sua struttura può essere così riassunta. Con gli occhi vedo la tua pelle. E’ di un colore differente dalla mia. Scura. Come il carbone, come la notte, come la pece. Mmm, non mi fido… Ed è la reazione istintiva del criceto che scorge qualcosa di ignoto dietro la gabbietta, e per timore si ritrae. Ma molti criceti assieme possono anche mostrare i denti.
Stiamo dunque parlando, prima faccia, del razzismo di chi ha l’intelligenza di un criceto, il razzismo dei pavidi e dei violenti, che ben lungi dall'essere termini antiteci tendono spesso a coincidere. Ad esempio nei nostri connazionali che sugli autobus pretendono di sedersi solo accanto a Sigfrido e a Brunilde. Coglioni. Punto.
Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia. Un razzismo non dico intelligente, ma più strutturato, antropologico. Quello di chi, nel contatto con popoli stranieri qui immigrati, veda messe a rischio ciò che percepisce come acquisizioni; e per acquisizioni non intendo solo privilegi economici ma anche costumi, stili di vita e memorie a cui si senta particolarmente legato. Tutto ciò si raggruma in un pronome monsillabico. Noi.
Perciò viene rifiutato il diverso, che nella stessa semplificazione nominale coincide con un altro pronome. Loro. Che sono quelli che con la semplice e muta presenza interrogano, rendendola meno assoluta e certa, la condizione storica del noi (confusa spesso con un'essenza, ma qui il discorso si farebbe filosofico e lungo), esponendola a tradizioni non omologhe. Le loro tradizioni, appunto. Non le nostre. Co
sa che potrebbe alla lunga rivelarsi un vantaggio, per inciso.
Una resistenza prima emotiva che cognitiva, restituita attraverso fotografie d'epoca dall'effetto vagamente seppiato, a cui si accostano etichette ridondanti quali Patria, Famiglia, Religione o Terra. Ma ciò non ridimensiona il fatto che si tratta pur sempre di una forma di radicamento, premessa necessaria al costituirsi dell'identità. È insomma del tutto normale nella specie a cui apparteniamo, nata dalla trasformazione del branco in tribù. Quindi in impero, repubblica, città stato, nazione.
Per quanto riguarda il primo volto del razzismo, il razzismo dei criceti, dei minus habens, io credo ci sia poco da fare. La loro limitata intelligenza rende difficile ogni dialogo ed evoluzione. Ma stiamo fortunatamente parlando di una percentuale modesta di persone; e mi riferisco ai cretini-cretini, non alle persone mediamente ignoranti. Una società democratica e sana può dunque contenere i loro impulsi di attacco e fuga, può farlo con strategie tutto sommato limitate di ordine pubblico, sanzionando i comportamenti più gravi.
Più problematico è il rapporto con l'altro volto del razzismo. Come visto, esprime dei sentimenti più complessi che lievitano in pensieri comuni, per cui si può con ragione parlare di "cultura". Tocca infatti ammettere, un po' a malincuore per le anime belle, che tale atteggiamento contiene degli ele
menti perfino legittimi, quali ad esempio il desiderio di riconoscersi in una comunità che incarni la nostra percezione del mondo, e da cui solo può nascere l’empatia sociale. Che poi, mutando dalla prospettiva psicologica a quella giuridica, è il principio stesso di civiltà.
E’ perciò a un altro livello, che chiamerei senza esitazione narrativo, addirittura artistico e mitologico, che l’antirazzismo deve ingaggiare la sua reazione propositiva. Non bastano i proclami (perlopiù vuoti) a favore della diversità culturale, ma si deve lavorare sul piano dell'immaginario, e cioè creando nuove rappresentazioni pubbliche o, se si preferisce e come è ora in voga, uno story telling, che rimoduli lo specchio in cui ogni gruppo umano si rimira, estendendone la cornice.
La grande cultura popolare americana della metà del secolo scorso ha saputo farlo, e penso in particolare al cinema di Disney o all’integrazione delle musiche afroamericane nel mainstream giovanile. Da noi, al momento, vedo però solo qualche pistolotto offerto dai presentatori televisivi, che come Lupo de Lupis si mostrano tanto buonini. Oppure ci sono le commedie edificanti, dove i neri sono sempre "negretti". Docili. Sensibili. Sottomessi. E con gli occhioni da cerbiatto.
Mi sembra però un po’ poco, davvero troppo poco. E non dico per sedere accanto a uno straniero sull’autobus, ma per dare, a quell’autobus, un futuro e una direzione.


1 commento:

  1. C'è persino un razzismo semiologico-pubblicitario: "Brondi chi parla?". Ma questa è ancora un'altra storia. Forse.

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