lunedì 21 marzo 2022

La cena dei cretini, fenomenologia di Alessandro Orsini


Quando la ragione arranca, non comprende un fenomeno mentre, sempre più ostinate, le mani grattano la fronte, anche gli studiosi più dotti si affidano all’immaginazione. Pensiamo a Newton e alla sua mela: in fondo sembra una sequenza cinematografica, non lo snodo cognitivo che avrebbe portato a una delle rivoluzioni scientifiche più solide e durature.

Pensiamo ora a Alessandro Orsini, direttore e fondatore dell'Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS. Ci pensiamo e ripensiamo ma non comprendiamo le ragioni – non certo le sue competenze, per altro solide, o la brillantezza nell’eloquio – che l’hanno reso il prezzemolo con cui condire quasi tutte le trasmissioni che parlando della guerra in Ucraina.

Continuiamo a guardarlo, lo ascoltiamo parlare con voce flebile e commossa, sembra sul punto di scoppiare in lacrime, di stramazzare al suolo affranto, ma procede invece come un dromedario onusto sull'invisibile pista che traccia nel deserto, e i conti non tornano: perché lui, perché proprio lui…?

Ed è qui che dovremmo fare lo scarto verso una forma diversa di pensiero, affidandoci alla videoteca. In particolare c'è un film che fa al caso nostro, una pellicola francese del 1998, scritta e diretta da Francis Veber. Si intitola Le dîner de cons, in italiano La cena dei cretini.

Un gruppo di ricchi annoiati organizza una cena a cadenza regolare, in cui ciascuno deve portare con sé un cretino di cui poi ridere alle spalle. Non è molto diverso il funzionamento dell’informazione televisiva, l’abbiamo vista all’opera, seguendo lo stesso cinico schema, nel periodo dell’emergenza Covid: a studiosi seri e preparati veniva accostato un personaggio eccentrico, che so, il cantante Povia, così che questa squisita élite di spiriti superiori (con la scusa del confronto democratico delle opinioni) potesse dargli addosso, metterlo in ridicolo più di quanto già non facesse da solo.

Uno schema antico, già mia nonna ripeteva un proverbio delle sue parti: “tuc i vularia vedè en mat en ciazza ma nigun che’l fus so” (tutti vorrebbero vedere un matto in piazza, purché non fosse un proprio parente), a conferma del fatto che la risata ha bisogno di una prospettiva asimmetrica per sgorgare; un piacere meschino ma a ben vedere umano, o forse meschino proprio perché umano.

E così ora è venuto il turno di Alessandro Orsini. Quanto sghignazzava, senza ritegno proprio, la politologa Nathalie Tocci ogni volta che Orsini apriva bocca a Piazzapulita. Ma siccome per ridere di gusto si deve essere come minimo in due, cercava, con lo sguardo, la complicità di Mario Calabresi, che in modo solo un poco meno sfrontato la ricambiava: eh sì, è proprio un cretino, il contenuto inespresso in quel dischiudersi appena accennato delle labbra.

Ed è stato in quel preciso momento che ho iniziato a tifare per Alessandro Orsini, con cui non condivido un solo pensiero. L’ignaro cretino, l’utile idiota per fare lievitare audience e share, e poco importa se si annebbia la comprensione: sai che risate, in studio e nei salotti in cui il buffo Orsini dilaga quale nuovo eroe della minorità. I nostri salotti, le nostre risate ogni volta che compare un cretino sullo schermo.

Ci sono dunque solo due posture con cui accostarsi al fenomeno: accettarlo, addirittura amplificarlo come avviene nelle trasmissioni di Bonolis e Cruciani (luoghi in cui l'irrisione rasenta il monopolio), oppure spegnere il televisore. L’altra sera ho optato per la seconda opzione, ma lo specchio che ci fa sentire superiori riflettendoci nei limiti altrui – l’unica forma di superiorità che ancora ci è concessa –, è duro da infrangere.

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