Se i dibattiti televisivi fossero un’equazione matematica, a me sembra che quelli sulla guerra potrebbero essere scomposti. Taglia, semplifica, riduci ai minimi ed elementari termini, si approda così alla domanda fatidica: “Tu cosa sceglieresti?”
Lo chiede Jean Seberg a Jean-Paul Belmondo in una sequenza di À bout de souffle, correva l’anno 1960,
la regia è di Jean-Luc Godard. Prima però lei gli legge una frase da "The
Wild Palms" di William Faulkner: “Tra il dolore e il nulla io scelgo il
dolore.” E tu, dimmi, lo incalza la ragazza con i capelli da maschietto, cosa
sceglieresti?
Belmondo all’inizio cincischia, prova, senza troppa convinzione, a spostare
il discorso sull’importanza dei piedi nella donna, ma poi risponde: “Il dolore
è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O
tutto o niente.”
La stessa risposta sembra offrire Zelensky: vivere da servi, senza una
patria integra e sotto il tallone del nemico, è idiota. O tutto o niente. Conclusione a cui Putin fa eco, riaffermando l’antico mito dell’Eurasia sotto
l’egemonia dell’orso russo, con l’imprimatur del patriarca ortodosso Cirillo I
e del filosofo Aleksandr Gelʹevič Dugin. Tutta gente che ha poca confidenza con
quel dolore sommesso e diurno che si chiama ridimensionamento del sogno.
Ed è così che il mondo potrebbe anche terminare, il nulla atomico risulta
per entrambi preferibile al dolore di perdere qualcosa, già che in quella cosa
apparentemente piccola (per noi) è racchiuso intatto e potente il senso
dell’esistenza tutta, come gli oggetti magici nelle fiabe. A centinaia di
chilometri di distanza, nei nostri studi televisivi, la medesima
contrapposizione prende forma strillata. Anche qui ci sono i nullisti e i
doloristi.
Il querimonioso Orsini e l’imbronciata Donatella Di Cesare, ad esempio. Entrami
parteggiano smaccatamente per Faulkner: scelgono il dolore. Con l’unica
differenza, non poi così trascurabile, che il dolore non è il loro, ma quello
degli ucraini. Lo slogan pace subito,
pace senza se e senza ma, equivale infatti ad affermare un diritto sul
dolore degli altri, per certificare il proprio essere. Non dico che sia completamente illegittimo – lo facciamo da millenni nutrendoci della carne degli
animali – ma è importante averne consapevolezza.
Quella stessa consapevolezza che ci si augura nella fazione opposta, di cui
è ugualmente lecito dubitare. Siamo infatti sicuri che Rampini,
Parenzo, Friedman, Severgnini e così via, abbiano ben chiaro i termini della
scelta a cui sono chiamati… Il sospetto è che sia solo una postura muscolare,
un selfie in favore di camera in cui la mascella contratta fa velo
all’ambiguità che ci cinge da dentro, prima ancora che da fuori.
Quanto a me, subisco da sempre il fascino di Jean Seberg – solo un’altra
Jean, Jean Birkin, ma non senza ripensamenti, riuscì a scalfire la mia
convinzione che Jean Seberg fosse la donna più bella del mondo – e mi sembra
che una mediazione dolorosa sia preferibile alla guerra atomica. Quel
compromesso idiota di cui parla
Belmondo, già.
Ho però il ritegno di riconoscere che a questo modo sto ipotecando un
dolore che non mi appartiene, un dolore per così dire in conto terzi. Da qui un suggerimento per i futuri tavoli per la
pace, che oltre a ragioni economiche, geopolitiche e militari, dovrebbero
contemplare anche un poco di filosofia, e perché no di arte. Immagino una
conversazione tra Putin e Zelensky che ricalchi le battute di À bout de souffle: “E tu cosa
sceglieresti?”
Tra il dolore e il nulla, sì, certo, ma pure tra Bach e Mozart, tra Michelangelo e Raffaello, Dostoevskij e Shakespeare, Beatles e Rolling Stones… Tra diverse forme di bellezza, insomma. Perché esistere, non sopravvivere che del nulla è l’anticamera affollata, corrisponde a una remunerazione sensibile, più che a un generico significato da assegnare al trascorrere dei giorni. E quel premio si chiama appunto bellezza.
Diversamente, fa benissimo Jean-Paul Belmondo a infilarsi una Gitanes in
bocca e rivendicare il suo tutto o niente.
E chi se ne frega se questa scelta porterà al nulla, solamente scorie atomiche
e toponi più grandi di asini, se il qualcosa a cui si rinuncia ha il volto butterato
di un generale sull’attenti cosparso di mostrine, o le labbra tumefatte da una
chirurgia estetica di massa.
La domanda da cui siamo partiti dovrebbe allora essere aggiornata: cosa
sceglieresti, tra il kitsch e il nulla?
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