lunedì 29 maggio 2017

Ma quanto è bello essere buoni, prova anche tu! No, grazie, preferisco un gin tonic



Un atteggiamento che mi ha sempre incuriosito, e che ora trovo diffondersi sul web, sui social network in particolare, è quello di chi istruisca gli altri sulle virtù dell’altruismo. A volte l’invito morale è esplicito e un po’ naif, ma, altre volte, la perorazione virtuosa assume forme articolate e dotte, nella forma di veri (sebbene miniaturizzati) trattati psicologici e filosofici, di cui ammiro la sottigliezza dello sguardo.
Nella sostanza: se fai e vivi solo per te, finisci con l’essere infelice, frustrato. Mentre se l’obiettivo delle tue azioni sono gli altri, sorge, progressivamente, un sentimento di pienezza e soddisfazione.
L’ho detto, ho semplificato. Ma anche nei modi più compiuti e lambiccati, questo schema di pensiero – che in buona sostanza condivido, non sono un orco – mi lascia un po’ perplesso.
Ad esempio, uno psicologo che dica al suo paziente: “Per ritrovare gioia e serenità dovrebbe farsi carico del prossimo, lei pensa troppo a se stesso. Provi, e vedrà come starà già da subito meglio nell’occuparsi, gratuitamente, anche solo di un criceto.”
Non è sbagliato, il ragionamento. Ma sono ancora credibili le parole dello psicologo quando, terminata la seduta, stacca una parcella da cento euro – ma come, non dovresti abbracciarmi e dire siamo a posto così?
Allo stesso tempo, in che modo questi continui inviti pubblici all’altruismo, questa catechesi laica al limite dell’invasione di campo (il mio campo psichico), possono essere inclusi nelle stesse categorie morali che propugnano? Davvero l’estensore del richiamo è convinto che le sue parole, nella semplice sostanza verbale dell’enunciato, possano fare il mio bene, e così accordarsi al precetto appena esposto?
Non so, ma c’è qualcosa che non quadra. Mi sembra alle volte che ogni vocativo etico contenga una remunerazione riflessa, nella forma dell’oddio come sono bravo, bello, buono, quando parlo a questo modo. Quanto mi piaccio, insomma. E dunque quanto io stia facendo il mio proprio bene, non quello dell’altro.
In altre parole, per essere davvero credibile l’invito al bene dovrebbe contenere un piccolo “costo”: fisico, economico, psicologico, non importa. Comunque un segno, o meglio un pegno che dia conto del trascendimento di sé.
Da questo punto di vista non è peregrina, per quanto estrema, la scelta della Chiesa cattolica romana a favore del celibato dei chierici. E’ come se contenesse un sotto testo di questo tipo: lo vedi come soffro a non scopare, a non realizzare il mio desiderio di uomo, donna, di persona umana. Ma per questo sono tanto più affidabile nel mio cristianesimo, attraverso cui supero il piccolo orticello dei vantaggi personali (e per quanto anche il masochismo contenga una sua sottile economia psicologica, ma qui ci allargheremmo...).
In ogni caso, l'invito al bene senza un sacrificio anche minimo e soprattutto senza una mia richiesta di aiuto – ma te l’ho chiesto io, di dirmi come fare per essere felice, per diventare buono e giusto come sei tu? – rischia di risuonare in chi l’ascolta come le parole di quel cretese, Epimenide, che sosteneva che tutti i cretesi mentono. Ma se tutti i cretesi mentono mentirà anche Epimenide, no?
Allo stesso modo, invece di ripetermi dalla mattina alla sera quanto è figo essere buoni e generosi, perché non mi offri un gin tonic, che sono più contento…

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