sabato 20 maggio 2017

Elogio del fallimento, o su come diventare buddisti al netto di Buddha e guru accessori



Fallire, fallimento. Scrive al riguardo il dizionario Treccani nella sua accezione figurata, quella che qui più interessa: esito negativo, disastroso, grave insuccesso.
Se ne ricava che, per fallire, è necessario un proposito anteriore, quanto meno un generico scopo – di uno scopo proprio non si può fare a meno, anche se a volte viene introdotto dall’esterno surrettiziamente, ad esempio dalla famiglia o dai grandi mediatori culturali: Stato, religione, gruppo o classe sociale di appartenenza. Ma è in qualche modo facoltativo lo sforzo per tradurre la visione immaginata in realtà; particolare che addossa ai falliti la croce supplementare di un diffuso biasimo, rubricandoli come pigri e inconcludenti (non sempre a torto, tocca ammettere). In ogni caso tombola: sono un fallito, non essendoci termine migliore per descrivere la mia situazione attuale, nota anche con la ronzante metafora del pugno di mosche, con cui alla fine ci si ritrova.
Eppure, a ben pensarci, nel fallimento è contenuta una moneta di oro purissimo, che il dizionario Treccani non è in grado di mostrare; ma neppure il pugno, o le mosche, di offuscare. Una volta falliti o meglio quando questa consapevolezza sia finalmente stata interiorizzata, il fallimento diviene infatti una “cosa”, un dato certo e non più uno spettro da temere, ombra che si allunga cupa e minacciosa sulle nostre vite affaccendate. Inoltre, il dizionario Treccani omette pure la radice etimologica di fallimento, che viene dal latino fallen: sdrucciolare, abbattere, cascare. Un particolare che sposta la condizione del fallito da dinamica (il movimento verso qualcosa, in cerca di) a stabile e immota, nella posizione ferma dell’abbattuto.
Per tutti quelli che, come me, si trovano in tale stato di opacità orizzontale, ossia gli infiniti caduti sotto il tiro incrociato degli aperitivi, i militi ignoti immolati sull’altare dell’insuccesso silenzioso, esiste un piccolo trucco che potremmo allora tentare. Basta cercare al fondo, giù, sotto e oltre la cortina rabbiosa delle mosche, nel cratere ultimo che si nasconde nel solco della mano. Ed è lì che si può afferrare quella monetina che a guardar bene si trova, afferrarla a margine con due dita per poi allargarne la figura, fino a guadagnare tutta la scena. Sì, proprio come si fa col pinch to zoom nelle fotografie sullo smartphone: allarga allarga allarga…
A quel punto potremo specchiarci nella superficie dorata e riflettente, dove il danno si farà certezza macroscopica: sì, sono proprio un fallito! Quindi, riconosciuto e azzerato il temuto non si teme ciò che è, al limite lo si lamenta , la caduta diventerà condizione stabile, certezza di lapide su cui posare i crisantemi di ogni residua ambizione. Avremo allora ottenuto ciò che i buddisti ricercano da sempre; ma facendosi, loro, un mazzo così, mentre a noi non sarà costato alcuno sforzo. E cioè una vita senza più desideri, affanni, timori e nuove cadute.
Una vita persuasa avrebbe detto il grande filosofo goriziano Carlo Michelstaedter, morto suicida, a vent’anni, per reificare la sua intuizione. Quella di far coincidere la parte con l'intero, immergendosi nella Totalità che solo traluce nello spasimo al raggiungimento di ciò che infine si nega, sempre, evitando di protendere verso qualsiasi obiettivo che possa tradursi in fallimento (rettorica chiamava questa condizione opposta alla persuasione); o comunque rinunciando a ogni implicazione ulteriore al momento presente, in cui finalmente bastarsi.
Una vita senza nulla, insomma, una vita addirittura senza vita, e cioè senza prospettiva e tempo, che della vita sono i principali e ingannevoli attributi – se vogliamo crogiolarci in un altro riferimento dotto, è la bella illusione di cui parlava Leopardi, ma senza che il termine fosse per lui svalutativo.
Ed è dunque questo il tesoro che cova dentro il pugno di ciascuno: il lusso di essere, essere senza bisogno di alcun fare ma anche senza il carico di realizzare questo lusso, che si dà in levare e non in battere, traducendo il ronzio delle mosche in sinfonia! 
E' il famigerato nichilismo, sì. Ma non come altra faccia della moneta dei valori, implicitamente da recuperare. No, qui di moneta ce n'è solamente una, anzi a questo punto neppure quella, già che arrivati al culmine del fallimento si dischiude la coscienza mistica della vanità del Tutto, compreso il fallimento stesso e perfino il suicidio, che in quanto gesto finalizzato contiene comunque uno scopo. Ma, per paradosso ed è questa la vera e segreta magia sarà anche il momento in cui potremo recuperare il timido principio di un nuovo fare, senza più timore di fallire.
Ma come è possibile?!
Beh, perché non sarà più fare qualcosa, ormai abbiamo capito la lezione, ma fare semplicemente per fare il nostro meglio in questa assurda fotografia di gruppo, in cui non importa se mostri le corna dietro la testa del vicino o stringi le labbra a mimare un piccolo bacio. Ed è allora un lungo infinito respiro, mentre il fotografo invita a dire cheeees, respiro, aria, nel puro gusto estetico di guardarci respirare, fallire, respirare ancora.

Nessun commento:

Posta un commento