Girando, un po’ a casaccio, tra gli scaffali di un
ipermercato valtellinese alla ricerca del Ferrari rosé – vai all’Iperal, mi chiama il giorno prima mio cugino che conosce
i miei gusti: Ferrari rosé a soli nove euro! –, girando e rigirando incappo nel
reparto profumeria.
Massì, dai, una bella rimboccata alle maniche della
felpa e inizio a innaffiarmi con i tester dei profumi maschili. Non me
ne perdo uno, puff, puff, puff... per lo sconcerto della cassiera, che mi annusa mentre
passa il codice a barre della bottiglia di Ferrari posizionata al centro del nastro, come un soldatino che allegro va alla guerra. Il resto della truppa
sta stipato nel carrello.
Che posso dire: i profumi attuali non si può dire che
facciano schifo – beh, un po’ lo fanno, a partire dal tanto celebrato One Million
–, è che comunque riescono a dare quella sensazione di pulito, domestico, garbato (uno schifetto dunque, non un vero e ripugnante
tanfo).
Certo, non si dovrebbe parlare al plurale, ma in
questo caso ne provi uno e davvero li hai provati tutti: note di apertura
leggermente agrumate, in stile Nelsen Piatti; subito però subentrano le spezie, pepe e noce moscata e
chiodi di garofano in prevalenza; quindi qualcosa di dolcino che potrebbe essere ambroxan, ma in una sua versione
particolarmente scadente; infine un bel dry
down di vaniglia, cedro e fava tonka, a rinforzare il dolciume generale e
stucchevole.
A volte incappi anche in quella nota che viene detta “sport”,
e cioè l’effetto acquatico e ozonato di una molecola chiamata calone; ma molto più piscina rionale, con lo
spruzzino anti verruche, che spiaggia deserta e incontaminata.
Per come l’ho
trovata io, la profumeria mainstream è tutta qui: un buon selvaggio pulito e
sbarbato (e pure disinfettato) da un comitato per le magnifiche sorti e progressive, come ne L’enfant sauvage di Truffaut.
Ho quindi raggiunto casa mia, un paio di bottiglie
di Ferrari in frigo e le rimanenti in dispensa, e dopo essermi lavato le braccia, ma proprio bene, sfregando forte e insaponando più volte, mi sono dato un paio
di spruzzi di Mitsouko, un profumo che Jacques Guerlain concepì nel 1919 sulla scia di un immaginario orientale rarefatto e sfuggente, molto in voga all’epoca
(Mitsouko, che in giapponese significa
mistero, è il nome dell'eorina di un racconto di Claude Farrère, a cui il profumo si ispira).
Ok, è un femminile, ma lo metteva pure Chaplin,
quindi non fatene tante. E non sottolineerò neppure il fatto che è buono, anzi ottimo,
per chi ne capisca minimamente di odori. Ciò che invece sorprende, almeno in
confronto a ciò che è appena finito nelle mie narici, è che Mitsouko è Mitsouko,
ossia quel profumo lì, inconfondibile, unico, non puoi sbagliarti. Come lo è Ten di Knize, la fragranza che indossavano James Dean e Billy Wilder, oppure Equipage di Hermes, Ted Lapidus pour Homme, Ho Hang, la prima e compianta formulazione di Fahrenheit... Ma anche quasi tutti gli Chanel,
almeno prima del miserevole tonfo di Bleu.
Sigle olfattive, ecco cosa è stata fino a qualche
anno fa la profumeria popolare. E cioè ricerca di unicità o, come si suggeriva allora con enfasi pomposa, di esclusività al servizio delle masse, che iniziavano a patire gli effetti omologanti dell'urbanizzazione e della meccanizzazione del lavoro.
Certo, era un po' un paradosso – se una cosa è esclusiva vuol dire che esclude gli altri, è solo tua, no, mica che la tengono in tutte le profumerie? – ma almeno ci si provava, e come si dice è sempre meglio di niente. Ora invece anche il desiderio di distinguersi è perduto, e secondo me sarebbe interessante farsi
qualche domanda al riguardo.
A parte le ragioni economiche imposte dall’accentramento
dei marchi in mano a poche multinazionali molto micragnose (L’Oréal e LVMH, su tutte), unita alla normativa IFRA che circoscrive,
per prevenire allergie, il numero degli aromi naturali a disposizione, io sospetto la presenza di un mutamento epocale nelle categorie estetiche in cui ci
riconosciamo.
Bello era infatti nel secolo scorso sinonimo di
unico: la mia donna è bella, il mio uomo è bello si diceva innanzitutto perché
si percepiva che erano loro quelli su cui puntare il gettone della propria vita, non un cugino che gli somiglia, un clone, con cui eventualmente fare cambio. L'opera d'arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica non era insomma riuscita a mutare le sorti dell'animo umano, con buona pace di Walter Benjamin.
Ciò che piace, o meglio piaceva, era
dunque questo riconoscersi nelle rispettive singolarità, che
rispecchiandosi ci definiscono ulteriormente, rendendoci ancora più belli (in fondo
ci si innamora delle persone che fanno emergere il nostro meglio, a volte
perfino sorprendendoci che esista in noi quella parte: ma sono proprio io, quel figo lì?)
Ora invece no. Ora prevale un’idea di bellezza più
standardizzata, che possiamo ritrovare nelle nuove icone giovanili, oppure nel
volto regolare degli attori che si sono affermati di recente (uno con il naso
di Vittorio Gassman, per dire, adesso non lo troveresti mai; ma neppure con il
suo sguardo acuto e la sua intelligenza).
Certo, questa ricerca di un livello medio del consenso è un po’ sempre
avvenuta tra gli adolescenti, anche quando quell’età era la mia. Da cui la
bellezza quale espressione di conformità al gruppo, l’adeguamento al gusto
degli altri in osservanza a un timore diffuso di essere messi fuori campo; ed è
l’unione che fa la forza nel momento in cui ci si sente più deboli e soli.
Ma gli adolescenti sono un progetto in fieri, è cioè
persone, esseri umani la cui identità è ancora in delicata fase di formazione.
Siamo per questo ben disposti a concedergli qualche tentennamento, e qualche
sbirciata al banco del vicino.
Adesso abbiamo però un’intero mondo che ha tirato
indietro le lancette dell’orologio, per poi fermarlo all’adolescenza. Sarà per questo che tutto è divenuto reversibile: cose, elettrodomestici, piatti esotici e ora anche profumi e persone, secondo la fortunata formula di società liquida promossa dal sociologo polacco Zygmunt Bauman. Ma non è
che rinunciando, in massa, a un proprio e inconfondibile odore, abbiamo rinunciato
anche a noi stessi?
Nessun commento:
Posta un commento