lunedì 7 febbraio 2011

“Starace, dove vai?”, o sul perché sono antifascista ma non (sempre) anti-fascisti


Provo a spiegare perché ho una certa tenera simpatia per i fascisti; per un certo tipo di fascisti, almeno.
Il Fascismo è stato quel che è stato, ok. E il giudizio storico e ideologico su quell'esperienza definitivamente conclusa non può che essere negativo; salvo il riconoscimento obiettivo di alcune innovazioni al sistema para-feudale quale era ancora l'Italia giolittiana, in particolare in campo urbanistico e dei servizi sociali. Il Fascismo termina dunque con il suo ribaltamento, fisico e metaforico, il 29 aprile del 1945 in piazzale Loreto. Da lì in poi si può parlare solo e correttamente di neofascismo.
Ciò che resta di un'esperienza drammatica e fallimentare nel dopoguerra prende quindi due direzioni diverse e alternative, per quanto non di rado in contatto. Da una parte abbiamo il culto spontaneistico e anarchico della violenza fine a se stessa; anche se di frequente, e per paradosso, diviene pratica organizzata ed eterodiretta da strutture più o meno occulte del potere. In tale prospettiva la violenza viene percepita come equivalente della gioventù, uno dei temi comuni alla speculazione culturale delle destre: la potenza primigenia e fondante della giovinezza, non a caso cantata come "primavera di bellezza". L'età anagrafica viene così traslata in funzione di premessa biologica ed estetica al processo di civilizzazione, l'elemento implicito di un ethos successivo.
In quella specifica declinazione nostrana alla cultura di destra, ed è appunto la vicenda ventennale del Fascismo, tende però, in seguito, a prevalere un secondo aspetto: la nostalgia.
Ma nostalgia di cosa?
La mia idea è che ciò che viene rimpianto dai "neofascisti light", la seconda categoria, più che una realtà concreta e determinata sia la rappresentazione fabulatoria di un mito. Che li vede al centro di un incrocio immaginario tra vita e storia, identità personale e partecipazione a un'esperienza comunitaria, la quale culmina e si identifica con l'angusto perimetro della terra e del sangue.
Nei neofascisti è dunque più bruciante che in altri la percezione di una ferita che non si rimargina: non quella della sconfitta militare e dell'affermazione, almeno formale, di una democrazia di stampo liberale e borghese, ma dell'esilio da una Terra mitologica; Terra più che promessa tramandata, in effetti. Da queste premesse si origina una fede totalizzante, ma anche l'assoluta confusione tra mito e storia, aspirazione emotiva e dato di realtà. Impasto indigesto e contraddittorio che si traduce nella vicenda emblematica di uno dei gerarchi più famosi. Achille Starace.
Achille Starace viene catturato la mattina del 28 aprile 1945. “Starace, dove vai?”, gli urla un gruppo di partigiani ancora incerti sulla sua identità. In tuta sportiva e modi all'apparenza spensierati, il passo svelto di chi ha consuetudine con lo sforzo ginnico, l'uomo da loro intravisto sta uscendo di casa per l'abituale corsetta. Tra le macerie di una Milano che sembra uscita da una pellicola neorealista, prima ancora che dai calcinacci spigolosi della realtà, Starace, come sempre, pensa innanzitutto alla forma fisica. A iniziare bene la giornata con un po' di jogging.
“Vado a prendere un caffè”, risponde dunque incurante mentre inizia a corricchiare.
Inutile aggiungere che nemmeno ventiquattro ore dopo si trova di fronte a un plotone di esecuzione. Ma non mancò, prima di cadere perforato dalla pallottole, di elevare il braccio teso al suo Duce. La cui sagoma dimagrita e livida stava già appesa con una canottiera bianca e lorda, la testa lucida e glabra da cui non smettevano colare i succhi umani, una piccola goccia scura dopo l'altra che dileguava nelle pieghe terrose di piazzale Loreto. La terra e il sangue, già...
Per quanto reso quasi completamente irriconoscibile dalle botte e dagli sputi, gli insulti feroci, infiniti e avvilenti gesti di rivalsa che non si arrestano nemmeno di fronte a un cadavere straziato, era lo stesso Duce che negli ultimi anni aveva iniziato a cestinare le lettere lamentose di Starace, invitando i collaboratori ad allontanarlo qualora avesse cercato di avvicinarsi.
Ecco, per me il neofascimo si riassume allora in queste immagini: il cane che lecca la mano di chi impugna il bastone, la compiacenza servile del suddito al proprio sovrano che lo umilia e lo sfrutta. E nella fotografia di Starace che esce di casa la mattina del 28 aprile 1945 per fare jogging, rispondendo cortesemente a chi lo chiama per nome.
In un comportamento autolesionista e intimamente delirante, si cela però, a ben guardare, anche il candore infantile dell'idiota sapiente. Dove l'idiozia starebbe appunto nella più completa mancanza di strumenti critici e analitici. Accompagnata dalla saggezza nell'intuire come un sogno che non è nemmeno più storico, a differenza della dottrina comunista, ma meta-storico, totemico, potremmo perfino azzardare "religioso", in quanto composto da una metafisica della presenza carismatica, possa riscattare il presente di una vita totalmente alienata da ogni parvenza di autenticità.
In altre parole io trovo che i neofascisti contemporanei, almeno quelli che si sono votati al culto di una pacifica nostalgia, da un certo punto di vista si pongono perfino in opposizione agli ideali e alla prassi originaria del Fascismo, che potremmo riassumere nell'azione tonitruante e nell'estetica sublime del gesto marziale.
Con ciò, come il loro modello effettivo che è appunto Starace e non certo Mussolini, i fascisti si sono trasformati in qualcosa come una mite setta dedita al culto moderno della memoria, dei monaci che seguono il precetto coranico della ripetizione, al netto dell'interrogazione. E così rammentano di continuo il tempo immaginario dell'Origine, lo onorano, lo glorificano deponendo una lacrima di eternità nella fontana sacra di Predappio. E poi le spille e i fasci e i gagliardetti appuntati all'orlo di una giacca in orbace, come il santino di Padre Pio infilato sotto al cuscino dell'ammalato.
Se bisogna cautamente riconoscere come il lenzuolo tricolore, pietosamente disteso sul volto sfigurato di ciò che è realmente avvenuto, sottraendolo a una lucida comprensione, potrebbe nascondere anche il ghigno di un futuro possibile che ripeta gli errori del passato, nella reverenza verso una memoria fittizia si cela anche il tarlo di un'interrogazione sempre più difficile da rimandare: chi sono io, qual è il nome a cui rispondo?
E in che modo, in seguito, questo nome può essere posto in relazione a una destinazione pienamente umana: "Starace, dove vai?" Quindi col nome di altri uomini e donne, una comunità in senso non solo economico, finanziario? O il nome si riduce a uno stigma burocratico, funzionale allo sviluppo tecnico e scientifico, strumentale e asservito a un progetto illuministico ribaltato...
Un illuminismo a testa capovolta, già, come le tristi salme che penzolano mollemente dalle transenne di piazzale Loreto, nella forma già intuita e descritta dalle pagine affilate di Adorno ed Horkheimer.
Ma non sono dei filosofi, i miei "amici" neofascisti. E così sbagliano la risposta, pazienza, questo lo abbiamo capito e siamo perfino disposti a perdonarlo, almeno quando il loro comportamento sia pacifico e improntato a un folclore nostalgico e solo un poco kitsch. Perché sono tra i pochi ad aver intuito l'attualità e l'urgenza non più differibile della domanda.

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