martedì 22 febbraio 2011

Babele

Questa sera mi è arrivata una mail privata, e non ne riferirò dunque i contenuti nel dettaglio. Non che in verità vi si dica molto. E’ semplicemente un messaggio di invito, in cui mia cugina, la mia unica cugina di primo grado, mi accredita alla presentazione della sua prossima collezione autunno inverno.

Ho un dubbio su come ora vengano chiamate le presentazioni delle collezioni di moda. Una volta, negli anni ottanta, le si chiamava semplicemente sfilate, anche se i più stronzetti dicevano alla francese defilè. Negli anni ottanta si era in molti a essere un po' stronzetti, e a seguire i defilè di moda. Chi come me si lisciava i lunghi capelli folti - io utilizzavo un gel chiamato Tenax che somigliava a "blob il fluido mortale", ma aveva lo stesso odore buono di mio nonno quando usciva dal bagno la mattina - e cariava i molari addentando enormi hamburger con la Ketchup, poteva seguire le sfilate di moda unicamente nelle brevi sintesi televisive. Generalmente venivano poste in coda ai telegiornali, poco prima o poco dopo i consigli medici per gli anziani. Non esistevano ancora Sky e le nuove infinite reti tematiche, ma di lì a poco, su Rete 4, sarebbe arrivato un programma che è l'eponimo di ogni successiva decadenza linguistica: "Nonsolomoda".

Delle giacche Armani con le spalline imbottite come oche da paté, già allora ci importava però poco o nulla, ma seguivamo le lunghe falcate di ragazze che portavano nomi come Carol Alt, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Elle McPherson, Carla Bruni, Christie Brinkley o Cindy Crawford, che era la mia preferita ma purtroppo già occupata. Cindy Crawford - il suo piccolo meraviglioso neo al lato della bocca… - era infatti la moglie di Richard Gere, di cui proprio in quei giorni usciva nelle sale Ufficiale gentiluomo, tempestivamente seguito all'enorme successo di American Gigolo. Memorabile la scena in cui il bel prostituto, dopo essersi appeso al soffitto capovolto per stirare le vertebre della schiena, dispiega gli infiniti abiti sopra al letto. Nessuna espressione, nessuna emozione apparente. Solo il principio di un sorrisino ai lati della bocca, tipico in chi ti chiude in faccia a Scala quaranta, irraggiando in un sol colpo le carte sopra al tavolino. Quindi, avendo ben valutato le sottili combinazioni cromatiche tra tessuti, giacche e camicie e cravatte sovrapposte, Richard Gere sceglie l'abito che meglio si accorda al proprio volubilissimo umore. Wow!

Gli anni ottanta stanno in fondo tutti in quella scena, a ripensarci. Il cui riverbero somiglia all'eco del Big Bang che si protende invisibile e silenzioso tra le galassie. E che ci porta, anche adesso, a migliaia di anni luce di distanza dal minuscolo neo di Cindy Crawford, a indossare enormi rose dei venti sopra a orrende felpe cerate, improbabili scarponi arancioni da carpentieri del Kentucky. O a schieraci al muro del narcisismo per la spietata esecuzione di una reflex, che avrebbe spalmato il nostro volto sopra alle pagine di una rivista; e ciò ben prima delle zuffe erotico-estetiche nel salotto della signora Costanzo. Sì, negli anni ottanta l'ho fatto pure io: il fotomodello…

Come in una trasmissione Mediaset poco prima che inizi la televendita, immaginate a questo punto che compaia un cartello con la scritta: "Ridete pure, ridete di brutto". Perché sono proprio io quello con i baffi e l'aria truce nella foto a lato. Io nella foto per il casting di un qualchecosa, chi se lo ricorda più...

In realtà il momento deflagrante le galassie non durò che una manciata di bottoni. E già molto prima che gli stessi Ottanta terminassero - parafrasando Eric Hobsbawm si può dire che gli anni ottanta siano stati il "decennio breve" - sono successe delle cose, altre cose. Tra le varie cose che sono successe, ad esempio, nel 1994 è "sceso in campo" Berlusconi. Ma già in precedenza quelle nuove cose avevano iniziato ad accadere.

La più rilevante tra tutte le cose che sono accadute, e che stanno continuando ad accadere, è che prima ancora che nei linguaggi pubblici e nella politica istituzionale, all'interno delle stesse famiglie, tra padre e figlio, cugino e cugina, ha iniziato a soffiare un vento altrettanto invisibile e silenzioso di quello del Big Bang, che ha sparigliato le camicie che Richard Geere aveva disposto ordinate sopra a un letto. E con i colletti inamidati anche le carte, le istruzioni per l'uso, insieme alle sillabe che hanno reso i discorsi incomprensibili e oscuri.

Ma questo non perché si fosse tornati a usare una lingua tortuosa e involuta come nel decennio precedente, gli anni settanta, con cui le BR compilavano gli odiosi temini dei loro comunicati mortiferi. Piuttosto, forse, perché hanno iniziato ad affermarsi e a legittimarsi culturalmente nuove forme di piacere - di "godimento" - tra loro alternative, attraverso cui l'Italia smetteva di essere sintonizzata sopra al suo tradizionale baricentro erotico ed alimentare. L'Italia prendeva così definitivamente congedo dalla sua antica cultura contadina, ma, anche, dalla stagione della ricostruzione e del boom industriale, le lotte sindacali e le rivendicazioni giovanili . Altri e diversi modi di intendere e godere la vita occupavano quindi il centro della scena. Il piacere diventa la prima preoccupazione, tanto che gli anni ottanta sono stati anche battezzati come il decennio dell'edonismo reganiano. Dando luogo a qualcosa come delle "comunità del gusto", che hanno iniziato a guardarsi con diffidenza e sospetto: il club dello zampone bollito contro quello degli spiluccatori di miglio crudo, non so se mi spiego?

L'effetto è stato molto simile all'implosione di un’enorme Torre di Babele – e gli anni ottanta sono stati il culmine di quella torre - che ha polverizzato le retoriche di questo paese in vernacoli tra loro incomunicanti. Ciò che è rimasto dei linguaggi civili su cui una comunità pone le proprie fragili fondamenta, è una segnaletica del tutto arbitraria e spesso anche reciprocamente incanaglita, che ha eletto il piacere personale a sua instabile bussola. "Noi siamo quelli a cui piacciono le belle donne e non i gay", dice ad esempio, della sua parte, lo stesso Berlusconi. E parla proprio di piacere, afferma il piacere come elemento discriminante, rendendo i risvolti pruriginosi della propria biografia non solo accidentali, ma emblematici di un nuovo corso politico e culturale.

Lo stesso possiamo però affermare tranquillamente anche della sponda contrapposta, con Veltroni che ridiscende dal monte Kennedy con le tavole della legge di un diverso godimento intellettuale. Il cinema americano del dopoguerra, certo jazz soffuso e sofisticato, la canzone e l'arte popolare in un'estensione che allaga e dilegua fino alle figurine Panini. E sono pensieri, o meglio idee, sensazioni che infine attecchiscono e da cui germoglia una nuova percezione della politica. Come tanti minuscoli alberelli conficcati nell'immaginario collettivo, un'agopuntura della coscienza per dirigere il flusso simbolico del corpo sfinito della polis, sempre più simile al plastico miniaturizzato a Porta a porta, sostituendo questi piaceri "light" al nucleo duro e pesante che sta alla base del concetto di classe. Se una classe sociale è tradizionalmente costituita da un gruppo di persone unite sulla base dell'interesse, o da un comune denominatore traumatico (lo sfruttamento dei padroni, ad esempio, la sofferenza del tirare a campare), le nuove comunità politiche appaiono dunque come ribaltamento delle stesse premesse associative, che si fanno realmente leggere come una canzone leggera di Jovanotti. Al punto che anche i tradizionali piaceri gastronomici - pensiamo ad esempio al fenomeno dello Slow Food - diventano elementi generatori di identità prepolitiche, costituendosi quali premesse culturali di un universo di sensibilità ormai definitivamente ludiche, in rapida e accelerata distanza tra di loro. Non si ritorna indietro dopo il Big Bang.

Un fenomeno analogo, come da alcuni sociologi è stato intuito, riguarda però anche tutti gli altri paesi del “blocco occidentale”, come sempre fino agli anni ottanta si diceva. Il berlusconismo, a mio modo di vedere, più che una causa è un epifenomeno di tutto ciò. Se non ci fossero state le sue televisioni a impalcare quei modelli di piacere nel nostro etere sfrigolante, in altri modi, ma soprattutto attraverso altri soggetti e interessi economici, si sarebbero affermati ugualmente. Il piacere è da lui solo reificato in ostensione biografica: Berlusconi è una sorta di "parusia" di tutti i godimenti immaginari.

Meno male che Silvio c'è non significa forse altro che meno male che non viviamo solo di desideri, di soffici rêverie, meno male che i sogni possono diventare realtà, mentre la realtà si alleggerisce delle zavorre traumatiche fino a raggiungere la volubile consistenza di un sogno, senza per questo sparire. E dunque meno male che qualcosa c'è, piuttosto che niente...

Distogliendo per un attimo lo sguardo dal corpo mistico del sovrano, che è il vero testimonial del suo pensiero, e aprendo a caso una pagina dell'Espresso - magari la pagina di una di quelle pubblicità cosiddette "occulte" - ritroviamo però una simbologia che rimanda ai medesimi piaceri. I modelli, gira e rigira, quelli sono. Differenziandosi solo nelle tonalità affettive e cromatiche dei messaggi, che in fondo sono un altro modo per evocare le sottigliezze del gusto. Ma contribuendo, a questo modo paradossale, in cui da una parte ci si nega (criticando Berlusconi e il berlusconismo) e dall'altra ci si offre al piacere più sensuale ma anche astratto delle merci, alla crisi dei linguaggi civili e delle forme di rappresentazione, ossia di titolarità di un'esperienza effettivamente vissuta. Il cui sviluppo, ricordiamolo ancora, è condizione di ogni discorso politico basato sul principio di realtà.

"Il reale è un angolo nel panorama dei possibili", scriveva Baudelaire.

Quando implodono tutti codici di comunione linguistica, c'è dunque più di una ragione per sospettare che sia la stessa realtà a vacillare, le forme non solo simboliche in cui gli uomini fanno concreta esperienza del mondo. Così senza il sostegno di una terra e il bastone di una lingua, non rimane altro che la retorica della guerra, quale estremo scivolamento preverbale tra comunità estetiche contrapposte. Guerra agita o guerra mimata nell'insulto, somatizzata nel disprezzo. Però prima che lo scisma sia compiuto e definitivo, è forse possibile reperire altre forme di mediazione - nei sensi prima ancora che nelle parole -, quasi un provvisorio ponte di barche tra le molte caste babeliche che non riescono più a comunicare. E se non ancora sostitutive di un discorso pubblico compiuto, queste barchette beccheggianti e costituite appunto da un'ancora confusa semiosi del corpo, potrebbero rappresentare un'apertura a quel panorama dei possibili di cui parlava Baudelaire. Qualcosa come una premessa normativa, ecco, l’accordo umano verso un nuovo e diverso alfabeto.

Proverò dunque a ricercare le tracce di questo ipotetico alfabeto – chiamiamola “lingua potenziale” - dal trascurabile evento personale a cui ho già brevemente accennato: la mail di mia cugina. Al punto che quando mi è arrivato l’invito alla sua sfilata, e dopo aver letto attentamente la descrizione degli abiti della collezione, accidenti, ma proprio non ho saputo cosa risponderle, l'immagine del Devoto Oli che si frantuma in tanti coriandoli esplosi. Forse perché nel frattempo non ho più i baffi, come quando mi accordavo al testo degli anni ottanta recitando anche io la mia parte nel coro. E nemmeno tutti quei capelli sopra alla testa, l'odore buono e agrumato del Tenax, che ricordava quello di mio nonno che mi seguiva anche mentre impennavo con il PX, il vespone dai fianchi larghi e accoglienti come quelli di Cindy Crawford. Sono successe troppe cose, troppe cose davvero. O forse nessuna…

Quando esco a pranzo con mio padre, ad esempio. Anche a lui non so mai cosa rispondere. Estrae allora dal loden verde, ben riposto sopra una gruccia del ristorante dove abbiamo appuntamento per pranzo, un pacchettino di ritagli di giornale selezionati appositamente per me, quindi me li porge - meglio: me li dona - cercando la complicità tipica fra lettori (ciascun lettore cerca un “co-lettore”, suggerisce lo scrittore svizzero Peter Bichsel in un piccolo prezioso libricino, intitolato “Il lettore il narrare”). E sono, in genere, articoli pazientemente ritagliati dalla pagine “culturali” di Libero oppure del Giornale, da Panorama. Che lui in seguito appunta indicando data, tema e provenienza, in una calligrafia che gli ho sempre invidiato. E anche in quel caso, come con mia cugina, io continuo a non sapere cosa rispondergli, cosa rispondere a mio padre. Non capisco, cerco di leggere e però mi sfugge la grammatica turgida che sta alla base di quei giornali. Certo il suo gesto è bello, ma…

Troppe cose, sì. O forse nessuna, nessun fatto. Solo un altro gusto.

Negli anni cinquanta, quando l'Italia era appena uscita da una guerra fratricida - il fratello che spara al fratello, il cugino al cugino, altro che sfilate di moda e Ruby Rubacuori- negli anni cinquanta gli italiani si parlavano ancora in una lingua in cui risuonavano gli stessi accenti. Basta guardare un qualsiasi film con Gino Cervi e Fernandel, che hanno saputo dare carne e sangue agli archetipi universali (proprio perché così particolari) di Peppone e Don Camillo. Magnifica sintesi drammaturgica di due Italie diverse, alternative e perfino opposte, ma accordate dentro lo stesso diapason di umana compassione, appetiti alimentari e spacconate da strapaese. Questa consonanza patetico-gastronomica – e viene in mente anche Alberto Sordi con cappelletto e stivali da teddy boys, la tazza di latte freddo colma di corn flakes, da cui dirotta verso i "maccaroni" dimenticati pietosamente sul tavolo da mammà – questa consonanza basica che proviene da un fondo atavico di disincantata empatia, ha assicurato la persistenza e lo sviluppo di una lingua comune tra le persone, anche dentro le incompatibili aspirazioni programmatiche della scena politica di allora: da una parte i fascisti, al centro i democristiani e dell'altra parte i comunisti; con qualche spruzzata liberale e socialista e repubblicana qua e là, tanto per non farci mancare niente.

Eppure erano tutti e davvero italiani. Italiani che, indistintamente, si giravano ai tavolini degli infiniti bar sport al passaggio delle stesse femmine ancheggianti. Quindi riprendevano a bere un Cynar e a scannarsi su Stalin, il Papa e Mussolini. Salvo poi, pochi minuti dopo, zittirsi e girarsi nuovamente al rombo di una Lancia Aurelia sgommante, come quella da cui Gassman strombazza garrulo e spensierato nel Sorpasso di Dino Risi.

Ma se guardiamo alla politica contemporanea, potremmo dire lo stesso? I differenti menu politici esposti dai raffinati chef della destra e della sinistra attuali, si giocano entro lo scarto di poche centinaia di euro di tassazione, nel lenzuolo tirato un poco più alto o più in basso, lasciando sempre scoperti i talloni o le basette. Nella sostanza stanno davvero a un passo (a un passo dalle Sacre Leggi del Mercato), ma nella forma linguistica e simbolica si esprimono attraverso idiomi incomprensibili gli uni dagli altri, riconoscibili solo dentro i confini fonetici della propria tribù. Lingue che non sono più ricomposte dentro una medesima koiné civile, in una lingua franca dello stare assieme.

Ed è forse la stessa parete verbale contro cui incoccio con mia cugina stilista; oltretutto io e lei, ed è più che un sospetto, votiamo per lo stesso caravanserraglio politico, e cioè a sinistra. Quindi il problema è politico solo in un senso molto lato o successivo, e direi piuttosto antropologico. Al punto che di fronte al linguaggio con cui è presentato il suo lavoro sartoriale, continuo a rimanere afono: una parete, realmente. Un muro. Lo stesso quando ascolto gli aggettivi con cui trapunta le rare conversazioni telefoniche:"carinissimo" ad esempio, che è il superlativo di un diminutivo, roba da far impazzire le capacità processuali dei miei neuroni. E ora i miei poveri neuroni sono sottoposti all'incombere minaccioso della sua mail, in cui con gentilezza perentoria mi invita a un'imminente sfilata di moda. Io e la mia famiglia abbiamo perso le parole per comunicare, ecco.

Dopo una guerra civile con bombe e fucili, mi viene così da pensare, in questo paese è scoppiata una guerra meno sanguinosa ma ugualmente drammatica: la guerra civile dei linguaggi. Che parte dal tintinnio degli happy hour giù giù fin dentro al grembo opaco e furibondo delle parole.

Un esempio di dichiarazione di guerra è il modo in cui Vogue Italia definisce gli abiti di mia cugina, che per quella rivista ovviamente autorevole - titolo che ormai non si nega più a nessuno - sono "creazioni sartoriali post atomiche". Proseguendo, all’interno dello stesso articolo, a questo modo: "Nella collezione 2010\2011 si contendono la scena i drappeggi e la tendenza sartoriale: abiti semplici con complessità couture, dove il lusso è nonchalante e si armonizza con tagli innovativi. In una liason tra moda, sostenibilità e tecnologia, i tessuti hanno nomi da fantascienza".

Esiste una foto bellissima scattata forse da mio zio, in cui io e mia cugina ci troviamo al Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano. Millenovecentosettantatré o settantaquattro, il tempo deve essere quello. Alle nostre spalle - la foto è verticale e noi ne siamo al centro, ripresi a figura intera - è intuibile la sagoma massiccia di una vecchia locomotiva a vapore, di cui scorgiamo solo le grandi ruote motrici unite dagli assali. Mia cugina Alessandra indossa una cuffietta di pelo scuro, un cappotto striminzito, che le arriva appena sopra le ginocchia, da cui proseguono due gambette esili e dritte infilate dentro a calzini bianchi e leggeri, che stridono con la cuffia per "temperatura percepita". Io le sono coetaneo ma di statura superiore, e forse per ricercare una maggiore intimità fisica tengo le gambe incrociate e flesse, faccio un po' lo scemo come scusa per adeguarmi alla sua altezza. Il mio cappotto è appena più lungo e pesante, sembrerebbe a doppio petto. Faccio decisamente lo scemo, sì, nelle forme tipiche di un innamorato felice, che appoggia il capo al capo della sua bella - ora che osservo meglio mi accorgo che portiamo entrambi la frangetta - mentre con la mano l'abbraccia e la protegge.

Non vorrei pigiare troppo sui facili accordi sentimentali, mimare la voce tremula di un cantante da piano bar, ma questa immagine a me sembra possedere qualcosa di struggente, o meglio ancora di “originario”. Una confidenza umana che scaturisce dalla forza viva del corpo, da un riconoscimento immediato che non ha bisogno d'altro se non dello specchio chiaro della pelle – forse è la nozione arcaica di parentela, che discende da partorire -, prima che possano manifestarsi le parole di un discorso vero e compiuto. E' da dal testo nudo e crudo di questa fotografia, la semplice immagine di due bimbi colti in momento di gaia spensieratezza, che vorrei allora ripartire per cercare di rispondere alla mail di una giovane donna che si sta affermando nel mondo della moda, nella speranza di acciuffare a questo modo la ragioni che altrimenti mi sfuggono. Come se a parlare fossero le nostre sagome di un tempo, da cui scaturiscono le parole come dentro la bolla dei fumetti.

“Cara Alessandra” dice dunque il bambino con i denti sporgenti e il cappottino con il doppio petto, “io non verrò alla sfilata della tua collezione autunno inverno. Però ti assicuro che ce ne ho messa di buona volontà, ma proprio non mi riesco a ficcare in testa cosa cavolo vuol dire una creazione sartoriale post atomica, o come si fa ad avere una liason tra moda, sostenibilità e tecnologia, quando io pensavo che stavamo parlando solo di vestiti. O forse è che a scuola non ce le hanno ancora insegnate, queste parole qui. Il prossimo anno ce lo spiegherà probabilmente la maestra. Nel frattempo ti giuro che ci ho pensato a lungo, anche mentre giocavo con quelle fialette gialle che mi hai regalato tu. Poi le ho scagliate in terra nello spogliatoio delle bambine e sono scappato via, assicurandomi prima che si fossero spiaccicate in mille pezzi. Ci ho pensato ma adesso non riesco e non posso e non voglio capire, come può esistere una cosa che si chiama lusso nonchalante. O magari è il mio gusto, tutto qui. Il mio gusto a preferire parole come cazzarola e a non essere nonchalante. Eppure io penso che anche i bambini piccoli come noi - stiamo imparando solo ora a scrivere, io mi macchio sempre con l'inchiostro - io penso che c'è un momento, un punto in cui anche i bambini possono capire. Come quando rientriamo sudati dall’intervallo, o nel finale di un film di quel regista, sai quello che piace ai nostri papà e che prende sempre le attrici con le mammelle grosse, un momento, un punto, un eppure…"

…eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…

Mica tanto, solo un po’ di silenzio. Ed era un Benigni più lunare che mai, a sussurrarlo ne La voce della luna di Federico Fellini. Quel sacrosanto e urgente silenzio che forse riuscirebbe a farmi capire anche cosa vuole comunicarmi mio padre, con i suoi articoletti, ben piegati e rubricati, ritagliati dal fervore linguistico di Libero o il Giornale. E lo so - l'ho imparato - che è ancora e semplicemente il suo gusto, la forma che il piacere ha preso dentro la biografia di mio padre. Ma a me quel suo gusto non piace e non lo capisco. E gusto evidentemente anche quello di una giovane donna con capacità e talento, gusto linguistico a me totalmente incomprensibile, niente più che gusto, quando mia cugina si produce in creazioni sartoriali post atomiche. Assegnandogli poi dei nomi di fantascienza, ma così complessi di couture, davvero troppo complessi… perché si possa umanamente comprendere cosa accidenti sia un lusso, un lusso nonchalante!?

Un po' di silenzio, Alessandra. Dimentichiamoci allora anche dei nostri gusti e facciamo un po' di silenzio. E lo chiedo e lo offro anche a te, papà. Silenzio e bambini che stanno abbracciati di fronte a un'enorme locomotiva, prima che la caldaia vada in pressione e lo sbuffo nero se li porti via.

Ma dopo qualche minuto di silenzio, proviamo a ridare voce al nostro Castorino, ancora molti anni in là – un romanzo di fantascienza, in pratica – dal pensare anche solo lontanamente di poter diventare un giorno un fotomodello. Che dal cuore pulsante degli anni ottanta sfila con lusso, con lusso... sì, insomma, quella parola lì:

“Cara Alessandra, ora che sono nuovamente vicino alla tua cuffietta di pelo morbido e scuro, sento qualcosa, la sento con il naso, e quella cosa io penso che è il tuo odore quella cosa che sento. Ma non somiglia per niente alle fialette che ho rotto nello spogliatoio delle bambine, ho fatto come mi avevi detto tu. Poi però ho dato la colpa all'Assunta, ho detto che era stata l’Assunta a mollare una scureggia, e tutti abbiamo riso forte. Perché è un odore buono, invece il tuo. Ricorda quello che ha nostro nonno quando esce dal bagno con la canottiera azzurra, e se ci vede che lo spiamo ci insegue gridando sangue di Budda, sangue di Budda, così per farci sorridere un po’ mentre la nonna gli dice di andarsi a rivestire. Ed è anche l’odore del mio papà, lo sai Alessandra? Un odore un po’ di limone e un po' di lavanda e un po' di erba che non ha fretta di diventare fieno, a me sembra. Ma che ne so poi io del nome degli odori... Perché gli odori si sentono, mica si parlano."

E piano piano, dicendo queste parole, il fumetto dilegua dal capo reclinato del Castorino, non si riescono più a leggere le sue lettere, mentre l'immagine torna muta e sorridente. Silenziosa. Tanto che forse dovremmo ricominciare a costruire la nostra torre proprio da lì: da quella fotografia che ci ritrae, come dovrebbe essere sempre una famiglia e forse anche un paese. Attento, silenzio e attento al proprio odore. E questo te lo dico adesso, Alessandra, che abbiamo quarantaquattro anni suonati e molti capelli dimenticati in chissà quali intervalli, almeno io. Però ora ho i denti dritti come le pareti della casa della Barbie, e tu, come sognavi, sei diventata una stilista brava e affermata. Io invece a prendere i bisonti al lazo non l'ho mica ancora imparato...

Silenzio e odore, dai, proviamoci ancora per una volta?

E chissà che poi non tornino anche le parole belle e semplici di un tempo, come nelle imprecazioni del nonno e nelle storie dello zio Cesare, quelle che ci raccontava la nonna prima di addormentarci e di cui era protagonista lei bambina - la nonna bambina, che ossimoro delicato... - in un vecchio casale dove c'era sempre e solo nebbia. Non ce l'ha mai raccontato, ora che ci penso, la nonna non ce l'ha mai rivelato dove si trovava quel posto di nebbia e bambini. Ma adesso forse lo intuisco e mi viene un po' da piangere... Storie dove i vestiti erano vestiti, servivano a ricoprire i bambini quando avevano freddo, per colpa della nebbia, e non erano atomici e "nonchalanti". Erano semplicemente vestiti. E poi silenzio, ancora. Silenzio e odore e nebbia.

Però promettimi che poi non rompi una di quelle tue fialette gialle e dici che sono stato io, mentre sono girato a guardare sfilare i tuoi abiti drappeggiati. Che sicuramente saranno bellissimi anche quelli, quando la nebbia si diraderà e noi potremmo finalmente vedere, ascoltare. E magari sarà lo stesso giorno in cui questo paese ritroverà le parole per parlare. Per parlarci.

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