Una quindicina di anni fa si è suicidata la madre di
un mio amico gettandosi nell'Adda, là dove il fiume si biforca prima del ponte che
collega Sondrio ad Albosaggia. Aveva perso un figlio, Federico, il mio amico, in un
incidente stradale. Da allora viveva in uno stato di dolente torpore,
intervallato dai rari soprassalti che, al risveglio, le procurava l'ascolto dei nastri
registrati mentre la dose notturna dei sonniferi faceva effetto, e in cui le pareva di riconoscere la voce
di Federico. È questo il modo che hanno i morti di
comunicare con noi, le aveva detto qualcuno.
Avrei dovuto essere in auto con lui quella notte
del 1987, ma mi stavo annoiando al Vogue, la discoteca dove eravamo andati a bere un
paio di Gin Tonic e vedere se riuscivamo a rimorchiare; peccato che le ragazze
fossero già tutte accompagnate, nemmeno tanto belle a dirla tutta. Giudizio che,
allora, si poteva pronunciare senza decorosi eufemismi, in una disposizione non troppo
diversa dalla sosta di fronte alle vetrine dei negozi del centro. In
quei momenti la forma è già sostanza, e a smontare il giocattolo
il più delle volte si resta delusi. Poco male se, a nostra volta, finivamo con
l'essere inclusi nella cornucopia degli anni Ottanta, dove l'occhio che ti scruta somiglia
alla paletta dei giurati di Miss Italia.
Nonostante la base elettronica di Relax, la mia
canzone preferita, stesse subentrando alla coda di It's a Sin dei Pet
Shop Boys, ho così approfittato del passaggio offerto da
un tizio robusto col ciuffo; quando gli cascava sui Ray-Ban lo ricacciava in
alto soffiando con il labbro posto a balconcino, in un gesto che era poi
diventato un tic. Potevi riconoscerlo perfino di spalle, magari mentre al bar giocavi
a Pac-Land, versione aggiornata e peggiorata di Pac-Man, dal suono sibilato dell'aria che mitragliava ciuffi ormai del tutto ipotetici. Ciao Piero, gli dicevi senza girarti
Era infatti anche lui un amico, ma di quelli che vedi
raramente e il più del tempo lo passi a dare e ricevere pacche sulle spalle,
riproponendosi uscite poi sempre rimandate. Mentre declinavo il timbro sulla
mano con cui il buttafuori voleva marcarmi (no, non rientro) prima di varcare in senso inverso il portoncino blindato posto all'ingresso del Vogue, giusto il tempo
di ascoltare: relax, don't do it / when you wanna go do it / relax, don't do
it / when you wanna come...
Il giorno in cui la madre del mio primo amico ha fatto ciò che ha fatto, un terzo amico, appena terminato il lavoro, l'ha
incrociata per strada. Il suo ufficio sta a un centinaio di metri dal ponte,
l'acqua che scorre di sotto era quella gelida e scura dei mesi invernali, e a posteriori abbiamo intuito dove
la donna fosse diretta. Pedalava con foga su una bicicletta di tipo
Graziella, lo sguardo acceso fissato su un punto che vedeva solamente lei,
esercitando la stessa attrazione della calamita con la limatura del ferro.
Sembrava, come dire... e qui il mio amico ha un momento di esitazione – massì:
sembrava finalmente felice.
Quel tipo di felicità di cui oggi colgo un prenatalizio bagliore. Lo sbaglio era stato nel collocarla all'inizio, nell'età
dell'oro, nel tempo lieto delle felpe Stone Island e delle Vespe PX con
l'adesivo di Radio Studio 105, dei Frankie Goes to Hollywood con la loro Relax.
Invece stava alla fine, nel tempo della limatura del ferro, già si intravedono le prime tracce di ruggine. Dai Guido, una piccola pedalata ancora, il
fiume è paziente, sa aspettare. Non come una madre che conta i minuti
nell'attesa notturna del figlio, ma come fa il figlio con la madre. Basta cambiare solo
una piccola parola nel refrain: relax, then do it...
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