domenica 19 novembre 2023

Relax

 

Una quindicina di anni fa si è suicidata la madre di un mio amico gettandosi nell'Adda, là dove il fiume si biforca prima del ponte che collega Sondrio ad Albosaggia. Aveva perso un figlio, Federico, il mio amico, in un incidente stradale. Da allora viveva in uno stato di dolente torpore, intervallato dai rari soprassalti che, al risveglio, le procurava l'ascolto dei nastri registrati mentre la dose notturna dei sonniferi faceva effetto, e in cui le pareva di riconoscere la voce di Federico. È questo il modo che hanno i morti di comunicare con noi, le aveva detto qualcuno.

Avrei dovuto essere in auto con lui quella notte del 1987, ma mi stavo annoiando al Vogue, la discoteca dove eravamo andati a bere un paio di Gin Tonic e vedere se riuscivamo a rimorchiare; peccato che le ragazze fossero già tutte accompagnate, nemmeno tanto belle a dirla tutta. Giudizio che, allora, si poteva pronunciare senza decorosi eufemismi, in una disposizione non troppo diversa dalla sosta di fronte alle vetrine dei negozi del centro. In quei momenti la forma è già sostanza, e a smontare il giocattolo il più delle volte si resta delusi. Poco male se, a nostra volta, finivamo con l'essere inclusi nella cornucopia degli anni Ottanta, dove l'occhio che ti scruta somiglia alla paletta dei giurati di Miss Italia.

Nonostante la base elettronica di Relax, la mia canzone preferita, stesse subentrando alla coda di It's a Sin dei Pet Shop Boys, ho così approfittato del passaggio offerto da un tizio robusto col ciuffo; quando gli cascava sui Ray-Ban lo ricacciava in alto soffiando con il labbro posto a balconcino, in un gesto che era poi diventato un tic. Potevi riconoscerlo perfino di spalle, magari mentre al bar giocavi a Pac-Land, versione aggiornata e peggiorata di Pac-Man, dal suono sibilato dell'aria che mitragliava ciuffi ormai del tutto ipotetici. Ciao Piero, gli dicevi senza girarti

Era infatti anche lui un amico, ma di quelli che vedi raramente e il più del tempo lo passi a dare e ricevere pacche sulle spalle, riproponendosi uscite poi sempre rimandate. Mentre declinavo il timbro sulla mano con cui il buttafuori  voleva marcarmi (no, non rientro) prima di varcare in senso inverso il portoncino blindato posto all'ingresso del Vogue, giusto il tempo di ascoltare: relax, don't do it / when you wanna go do it / relax, don't do it / when you wanna come...

Il giorno in cui la madre del mio primo amico ha fatto ciò che ha fatto, un terzo amico, appena terminato il lavoro, l'ha incrociata per strada. Il suo ufficio sta a un centinaio di metri dal ponte, l'acqua che scorre di sotto era quella gelida e scura dei mesi invernali, e a posteriori abbiamo intuito dove la donna fosse diretta. Pedalava con foga su una bicicletta di tipo Graziella, lo sguardo acceso fissato su un punto che vedeva solamente lei, esercitando la stessa attrazione della calamita con la limatura del ferro. Sembrava, come dire... e qui il mio amico ha un momento di esitazione – massì: sembrava finalmente felice.

Quel tipo di felicità di cui oggi colgo un prenatalizio bagliore. Lo sbaglio era stato nel collocarla all'inizio, nell'età dell'oro, nel tempo lieto delle felpe Stone Island e delle Vespe PX con l'adesivo di Radio Studio 105, dei Frankie Goes to Hollywood con la loro Relax. Invece stava alla fine, nel tempo della limatura del ferro, già si intravedono le prime tracce di ruggine. Dai Guido, una piccola pedalata ancora, il fiume è paziente, sa aspettare. Non come una madre che conta i minuti nell'attesa notturna del figlio, ma come fa il figlio con la madre. Basta cambiare solo una piccola parola nel refrain: relax, then do it...

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