Il dibattito di questi giorni sul patriarcato mi ha ricordato una battuta pronunciata da Kant, che per una volta mostra di possedere non solo intelligenza ma anche senso dell'umorismo: c’è un genere di medici insinua il filosofo di Königsberg, i medici della mente, che pensano, ogni volta che trovano un nome, di aver trovato una malattia.
Ora quella frecciatina andrebbe forse ribaltata di
segno, già che nel suo significato letterale – e cioè aderendo alle categorie
antropologiche da cui proviene – il termine patriarcato è del tutto improprio a
descrivere il presente: è una vecchia parola per definire una nuova malattia.
Il patriarcato, come ha ricordato Massimo Cacciari
ospite da Lilli Gruber, può essere sintetizzato dal concetto di patria
potestas, che prima delle parole latine che lo esprimono (in questo aveva
ragione Kant: le parole arrivano quasi sempre dopo le cose, quando non le
generano come nella buona novella cristiana) si manifesta in Occidente a
partire dall'invasione dei Dori, intorno alla metà del secondo millennio a.C.
Quindi si consolida nelle successive ondate ariane dall'Asia centrale, che dilagando nelle
terre del tramonto importano il loro modello sociale fondato sulla
tripartizione tra sacerdoti, guerrieri e contadini o piccoli artigiani. Tutti maschi, naturalmente.
L'organizzazione anteriore può essere solo ipotizzata
– il matriarcato? – ma è certo che da quel momento in poi il padre ha un
dominio totale sulla famiglia e l'uomo sulla comunità, con interessanti
variazioni che però non ne stravolgono il modello. A Sparta, ad esempio, la
donna aveva un ruolo molto più rilevante che ad Atene, dove ci si stupiva che
Pericle compisse dei gesti pubblici di tenerezza verso la compagna Aspasia.
Poi il patriarcato entra in crisi, come è evidente,
continua Cacciari, nelle tragedie shakespeariane: Otello, Macbeth e Lear sono
tutti maschi la cui potestas vacilla, senza però crollare come avverrà a
seguito della rivoluzione industriale con conseguente urbanizzazione, dando vita alla classe
borghese che si accompagna alla fine del patriarcato. Un mondo ancora
ampiamente sbilanciato verso il lato maschile, ma in cui l'eccezione alla
regola si fa quantomeno licenza.
È di nuovo l'arte a testimoniare il cambiamento: tra
Emma e Carlo Bovary, poniamo, chi guida e chi è guidato? A me sembra che si
siano persi entrambi; con la differenza che Emma cerca nuove direzioni al suo
malessere, finendo con l'essere travolta da quella bussola ingannevole che è il
desiderio mediato, mai davvero suo, e Carlo si involve, ripiegando su sé stesso
come un fiore senza acqua.
Lo psicoanalista Massimo Recalcati concede al
patriarcato un ulteriore secolo di sopravvivenza, anche se io sarei più
propenso a chiamare quella fase di trapasso maschilismo – l'epoca dei vari
fascismi lo fu al massimo grado, con significative differenze tra nord e sud,
campagne e città – culminando comunque nel 1968. Da lì in poi nulla è stato
come prima.
Carlo Bovary o Zeno Cosini o, ancora, i maschi inetti
alla vita nelle opere di Cechov, divengono così l'emblema involontario del
maggio francese, e la dolente involuzione del loro status virile non si
discosta molto dal presente digitalizzato; mentre nelle donne il bovarismo si
converte in rapporti sempre più saldi con il reale, emancipandosi dalla pappa
di sogno romantica.
In una percentuale minoritaria di maschi, il progressivo
svuotamento di potere sulla donna che smette di essere davvero propria, se non nei testi delle canzoni, si traduce in rabbia e rancore; ed è la probabile altra faccia della medaglia costituita dallo sconcerto provato da chi ha compiuto diciotto anni il
20 settembre del 1958, giorno in cui la legge Merlin imponeva la chiusura dei
bordelli. E io…? avranno pensato i più focosi tra di essi, in un sentimento di
espropriazione che è tutto il contrario dell’onnipotenza simbolica confezionata
dal sistema patriarcale.
Dal punto di vista testosteronico, ossia limitato alla
sola forza fisica e non biologica, gli uomini rimangono però potenzialmente
dominanti, e così a qualcuno potrebbe venire la tentazione di infrangere la
teca in cui lumeggia l'oggetto desiderato, guardare ma non
toccare. No, io voglio dunque io posso, è la reazione di quei pochissimi alla
perdita del regno. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli,
ancora recita una preghiera rivolta a un maschio caucasico anziano e con la
barba.
È questo il pensiero anche di Erri De Luca che, senza
l'assertività spiccia di Cacciari o le volute intellettuali barocche di
Recalcati, ma con la dolcezza partenopea che lo contraddistingue, parla di
sentimento maschile della disgregazione. Quella disgregazione del maschio che
nel cinema ha trovato forse la migliore sintesi nelle pellicole di Marco
Ferreri; rispetto al languore romantico o alla vertigine primonovecentesca
fotografano un elemento più attuale: la donna percepita come alterità
ontologica assoluta, e non solo come subalterna emancipata.
Peccato che nel cinema contemporaneo non sia presente
quell’acutezza di sguardo, sempre accompagnato da una poetica bizzarria, affettuoso sberleffo di chi non giudica ma apprende. Pensiamo alla pur apprezzabile pellicola di
Paola Cortellesi: l'impegno civile è qui massimo, ma flette la coscienza analitica
che dovrebbe fargli da sfondo, restituendo una vicenda particolare che non
riesce guadagnare risonanza universale, farsi stemma di mondo. Si ha piuttosto l'impressione che cerchi di dare un
vecchio nome alla confusione instabile del presente. E invece dovremmo fare ciò
che Kant rimproverava a un genere di medici, i medici della mente: cercare
nuovi nomi, nuove forme e ragionamenti. Più complessità, insomma.
Ma va bene partire anche da lì, Cortellesi, più che i
fasti di un ormai inesistente patriarcato, ci ha mostrato gli strascichi di
quella cultura sopravvissuta oltre due millenni; non un canto del cigno, ma
l’ululato del lupo braccato dai cacciatori. Ora sarebbe bello che qualcuno ne
afferrasse il testimone e sviluppasse il discorso, lo precisasse. A un tempo
complesso parole e immagini complesse. Nuove.
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