sabato 11 novembre 2023

Don't You Want Me

Nel 1981 me ne ero andato di casa dopo l'ultimo pugno ricevuto da mio padre. Era appena terminato il Festival di Sanremo – Riccardo Fogli aveva vinto con Storie di tutti i giorni, ma il premio della critica era andato a Mia Martini  , e febbraio cominciava in una poco fantasiosa replica di gennaio, con la neve che sembrava non si sarebbe più sciolta. Da Natale grossi cumuli grigiastri trapuntati dalle cacche dei cani invadevano i marciapiedi, a qualche metro di distanza l'alone dorato dell'urina. Mai fare due cose contemporaneamente.

La prima notte l'ho trascorsa nella soffitta di non so chi, non mi pare di aver provato emozioni particolari, avevo solo quindici anni e vestiti troppo leggeri. La mattina seguente sono andato al bar per cercare di rialzare la temperatura del corpo, dove ho incontrato Igor che stava facendo colazione. Un ragazzo di qualche anno più vecchio di me, esattamente non so quanti, però almeno quattro. Aveva infatti già la patente e una Citroen GS color tabacco parcheggiata di fronte alla vetrata con la scritta Mach II. Di solito, lì, mette l'auto chi deve andare in ospedale, fortuna trovare il posto libero.

Non particolarmente alto, nemmeno basso, Igor era una persona normale, gentile e cordiale con tutti ma in fondo senza veri amici, quelli a cui affidi la lettera da consegnare alla ragazza che ti piace. Lo conoscevamo perché ogni tanto si fermava anche lui al Mach II per una partita a scala 40. "Non sei a scuola?" mi ha chiesto accendendosi una Marlboro. Per il poco che mi conosceva non sembrava sorpreso dall'incontro.

"Sono scappato di casa."

Una risposta che deve essergli apparsa normale, come tutto il resto, e convincente, tanto che per un po' non mi ha chiesto più nulla. Siamo così rimasti al bancone: lui ad aspirare e sbuffare il fumo e io a girare il cucchiaio nel cappuccino (ben caldo avevo aggiunto al momento dell'ordinazione) che nel frattempo mi aveva offerto dopo aver visto il colore delle mie mani; nella concitazione della fuga avevo dimenticato di prendere il portafogli. Poi ha ripreso: "Vuoi venire a Caspoggio con me, sto andando a sciare?"

Immagino di avergli risposto sì, la memoria mi restituisce un film ellittico, sensoriale. Nella scena successiva il rumore dei grani di sale sparsi sulla strada frantumati dagli pneumatici con le gomme chiodate, le sospensioni morbide della Citroen che ci cullano a ogni buca, e poi ancora sigarette e musica, ad alto volume. Le note sono quelle percussive di Don't You Want Me degli Human League.

Il fatto è che la stessa canzone – ne sono certo – ha continuato a uscire dalle casse conficcate nelle portiere al distributore, mentre un omone con un berrettino di lana turchese chiede se la benzina la vogliamo normale o super, durante i tornanti che portano in Valmalenco, nel parcheggio della seggiovia, perfino al ritorno verso giornate da inventare, come se fossi l'apripista di me stesso dopo che sono dileguati i paletti fino a ora posizionati dalla mia famiglia. Sempre e solo Don't You Want Me.

Non ci ho messo molto a capire che aveva registrato un'audiocassetta con quell'unico brano, lo faceva girare in loop sull'autoradio. All'inizio mi è apparsa una cosa un po' da scemi. Ma dico io si può, pensavo, ascoltare una sola canzone, quando ce ne stanno tante altre non meno belle? Ad esempio Bette Davis Eyes di Kim Carnes, era uscita pochi mesi prima e già in testa alle classifiche. Un'oltranza cocciuta e spensierata, una mania, la mosca che rimbalza sul vetro. Adesso capisco perché Igor non ha amici.

Poi però la musica ha preso il sopravvento e ho iniziato a canticchiare, storpiando le parole che non capivo: Don't. Don't you want me? / You know I can't believe it when I hear that you won't see me /Don't. Don't you want me? / You know I don't believe you when you say that you don't need me...

Anch'io ero entrato in loop, la ripetizione acefala sembrava contenere un codice, un enigma, irrisolvibile, da risolvere. Oppure un semplice dato di realtà: ti piace una cosa, ti fa felice? Bene, concentrati su quella cosa, e lascia perdere tutto il resto. Mica siamo fatti alla maniera dei mussulmani che hanno dieci mogli, e i gatti sette vite.

Ora non so se Igor mi abbia voluto impartire una lezione, e più in generale se esistano lezioni, se le sette vite dei gatti abbiano un senso o sia sempre la solita manfrina, basta e avanza il colpo singolo nel tamburo della pistola di Christopher Walken: One shot, one shot gli fa eco De Niro nel Cacciatore. So solamente che in una gelida mattina di febbraio, con Igor e la sua unica canzone, la sua unica moglie, il suo proiettile, sono stato colpito al cuore.

Forse era proprio quella cosa, massì, la felicità – se ne parlano tutti dovrà pur esistere... E ogni volta che ascolto Don't You Want Me mi vengono gli occhi lucidi, gli occhi dei vecchi quando ricordano i giorni in cui raggiungevano l'officina fischiettando in bicicletta, fermandosi a pisciare tra i campi di viole. Per la cacca, come i cani, ci sarà tempo.

2 commenti:

  1. bel racconto, non importa se autobiografico o di fantasia.
    Quel giorno il protagonista ha assaporato la libertà, indelebilmente legata nel tempo a quell'unica canzone.
    massimolegnani

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    1. Sì, forse è così. Preferisco non interpretare le mie piccole o grandi gioie. Ho il timore che dal setaccio del ragionamento fuggano via le pepite d''oro, lasciandomi solo la sabbia del ricordo.

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