Mi infastidiscono le lamentele degli scrittori
ogni volta in cui un cantante scrive e ancor peggio pubblica un libro – è di
questi giorni la notizia che Tiziano Ferro ha realizzato un’opera
narrativa, La felicità al
principio, edizioni
Mondadori.
Una lagna che si ripresenta anche
nel caso di attori, radiologi, commercialisti, nani da circo etc. La scrittura
agli scrittori, questo il sotto testo. Un argomento implicito anche in un
recente intervento di Carmela Scotti su Facebook, una scrittrice e, soprattutto,
una persona verso cui provo grande considerazione e affetto. Quindi questa non
vuole essere una polemica ma un ragionamento, cominciato tra i commenti al suo
post.
Per come la vedo io, è la domanda
stessa – chi è legittimato a scrivere? – a mancare di sostanza. La scrittura
rappresenta infatti la forma grafica di una lingua fonetica; una delle tante
lingue storiche oppure di invenzione, come il grammelot. Premessa da cui
arriviamo a quella che mi appare la domanda decisiva:
a chi appartiene il linguaggio?
A tutti, è evidente. A tutti e a
nessuno – Lacan lo chiamava il Grande Altro perché ne siamo
parlati mentre lo parliamo, ci inscrive dentro la sua struttura (che è
primariamente un'interpretazione del mondo) mentre lo scriviamo. Diciamo che
quella col linguaggio è sempre stata una relazione aperta, dove alle corna si
alternano gli abbracci.
Tra gli amanti, come sempre,
qualcuno sarà più erotico e smaliziato, avrà una maggiore abilità nello
stuzzicare il corpo verbale, altrimenti detta competenza linguistica. Possiamo
anche chiamarli stile e vocabolario attivo (in Italia stiamo messi piuttosto
maluccio: un ventenne, mediamente, conosce duemila vocaboli, contro i cinque o
sei mila degli anni Sessanta).
Diciamo allora che uno scrittore,
proprio perché scrive con una regolarità che ne legittima lo statuto da esibire
sui social, svilupperà una familiarità maggiore con le possibilità espressive
della lingua, cosa che però non fa ancora di lui un buono scrittore.
Ma arriviamoci per piccoli passi,
in forma di nuovo interrogativa. Cosa unisce i seguenti nomi: Emily Brontë,
Oscar Wilde, Anna Sewell, Alain-Fournier, Margaret Mitchell, Boris Pasternak,
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sylvia Plath, J.D. Salinger?
Risposta: sono tutte persone che
hanno scritto un solo romanzo nella vita, e per quello sono giustamente
ricordate. Mentre Amalia Liana Negretti Odescalchi, in arte Liala, di romanzi
ne ha scritti ottantaquattro, e non si può dire che la loro qualità fosse
superiore alle opere degli autori menzionati. Viene così meno anche l’argomento
per cui più si scrive più si diventa bravi a scrivere.
La storia della letteratura è
inoltre piena di grandi autori che provengono da altre professioni, su tutte
prevale quella di medico; particolare che personalmente trovo significativo.
Mentre nella musica l’unico medico che mi viene in mente è Enzo Jannacci.
Torniamo così alle nostre domande.
Perché gli scrittori, per fare
dispetto a quegli usurpatori dei cantanti – Tiziano Ferro ma anche Ligabue,
Guccini, Vecchioni, Capossela, De André, Ruggeri, Bianconi, Nada, Lenzi,
Camillas, Agnelli, Brondi, Lo stato sociale, Lauro, Colapesce, Lolli, Clementi…
e potrei continuare con la complicità della barra delle ricerche su Google –
perché non scrivono anche loro delle canzoni, o ancora meglio una sinfonia?
Semplice, perché non ne sono
capaci.
La composizione musicale presuppone
la conoscenza di un linguaggio non naturale, acquisito con lunghi
anni di studio e pratica. Un sapere tecnico (notazione e armonia e melodia, per
non parlare di quei due vigliacchetti dei bemolle e diesis) che non garantisce
la bontà dell’opera, ma è piuttosto una sorta di conditio sine qua non.
Mentre per scrivere narrativa non esiste alcuna barriera d’accesso: dopo che un
bambino ha imparato a dire mamma, pappa, cacca e no, è già un potenziale
scrittore.
Le storie da raccontare non gli
mancano di certo, come quella volta che è cascato il succhiotto
nell’omogenizzato di pollo ed è rimasto conficcato con la stessa assertività
della bandiera che Niels Armstrong pose sul suolo lunare; le mamme si
raccontano simili aneddoti ai giardinetti, il trasporto è quello che
immaginiamo in Omero nel narrare l’ira del pelide Achille. Saranno forse storie
modeste, ma sono pur sempre storie.
Che se ne facciano dunque una
ragione i miei amici scrittori: invece di lamentarsi a ogni puntuale
sconfinamento di un cantante nei loro possedimenti, si concentrino nello
scrivere storie migliori di quella dell'omogeneizzato; cosa che purtroppo non
sempre avviene, nemmeno in chi esibisce la sigla di scrittore sul cappellino a
forma di cono, alle scuole elementari di un tempo ci veniva scritto sopra
asino.
Ecco, se dovessi dirlo con una
battuta: uno scrittore è un asino – non sa fare niente che non sappiano fare
anche gli altri – ma quando è un bravo scrittore (come Carmela Scotti) quel
niente gli viene particolarmente bene, favorendo il manifestarsi di bellezza e
comprensione nel lettore. Altrimenti è un asino e basta.
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