venerdì 25 novembre 2016

Impara l’arte e mettila da parte, o sullo studio e lo stile


Mi sembra, in tutti i campi, di sentire pronunciare sempre meno la parola studio. Non che non la si usi più, ma è come se avesse perso di appeal. Una volta, il primo urlaccio che ti arriva da un genitore era: "No, le dita nella presa della corrente nooo!" Ma il secondo, puoi star certo, era un imperativo allo studio. Con alcune varianti sostantivate, del tipo: studia somaro; studia zuccone; studia e non rompere tanto le palle, pelandrone.
In ogni caso, anche da parte dei ragazzi finiva con l’essere introiettata questa idea: tra un desiderio e il suo farsi cosa ci deve essere una dilazione, un tempo del lavoro nel quale acquisire le competenze attraverso cui meritare il sogno (se prendi tutte sufficienze in pagella, i nonni ti regalano il motorino).
Anche nel campo dello spettacolo, prima di avere successo gli attori dovevano studiare, seguire dei corsi di recitazione che potevano essere anche molto duri, selettivi. Poi, però, avveniva per alcuni come un piccolo salto, che da un giorno all'altro dava accesso a quel gradino ulteriore della popolarità, gli autografi da firmare con una Muratti che penzola sghemba dalle labbra.
Ecco, è come se ora si volesse fare solo l’ultimo balzo, ma senza salire lentamente i gradini che portano al trampolino. I talk show televisivi, i vari grandi o piccoli fratelli, le isole dei figli dei figli dei famosi, ci raccontano tutti la stessa storia: quella di un’enorme torta su cui buttarsi senza sforzo, senza studio, magari con un pizzico di fortuna.
Ma anche fenomeni come la scrittura dei blog, sì, anche questo, o il diffuso opinionismo su Facebook, la politica come slancio volontario dal basso, condividono la medesima percezione: sì può dire e fare qualsiasi cosa senza nulla sapere, perché ciò che conta è la disposizione, sono le emozioni che ci stanno dietro.
In altre parole è la ragione a essere divenuta poco ragionevole, già che ci allontana dall’immediata verità (il cuore) di quel che proviamo con i sensi. E allora la ragione va superata, trascesa, come insegnano nei meeting della nuova spiritualità, liquidando la sua principale ancella, che è appunto lo studio.
Eppure c'è qualcosa che mi seduce, lo confesso, in questo schema di pensiero per molti versi folle, come possiamo vedere dal degrado in molti campi… O meglio: sono due schemi, due momenti separati che dovremmo forse imparare a dividere, concettualmente, per integrare. Quando presi singolarmente - la ragione senza slancio, e lo slancio senza ragione - conducono a fallimenti speculari.
La ragione infatti è un gioco, un gioco linguistico direbbe un filosofo analitico, e come tutti giochi bisogna imparare le regole con umile dedizione. Studiando, appunto.
Ma è ugualmente vero che c'è un guadagno anche nell'andare oltre, fare quel piccolo salto, oplà, che dallo studio ci porti all’unicità del nostro gesto, ciò che nelle arti viene chiamato stile.
Lo stile come punto di congiunzione tra la competenza, universale, e la personale eccezione, che solo così può diventare eccezionalità. E scommetto allora che esiste uno stile anche in medicina, una particolare grafia con cui il chirurgo dispone la sutura, la sua firma lasciata sulla pancia.
Ma in fondo era già tutto distillato in un vecchio detto popolare: impara l’arte e mettila da parte. Guarda Maradona, ma Maradona ha dovuto diventarlo, mica ci è nato, cosa credi. Ha conquistato il suo nome in campetti di periferia, con sforzo paziente, fatica e fango, apprendendo ogni sottile sfumatura sull'arte dei piedi. Prima di capire che i goal si potevano fare anche con le mani...

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