In un vecchio romanzo di
Gianni Celati c’è un bambino che, rivolto a un gruppo di bambini e parlando di
un altro bambino ancora, dice: “Dai che gli pisciamo nel culo!”
E’ un’immagine potentissima
che mi si continua a ripresentare, anche se non so bene perché. Provvisoriamente, mi sono detto che deve
essere per via del fatto che è una cosa un po’ da bambini, appunto: quel mondo
confuso e amorale dell’infanzia, un’onda di fango dorato e tiepido che, alla
mia età, si è già solidificata da un pezzo, cavando per ogni cosa una sua
formina definita e stabile, una casella da barrare.
Prima no. Prima la
sessualità si mescola con il gioco, il piacere con il dispetto mentre il
gruppo si oppone, quindi impone, sul singolo, sull’altro che a guardar meglio è una semplice caricatura del noi, a cui a turno sottoporsi
come chi fa toppa a nascondino.
Ma sono tutti temi, a ben
pensarci, che più che una stagione della vita ne segnano il confine, come il passaggio dell’ombra
della meridiana dal valico invisibile del mezzogiorno, in cui ogni cosa sembra
coincidere con se stessa. Ed è allora nel momento in cui appaiono le prime
pulsioni sessuali, e con esse il sospetto che il pisello non serva unicamente per
far pipì, che si incrina il sentimento di totale integrazione con il mondo
e la famiglia, e forse proprio per questo subentra il desiderio di essere
accettati (e confermati) da un gruppo di coetanei.
In fondo è semplice:
iniziamo ad avvertire il bisogno degli altri quando la relazione è in pericolo, quando cominciamo a sentirci soli. Diversamente, il
problema non si presenterebbe neppure. In particolare non avendo, se
non sotto specie di crisalide informe, quell’involucro finemente profilato che si chiama io, gli unici problemi con lo specchio – sarò abbastanza forte, bello, intelligente, figo…? –
riguardano i denti da lavare, ma solo per non subire le
ramanzine dalla mamma.
Pisciando, in gruppo, nel
culo a chi del gruppo non fa parte, abbiamo dunque un gesto paradossale: da un
lato viene affermata la totale aderenza al codice simbolico dell’infanzia, ma
dall’altro – lo spettro minaccioso del sesso omoerotico, l’espulsione con
relativa punizione del diverso, che
fa da capro espiatorio al nostro peccato virtuale –
questa stagione inizia a declinare, evocando i demoni brufolosi dell’adolescenza.
In una contabilità un poco
spicciola e grossolana, mi sembra allora che le tracce del crollo del regno glorioso dell’infanzia possano essere ricercate in una doppia disposizione: alla
sessualità, e alla spiritualità. Si, anche la ricerca dello spirito, che come per
il sesso testimonia della mancanza di ciò che si va cercando, alla
fine pure corrisponde al sentimento di integrazione a un gruppo allargato: l’universo. E nuovamente si ricerca quel che non si ha, ma di cui si
possiede la memoria che fa da modello alla prefigurazione.
In conclusione, la giocosa
metafora di Gianni Celati mi ha fatto intuire la ragione della mia diffidenza
non solo verso l'attuale rappresentazione del sesso, alla YouPorn, ma anche verso la spiritualità contemporanea, poco importa che sia tradizionale o venata
dai fumi incensati della New Age. Io non aspiro infatti a disciogliermi in un
generico noi universale, per banchettare
con la Madonna e tutti i santi nel sentimento panico e gioioso di essere goccia del vasto mare. Ma che me ne importa a me, dico, perché dovrei sentirmi consolato dall’essere tutto nel Tutto, o diversamente niente di Niente, che poi è lo
stesso? Io voglio essere solamente questa
cosa qui, non so se mi spiego. Anzi: sempre e per sempre quella cosa là, che sono stato nel passato e adesso non
sono più.
Non è complicato. Come ciascuno,
anche io possiedo un indirizzo a cui rispedire il mio pacco sballottato
per il mondo, un luogo e un tempo precisi che nel mio caso coincidono con la notte tra il 24 e il 25 dicembre del 1972, Sondrio, via Parolo, 10. Fuori forse nevica, facciamo che nevica, e
dal mio lettino odo dei rumori in sala ma fingo di dormire, fingo che non
esista la finzione. A quell’età tanto già si conosce quel che è vero, e la Verità è per
definizione una sola: quella dell’autopista che avrei trovato la mattina al
mio risveglio, l’autopista della Polistil con
la replica della Fulvia HF di Munari
e Mannucci, l’autopista nuova con quell'odore di nuovo da scartare, graffiando via con le
unghie i fiocchi rossi, i nastri rilucenti, lo scotch e tutto ciò che mi
separa dall’Assoluto Piacere che
la Mamma, il Papà, Gesù Bambino, Babbo Natale o chissà chi (ma chi se ne
frega del chi, la Verità è un complemento oggetto, la Verità è sempre e solo un cosa) stanno posando in punta di piedi a poche spanne dal presepe. Ma quello l'ho fatto io, infilando la carta stagnola sotto
al muschio fresco per mimare gli stagni e i torrenti e i ruscelli, su cui alla fine ho posato le paperette di plastica, le abbiamo prese alla Standa insieme alle altre statuine e
alla capanna di legno –
le pecore e i pastori vanno però distesi, la notte, per farli riposare –
le abbiamo prese insieme alla nonna Maria, che con l’altra mano tastava le
mutande di lana per il nonno.
Ecco, questa cosa, questa sensazione notturna e lieve sono io, è il mio unico paradiso e altri non ne cerco, non ne voglio, ho già avuto e si vive ora degli spiccioli che la memoria ci lancia ogni tanto nel cappello. Nostalgia: il viaggio di ritorno, nostos, della mente verso casa.
Ecco, questa cosa, questa sensazione notturna e lieve sono io, è il mio unico paradiso e altri non ne cerco, non ne voglio, ho già avuto e si vive ora degli spiccioli che la memoria ci lancia ogni tanto nel cappello. Nostalgia: il viaggio di ritorno, nostos, della mente verso casa.
Nel frattempo piscio, continuo a
pisciare contro tutti quelli che mi dicono che invece non è così, gente che
prova convincerti che c’è un senso anche nell’alopecia, che le donne a cinquant’anni
diventano più belle e il paradiso viene dopo, non prima, dopo, mentre la direzione te la indica la punta delle scarpe. Come se esistesse un dio più grande e bello di quello
inventato dal signor Polistil, un dio, il loro, che non vuole indossare la mascherina nera di Zorro, il cinturone di Tex Willer o si addormenta e sogna sui trenini Rivarossi,
dondolandosi piano sulla ruota del Prater, ma fatta di Lego bianchi e rossi e blu e gialli e verdi e ancora. Ma se venite
con me, gli pisciamo nel culo tutti assieme!
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