sabato 12 novembre 2016

Il mio nome, come il tuo, è Nessuno, o sull’irrilevanza al tempo di Facebook



Quando, da ragazzino, presentavo un nuovo amico a mia nonna, lei non gli rivolgeva immediatamente la parola. Prima lo guardava un po’ in tralice, quindi mi chiedeva: “Chi l’è?” Avuta da me, non da lui, la risposta, aggiungeva con uguale diffidenza: “De chi l’è?”
Solo a quel punto – la conoscenza del nome proprio e di quello della stirpe di provenienza – mia nonna si volgeva affabile nella direzione del mio giovane amico, e, già scordato il minimo occhiuto interrogatorio a cui l'aveva sottoposto, gli offriva una bella michetta croccante, spalmandola di burro con i grani di zucchero bianco sopra.
Ripensavo a questi buffi episodi nei giorni scorsi, mentre provavo a partecipare ad alcune discussioni su Facebook. Io sono iscritto a Facebook da alcuni anni, ma la mia presenza è stata sempre defilata, occasionale. Forse perché, da provinciale, come mia nonna sospetto di tutto ciò che non conosco bene. Negli ultimi giorni mi è però venuta quella smania un po’ cocciuta di capire di noi montanari, e preso coraggio ho buttato anche il mio soldino nella fontana…
Da neofita assoluto, la cosa che più mi ha colpito è stata il modo in cui le conversazioni si sviluppano sul web: non per forza degli argomenti esposti –  contenuto e stile, potremmo dire – ma in base a un’idea astratta dell’interlocutore, un’idea in qualche modo pregressa. Se ti conosco, se fai parte della mia cricca, se la tua fama è giunta fino a me, sei degno di una risposta articolata. Diversamente ti tollero, sono democratico, mica ti caccio via: al limite ti butto lì un like distratto, va’. Serie A e serie B, in pratica.
Scommetto che non c’è bisogno di fare alcun esempio, chiunque frequenti Facebook ha già capito di cosa sto parlando. I giornalisti rispondono solo ai giornalisti, gli sportivi agli sportivi, i belli alle belle etc. I soliti noti ai soliti noti, soprattutto. E torna alla mente una pagina particolarmente caustica di Thomas Bhernard, il libro è Perturbamento, dove in una concitata invettiva faceva dire al principe di Saurau: “I compositori di sinfonie non pensano che alle sinfonie, gli scrittori agli scrittori, i costruttori edili ai costruttori edili, i ballerini del circo ai ballerini del circo, è una cosa insopportabile.”
Sì, è una cosa insopportabile, e anche a me ha dato un po’ fastidio il distratto paternalismo con cui alcuni miei contatti hanno reagito ai commenti che ho lasciato ai loro post, mentre si affrettavano a rispondere alla pernacchietta dell'amico dell’amico. Ma oltre all’antipatia nei confronti di ogni postura elitaria e vagamente snob – i peggiori, ovviamente, sono gli intellettuali, o chi tale si considera pubblicando le foto dei libri che in quel momento sta leggendo – secondo me è presente anche un tratto di saggezza implicita, quasi un'astuzia arcaica e contadina.
Se ci pensiamo, è infatti lo stesso atteggiamento manifestato da mia nonna, il cui pensiero potrebbe così essere riassunto: prima di rivolgerti la parola, prima di sentirmi, letteralmente, responsabile nei tuoi confronti, ho bisogno di conoscere il tuo nome, ossia la storia incarnata del tuo corpo fino ad arrivare alla tua dinastia, l'antica gens onorata dai latini. 
Ma è proprio tale elemento di storicità vissuta – l’esserci come ipostasi temporale dell’Essere, direbbe un filosofo continentale con il sopracciglio corrugato – a restituire credibilità alle nostre parole, già che questa si configura nel nome come presenza surrogata. In fondo, è la stessa scorciatoia psicologica per cui le azioni precedenti, connotando quelle future, creano un sistema di aspettative: mi aspetto dal tuo nome una continuità di senso, una coerenza che automaticamente ti renda degno di partecipare a questo banchetto di parole.
L’assenza di un volto e di un corpo, a radicare il soggetto nella trama palpabile dell’esperienza, già aveva messo in crisi le dinamiche empatiche del riconoscimento: l’altro potrebbe anche essere una funzione informatica, ed è per questo che molti siti ti chiedono di individuare una parola con le lettere distorte. Ma se a ciò aggiungiamo la mancanza del nome, di un nome conosciuto intendo, una rinomanza, su Facebook come altrove abbiamo una perdita diffusa dell’autorità verbale. Il motivo è semplice: è la ridondanza dell’offerta (milioni e milioni di pagine web, di forum, discussioni) a impedire la verifica qualitativa dei contenuti, e tra quel troppo di tutto ci si muove sulla scorta di un giudizio a priori, come a dire del pregiudizio. Su internet si compra insomma a scatola chiusa, si compra come al supermarket per la marca, infilando nel carrello pietanze già cotte e digerite.
Ma è una costatazione che possiede un corollario vagamente sconsolante. Se infatti Facebook non fa altro che riprodurre i rapporti di forza del mondo esterno (oltre che di amicizia, di affinità di casta e di prestigio), le parole che vengono pronunciate al suo interno non incidono realmente sulle cose, rappresentando una semplice vetrina riassuntiva, una sorta di mappa sociologica del consenso. In altre parole, flatus vocis.

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