lunedì 20 agosto 2012

Saluti



Avevo deciso di arrivare a 300, trecento interventi, come l'armata di Leonida che ritarda l'avanzata persiana alle Termopili, ma incalza gli sbadigli degli spettatori cinematografici. Mi fermo invece a 296, con questo fan 297. E non perché io abbia perso ispirazione – ne avrei forse ancora di foruncoli da schiacciare, gomitoli da srotolare – come fu questa volta per Parise, che interruppe i suoi Sillabari alla lettera S: "Per mancanza di poesia", dichiarò con il consueto angelico candore. No, direi piuttosto il contrario. Per perdere qualcosa bisogna averla prima posseduta, e io ho capito che è arrivato il momento di andare a cercarla fuori di qui, la mia poesia, rinunciando a campare di qualche stiracchiato pollicione alzato su Facebook. Ma per qui ritornare, un giorno, forse, chissà, come per altro ho già fatto nel passato. In altre e più semplici parole, questo blog viene sospeso a tempo indeterminato. Un saluto a chi mi ha seguito in questi anni con attenzione, ma anche ai disattenti, gli occasionali, i catapultati dai motori di ricerca, ognuno in caccia del proprio soldino di verità. Il mio lo ributto nella fontana girandomi di spalle, e so che lì saprà aspettarmi.

domenica 19 agosto 2012

Il primo amore, o sul tempo e l’istante


Quando ero piccolo, negli anni settanta o giù di lì, esisteva una trasmissione televisiva che si chiamava l’Altra domenica. Ideata e condotta da Renzo Arbore, è andata in onda la domenica pomeriggio, su Rai2, dal marzo del 1976 al luglio del 1979; l’anno in cui Mino Vergnaghi, in salopette crème e camicia azzurra, vince il ventinovesimo Festival di Sanremo con Amare. Ma la vera rivelazione fu Franco Fanigliulo con A me mi piace vivere alla grande, in cui poco prima del refrain, ed era quantomeno bizzarro per una canzone popolare, quasi distrattamente lasciava cadere un verso enigmatico:“ho un nano nel cervello, un ictus cerebrale...” E dopo qualche anno è morto veramente, per un ictus cerebrale.

Tra gli inviati del programma di Arbore, una ragazzina con i capelli scuri da maschietto, gli incisivi leggermente scheggiati e la pronuncia della erre alla francese; credo si chiami rotacismo, meglio noto come erre moscia. I genitori della ragazza erano un famoso regista italiano e un'altrettanto celebre attrice svedese; pare che lei gli abbia inviato, al famoso regista, una lettera in cui ci stava scritto: “Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese e in italiano sa dire solo "ti amo", sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.” E secondo voi, con una lettera così, come poteva andare a finire la storia…? Che comunque non è questa storia qui.

In questa storia si parla di canzoni, oltre che di una ragazzina con i capelli da maschietto e gli incisivi leggermente incrinati al centro. La prima volta che l’ho vista intenta ad arrotare la sua erre francese sul palato – era la tivù pubblica, si guardava sul divano di velluto grigio insieme a mamma e papà – , ho pensato bon, io quella lì voglio sposarmela proprio. Peccato che son troppo piccolo, non posso mandarle una lettera in cui le dico che conosco questo e quest'altro, ma so dire solamente ti amo, "te voli ben", in dialetto valtellinese. Di conseguenza me la sono tolta di mente con un sospiro, come si dice. O almeno ci ho provato...

La ritrovo infatti il decennio successivo, siamo alla metà degli anni ottanta e io faccio ormai parte dei "ragazzi di oggi", insieme a Luis Miguel. Sanremo però è caduto un po’ in disgrazia, ma sta provando a risollevarsi dopo il minimo storico del 1983, con il primo posto di Tiziana Rivale che canta Sarà quel che sarà, e mai titolo fu più azzeccato. Nel frattempo, la ragazzina con i capelli da maschietto, gli incisivi sbeccati e la erre alla francese, meglio detta rotacismo o erre moscia, diviene l'immagine pubblica (“testimonial”, se preferite dirla come dicono i giornali) di uno dei più importanti marchi internazionali di bellezza – la chiamano bellezza (per quelli di prima "beauty"), ma fan poi solo delle creme. E io penso bon, ha più di trent’anni suonati e questi la prendono per la bellezza, beauty, cioè insomma per le creme, e io penso ma lo sai, che me la sposerei lo stesso. Peccato che son sempre troppo piccolo, dico vuoi sposarti prima di fare la patente della Vespa?

Passa una manciata di anni e finalmente una grande edizione di Sanremo, con l’orchestra che torna dopo dieci anni di assenza e l’abbinamento delle canzoni in concorso con i “big” stranieri, che regala una fioritura inattesa del brano di Toto Cutugno tra le dita di quel prodigioso giardiniere di Ray Charles. Bellissima anche la canzone dei Pooh, che con Uomini soli guadagnano un meritato primo posto. Ma dal palcoscenico del solito divano grigio, da cui ho tifato fino all'ultimo, la palma sarebbe andata a Vattene Amore, di Mietta e un Amedeo Minghi con i capelli più lunghi, lisci e biondi del solito; probabilmente li ha trattati con i prodotti di quella famosa linea di bellezza di cui è immagine pubblica la ragazzina, ormai fatta donna. Rimangono i denti scheggiati, la riga di lato da maschietto e la erre francese o moscia o rotacismo. Siamo nel 1990 e state sicuri che io me la sposerei ancora, e bon.

Peccato che sia già sposata, scopro, sbang, dopo nove anni. Sto dal barbiere e pesco a caso tra le riviste, così c'è un'ulteriore porta in faccia: non un marito, ma stiamo al secondo o terzo matrimonio...  Cacchio, questa non ci voleva! Provo allora a distrarmi accendendo il televisore. L'inverno, sconsolato come me, sta mollando piano la sua presa, e Fabio Fazio conduce la sua prima edizione sanremese, con Gorbachev e Dulbecco e Laetitia Casta presenti a turno sul palco dell’Ariston; cosa che apparve molto democratica, molto civile, mah. Fanno da contrappunto i versi di Nada Malanima, non una delle sue canzoni migliori ma quando attacca con "spezzami le ossa \ non darmi tenerezza" vai, allora la riconosco! In una delle serate iniziali, tonf, un orchestrale va giù secco come una pera matura. Semplice svenimento. Ma anche qui, molto corretto, molto democratico, molto civile il comportamento del presentatore. Mah. Poco memorabile la canzone vincitrice di Anna Oxa, surclassata da un ispiratissimo Nino D’Angelo, solamente ottavo con Senza giacca né cravatta.

Quando incontro qualcuno e si inciampa nell’argomento – l’argomento è naturalmente la ragazzina già donna e ora signora, ma sempre con i capelli da maschietto, gli incisivi segnati etc etc. –, quando incontro qualcuno e in genere si tratta di un uomo, o meglio di un maschio, inizia adesso a prendere piede un’espressione che a me non piace mica tanto, quell’espressione lì: “Cinquant’anni”, ti dice l'uomo che hai davanti, "quasi cinquant'anni e continua a far la bellona per le creme. Ma che si crede, di poter restare giovane in eterno? Però…” Però cosa pensi mentre lui assapora una lunga pausa, cerca la parola definitiva con cui chiudere il discorso, come la pietra sepolcrale. “Però” conclude con una brusca accelerazione, “un paio di colpetti io glieli darei ancora”.

E siamo arrivati al 2012, edizione davvero inguardabile di Sanremo, tant’è che non l’ho guardata proprio, anche se so che ha vinto una tale Emma con una canzone che si intitola Non è l’inferno; da cui si deduce che potrebbe esserne l’anticamera. Non male, premio della critica, forse solo la canzone di Samuele Bersani, ma cosa gli è venuto in mente di presentarsi in scena con le scarpe da pallone coi tacchetti... Tutto questo accadeva comunque a febbraio, piccolo salto in avanti, “flashforward” lo chiamano nel cinema quelli che fanno finta di capirne di cinema, e arriviamo al 18 giugno. Luci spente. Candeline. Torta. Dai, soffia, soffia… Perché è il giorno in cui la ragazzina compie sessant’anni – dico, 60!

Ma la vera notizia è forse un’altra, ed è che non voglio sposarla più.

No no, non è per via che sono troppo giovane – ho sempre quattordici anni in meno, e allora? –, o lei troppo vecchia, no, davvero: è sempre bellissima,"very beautiful” se siete ancora di quelli là. Mi importa un fico anche dei suoi numerosi compagni, veri o presunti, tra cui un paio di registi famosi almeno quanto il padre. E' che non sono più innamorato, semplicemente. Non c’è un motivo, è successo, così, come quando ho smesso di guardare San Remo, a volte le cose succedono così. Senza una ragione. Eppure anche questa storiella da niente, senza ragioni né torti, una cosa forse è riuscita ad insegnarmela. Stevenson pensava che “le storie servono a rendere più chiare le lezioni della vita”, ma prima di morire su un’isoletta del Pacifico, come Fanigliulo di ictus cerebrale, sussurrò: “Un’ostinata convulsione di materia bruta”. Come a dire che a volte è inutile sforzarsi di capire.

La mia lezione del giorno, provvisoria come tutto ciò che si forma, muta e annega tra brute ostinate convulsioni, sta dunque nell’aver imparato a distinguere tra strofa e ritornello; e cioè, in pratica, tra tempo e istante.

Che sembra sempre uguale, l'istante, un motivetto dolce in cui le cose si manifestano, ritornano, ti fanno il solletico ai timpani ma anche allo sguardo, per poi nascondersi nuovamente dentro la pancia del tempo. Ed è allora con la strofa che invece tutto muta lentamente, ma cambia per davvero: quando nel refrain è come se non fosse successo nulla; e in effetti, nel colmo dell'esposizione, la pupilla che si spalanca gongolante alla vita, non c’è proprio niente da vedere. Così nascono le foto sovraesposte: per un eccesso di confidenza. Ci sta poi che un orchestrale si rilassi un attimo e vada giù come una pera, no?

O come quando, ecco, all’Altra domenica arrivò un tizio sconosciuto con la barba, il naso lungo e appuntito, gli occhi a palla. Si chiamava AndyLuotto. La cosa che sapeva fare Andy Luotto, era mettersi a guardare in camera. Zitto. Muto. Nient’altro. Una sfinge di rarefatta demenza, che catturava lo sguardo e monopolizzava l’attenzione dal divano grigio, su cui stavo sempre seduto insieme a mamma e papà. E il tempo, per me, è rimasto quella famiglia degli anni settanta ricomposta dentro lo sguardo assente e vagamente ebete di Andy Luotto. In cui nulla accade, mentre tutto succede.

sabato 18 agosto 2012

Persone simpatiche, o sul concetto di "lettore implicito"

C'è della gente, li incontro in giro, son persone simpatiche mi chiedono come mai non scrivi più e io gli rispondo non è vero, ti interessa quello che scrivo, vai su internet guarda questo è l'indirizzo, comunque lo trovi facile anche con Google, gli dico questa cosa, è proprio una persona simpatica, una di quelle che a me sarà un mio vizio, ma mi risulta sempre simpatico chi si interessa a quel che faccio, e quello che faccio io nella vita, per mio piacere, è scrivere. Da quando ho iniziato a tenere un blog, son già passati più di tre anni, si sono accumulati in archivio quasi 300 interventi, l'equivalente di più di 1.000 cartelle dattiloscritte, in pratica un libro di 500 pagine pensavo dopo aver salutato la persona che conosco con una pacca sulla spalla, ma tu guarda che simpatico si interessa a quel che faccio, che poi quello che faccio io è solamente scrivere, mi piace quello. Ma perché proprio scrivere – 300 interventi, 500 pagine, 1.000 cartelle –, perché parole e non invece qualcos’altro, che ce n’è tante di cose belle da fare? Tipo ho conosciuto uno, gli piace buttarsi giù dal ponte e lo fa per davvero, si butta giù dal ponte, e va da sé che se lo faccio io muoio ma lui non muore mica, no, ha un elastico che lo tira su all’ultimo metro e poi giù un’altra volta dal ponte, gli piace così. O magari qualcosa di più costruttivo, ecco, meglio, di più pregnante, ci piazziam lì una parola difficile, non guasta mai… E poi per chi? Gli strutturalisti lo chiamavano mi pare "lettore implicito", così già che ci siamo dimostro anche di essere una persona colta, non era un caso se conoscevo la parola pregnante, a differenza di quelli che conoscono solo una parola difficile la ripeton di continuo, pregnante, pregnante, pregnante… a Ragioneria lo chiamerebbero, mi pare, invece, "valore aggiunto". Passa un mese o due ritrovo in giro la persona dell’inizio, non quello del ponte, dev’essere ancora lì appeso allo yo-yo, quello simpatico che c'è in giro della gente son proprio simpatici, e poi come stai come non stai, si interessa anche alla mia salute, ti trovo bene mi dice la persona simpatica che conosco io fin dall’inizio, forse un po' magro dall'ultima volta, uno o due mesi fa, che bravo si interessa anche al mio aspetto, ma perché non scrivi più? Ecco, pensavo allora quel giorno lì dopo due mesi: e se fossi invece uno scrittore che il mio lettore implicito, chi mi legge, è un po’ antipatico…

venerdì 17 agosto 2012

Scrivo quindi sono, o sulla scrittura e il mondo


Il cinema non è un semplice artificio tecnico con cui descrivere la vita, ma è il linguaggio della vita – la sua manifestazione percepibile, esposta – in cui la vita si riflette per comprendersi e magari amarsi un po' di più. Questa, almeno, era l’opinione di Pier Paolo Pasolini. Che così argomentò la sua predilezione verso il cinema: non dover più utilizzare la lingua italiana, operando in tal modo l’unica forma di dissidenza civile ancora concessa a un poeta. Tacere il linguaggio letterario, che è lo stesso delle istituzioni, del Potere, per accostarsi alla nuda vita senza più veli o bandiere, dentro cui la si avvoltola come a ricomporre una salma.

Ripensavo alla potente intuizione appena ricordata, confrontandola, istintivamente, con i complimenti che capita di rivolgere a chi scrive. Tu scrivi bene, gli si dice. Tu sai scrivere. Beh, non sono completamente d’accordo.

Come il cinema utilizza il linguaggio della vita (e dei sogni) per esprimere i propri spunti, anche la scrittura utilizza un linguaggio preesistente: quello del pensiero, prima ancora che della comunicazione interpersonale, la relazione significante. Ed è proprio per questa via, percorsa a ritroso, che Pasolini poteva concludere che il Potere ci manovra, ci pensa, essendo da esso realmente pensati in quanto titolari di un linguaggio appreso. Ma già Rimbaud (prima di Lacan e Foucault e Umberto Tozzi) affermava sfacciatamente: “Je est un autre”. E l’altro, appunto, era la magnifica lingua da cui era parlato, il colore delle vocali che gli rimaneva appiccicato alle dita lunghe e sottili.

Eppure una lunga tradizione filosofica, che si fa risalire alla celebre sentenza di Cartesio (“cogito ergo sum”), ha visto proprio nel pensiero la certificazione della nostra identità, al punto che non possiamo sottrarci a un passaggio ulteriore: se è vero che il linguaggio, almeno in parte, dispone di noi, è dunque altrettanto vero, o se preferite conseguente, il fatto che noi non disponiamo mai davvero del linguaggio. La lingua con cui noi pensiamo, quindi scriviamo, non è infatti una cosa come un'altra, che possiamo maneggiare con estrinseca disinvoltura. E ciò perché se io penso e quindi sono, io sono, mi realizzo, attraverso il gesto del pensiero.

Da ciò si ricava che se io “è un altro” – il linguaggio – il linguaggio non può essere senza di me, in quanto sono io a sillabarlo, a inciderlo, insomma a rigeneralo dal limbo potenziale in cui si trova confinato, in tal modo generando anche il me stesso che pensa e quindi è. In altre parole, esiste una circolarità semantica tra linguaggio e soggettività moderna, che ci impedisce di pensarci (meglio, di concepirci) al di fuori di esso. Sarebbe infatti come collocare un Io ulteriore al di fuori di noi: ma a questo punto Io, il vero Io, chi è: colui che pensa in parole o colui che si guarda pensare, dalle propaggini di un continente rarefatto ed extralinguistico?

Per uscire dal paradosso, dobbiamo dunque riconoscere che la scrittura non corrisponde a un semplice artificio tecnico-espressivo, qualcosa da maneggiare come uno scalpello oppure un sacco di patate – ciò che si dice "saper scrivere", essere "bravi" – ma al modo attraverso cui noi veniamo al mondo come esseri pensanti. O meglio ancora al nostro modo, al nostro mondo, a noi.

Forse qualcuno si ricorderà del celebre aneddoto riferito a un Jean-Paul Sartre particolarmente pedante, quel giorno lì. Il giorno in cui se ne stava seduto al tavolo di un bistrot in qualche fronzuto boulevard parigino, e si presentò a lui un signore con indosso una giubba bianca e un paio di pantaloni neri, così presentandosi: “Salve, sono il cameriere.” “No, lei non è il cameriere”, lo corresse il filosofo con una punta di ironico disappunto. “Lei fa, il cameriere”.

Beh, per la scrittura possiamo tranquillamente affermare il contrario: uno non "fa" lo scrittore, ma è, integralmente è la propria scrittura.

E dunque, se volete farmi un complimento, non ditemi che scrivo bene, che so scrivere, perché nella migliore delle ipotesi sarebbe illusione, e nella peggiore una forma di circonvenzione. Ditemi piuttosto che, attraverso la scrittura, io sono diventato qualcosa. E questa cosa che produce combinazioni alfabetiche vi sembra buona, oppure cattiva, pessima, decidete voi. In ogni caso sono sempre io a essere in gioco, non le parole che mi rappresentano. Perché non ci sono buoni o cattivi scrittori, non ci sono camerieri, ma solamente uomini con o senza qualità.

giovedì 16 agosto 2012

I poeti sono bravi. Ma poi?


Il problema degli aspiranti poeti, è che spesso sono bravi. No, non si tratta di una battuta: vi invito a ricercare su internet una qualsiasi pagina appartenente a un poeta, magari non ancora famoso e pieno di buona volontà. Il livello medio ora si è alzato di molto. E’ difficile trovare ancora quei versi ingenui e suggestivi, dove fiore rimava con amore in quella che per Saba è la più antica rima del mondo, la più difficile. L’idea stessa di assonanza sonora tra le desinenze, o di unità metrica, è entrata in crisi da svariati decenni. La bravura attuale a cui ci siamo riferiti non corrisponde dunque al concetto di perizia, di virtuoso artigianato che celebra un modello preesistente, come fu per molti secoli il petrarchismo. Piuttosto a un tratto di esibita originalità, dove l'imperativo diventa quello di non corrispondere a niente e soprattutto a nessuno, in una sorta di mitologia contemporanea dell’inaudito, l'enigma lambiccato e bizzarro con cui soffondere la scena. Ma al contrario dello spirito avanguardistico (il Dada, ad esempio), la deviazione dalle rotte già tracciate ha in prevalenza perduto l'aspetto ludico, istrionicamente dissacratorio. I poeti che si sporgono sul proscenio di internet, insomma, si prendono molto sul serio, e con uguale accigliata compunzione maneggiano la lingua. Bisogna però riconoscere che il linguaggio si è inizialmente avvantaggiato dalla diramazione solitaria delle rotte poetiche, che testimoniano di una disposizione psichica refrattaria alle leggi del branco, al conformismo più ossequioso. Ma la polverizzazione di modelli acquisti e condivisi ha reso, per paradosso, la stessa eresia conforme, costituendo la regola e non più l'eccezione. In ogni caso, si tratta di uno slancio lirico con cui non è possibile “farci nulla”: non socialmente, per l’assenza perseguita di ogni residuo di esemplarità morale; non esteticamente, già che anche in questo caso la molteplicità dei registri, data dall'unico precetto all'irregolarità sintattica, sfugge a ogni tentativo di canonizzazione formale. Rimane dunque il grido del poeta, the howl, come in Allen Ginsberg, che ti butta addosso tutta la sua irriducibile diversità. Ma una volta che tu sia disposto ad assecondare questa richiesta – se vogliamo, si tratta di una ratificazione dell’eccentrico – che cosa rimane? Fatta salva la bontà delle intenzioni, ciò che vedi è un tuo simile che fa di tutto per non assomigliarti, per sfuggirti anche empaticamente, declinando ogni relazione transitiva, ogni polis linguistica. In pratica, è come se ti intimasse: "Non cercare di seguirmi, non legarti a me!" E noi lo accontentiamo volentieri, sottraendoci a quel legame arcaico che si chiama lettura.

lunedì 13 agosto 2012

Gli studenti, gli accedemici e i professionisti di oggi? Dei killer

Lo so che non si può sapere tutto. Specialmente ora, con le conoscenze che si moltiplicano e diramano in specifiche branche di studio, involtolano in nicchie e discipline particolari, rispecchiano in una continua verifica dei risultati ottenuti, che il metodo scientifico non solo prevede ma anche impone. Non voglio nemmeno fare il solito discorso frignone, rimpiangendo i bei tempi andati degli scienziati-filosofi, gli umanisti capelloni o i medici scrittori come Cechov e Céline (ma ci sarebbe ancora uno come il dottor Jannacci, per dire). E' che mai come adesso mi pare di scorgere un velo di svagata ottusità nelle persone istruite, che incontro quotidianamente: al bancone dei baretti di periferia, dove lo zucchero di canna è ancora un optional come i cerchi in lega, li ritrovo compagni di briciole alla trattoria Speranza di via Candiani, per vederli infine dileguare nei dipartimenti universitari vicino a dove ho preso casa, nel quartiere Bovisa di Milano.

Un tratto di indifferenza neppure ostentata ma naturale, e questo, per paradosso, mi preoccupa ancor di più – perché immedicabile, vissuto con fatalità – presente in particolar modo in chi proviene da studi scientifici, a maggior ragione se di giovane età. Magari se ne vanno sei mesi negli Stati Uniti per un master, parlano tre lingue, scendono e salgono da un aeroplano come dalle scale mobile della Rinascente, ma non hanno la minima idea di quel che succede nel loro condominio. Dei tecno-ebeti, davvero, dei coglioni.com. E così mi è venuto da chiedermi quale fosse il modello di sapere a cui la tradizione ci aveva abituato, prima del fulminate scarto attuale. Ed è arrivata anche una risposta: la guerra.

Prendetela per quello che è, intendiamoci, non voglio certo salire in cattedra, è una semplice intuizione. Che proviene dall'accidentale memoria di quanto sosteneva Eraclito, o meglio sunteggiava nelle poche battute di uno dei suoi celebri frammenti; non sempre coerenti tra loro, a dire il vero. I greci la chiamavano Polemos, la guerra, o meglio il dio che la personalizza, da cui ancor oggi discende il termine polemico (e io un poco lo sono, lo riconosco). L'idea di Eraclito viene in ogni caso da lì, tutto per lui proviene da quella concentrazione esplosiva: Polemos. Senza un elemento di conflitto, sorta di attrito originario posto alla scaturigine della vita, all'Archè, secondo il grande enigmista di Efeso non potrebbe esserci niente.

Immaginiamo allora il Principio alla maniera di un fiammifero svedese, sfregato sulla fettuccia ruvida del pacchetto (altre volte, Eraclito fa derivare la natura dal fuoco, o più precisamente dal lampo, che "governa tutte le cose"). Se non ci fosse contesa tra sesquisolfuro di fosforo e vetro polverizzato, non ci sarebbe neppure la vampa, l'abbrivio, il brusco movimento con gli oggetti che si animano, prendono a cercarsi e respingersi di continuo, danzano il caso o forse il destino, quindi il lutto, in un tango ostinato e sensuale in cui si scappa per inseguire, si insegue per scappare, no, nulla.

Gli antichi sapienti, non accontentandosi, loro, delle briciole, miravano alla conoscenza del Tutto. Ma se tutto ha avuto origine dal conflitto e da questo è ancora alimentato, bisognava allora farsi carico di ciascuna cosa, assumendo i connotati di chi ha confidenza con quel principio antagonista. E sono i guerrieri. Sempre pronti a muovere battaglia alla tenebra, in ogni luogo e condizione, su qualsiasi campo da battaglia. Da ciò hanno ricavato anche la duttilità, la disposizione a tessere alleanze e a curiosare nelle fortificazioni del nemico, spiandone di continuo le mosse senza trascurare alcun dettaglio, alcun luogo. Non esistono infatti guerre mondiali e guerre locali, perché ogni guerra è sintomo dello sfondamento di una totalità strutturata, un'implosione delle sue fondamenta, a cui segue il drammatico rigenerarsi di un intero sistema vissuto, un vero e proprio mondo, piccolo o grande che sia. E così o si vince tutti assieme, con l'esercito schierato in robusta falange e i frombolieri che fanno la loro parte a lato della mischia, oppure si perde. Da soli o in piccole bande, si perde.

Una disposizione alla totalità che è però del tutto assente negli studenti attuali, negli accademici, i professionisti con le Tod's e l'abbronzatura d'ordinanza, salvo rarissime eccezioni. Cinque anni di liceo, altrettanti di università più vari master, dottorati, specializzazioni e non sanno nulla dei grandi piani militari della modernità, non leggono manco uno striminzito fondo sul quotidiano che trovano quando vanno al cesso, dimenticato dall'idraulico. E dunque Freud, la psicanalisi? Mai sentiti nominare. Le avanguardie storiche, la guerra civile spagnola, la letteratura e il cinema contemporanei. Se ne fregano. Per non dire della nozione stessa di cultura, intesa quale luogo in cui operare la trasformazione interiore, la mutazione alchemica che muove dalla nigredo infantile al lento e consapevole dischiudersi alla rubedo della maturità. Non pervenuta proprio. Solo la sclerotizzazione delle elitre di un determinato coleottero che vive nella Malgaccia inferiore. Di quello, sanno tutto.

Ma allora, se l'umanità pluridecorata sul campo dei saperi particolari ha smesso di essere composta da "guerrieri", e piuttosto disertori che se ne stanno asserragliati nelle casematte dei singoli dipartimenti, rifiutando la tenzone dentro il mondo, il muso contro muso con l'esistenza, che cosa sono diventati i nipoti di Eraclito? Sarò immodesto, ma credo di possedere anche questa risposta. Sono dei killer. Arriva un pizzino, fai questo o quest'altro, gli si dice. E così loro individuano il bersaglio intellettuale, armano il cane, fanno fuoco. Colpito e affondato. Quindi, senza neppure sapere chi fosse quella persona o concetto appena sistemati, se ne tornano a casa a mangiare, a trangugiare un piatto di pastasciutta ca' pummarola 'n coppa. Come, vi assicurano con un sorriso, in tutto 'o paese la fa solo mammà!

sabato 11 agosto 2012

Preferirei di no, o su quello che direbbe adesso Mentore a Telemaco (per Chiara)


Ieri ho scritto un post in cui condenso – esasperandole un poco, ma davvero non di molto – le tre o quattro esperienze che ho avuto in chat. Mi sono comunque bastate per capire che quella non è la mia tazza di tè, come dicono gli anglosassoni con il sopracciglio alzato.  Qualsiasi residuo di programma informatico adatto allo scopo è stato quindi sradicato dalle applicazioni del mio pc. L'improbabile conversazione riportata mi ha però fatto comprendere anche un' altra cosa, più sottile, forse perfino importante. Provo allora a condividerla.

Avete presente quando si dice, in genere con la prosopopea di chi ti stia consegnando un doblone del tesoro, che chiunque, anche “un contadino” – chissà perché tirano sempre in ballo i contadini, i quali non mi risulta amino molto concionare... –, chiunque ha qualcosa da insegnarti, ed è meglio se te ne stai zitto ad ascoltare? A partire dalla circostanza, in cui chi ti rammenta questa incorruttibile perla di saggezza si assegna un fondamentale ruolo educativo; che, per altro, ti guardi bene dall'aver richiesto...

Tocca però riconoscere: l'affermazione è assolutamente vera, ogni uomo possiede un dono di conoscenza per te, qualcosa, sì, da incassare e mettere subito in cassaforte. Ma è pure completamente falsa, allo stesso tempo e senza pregiudicare il primo assunto. Basta infatti un minimo di esperienza per sapere che gli altri, il più delle volte e specie quando ti chiamano al telefono – piove, non c'è campo, hai le mani impegnate dai sacchetti della spesa –, sono e rimangono dei grandissimi scocciatori. E' dunque un paradosso realizzato, la storiella del contadino da cui prendere ripetizioni. Una verità duplice ma non dialettica.

L'insegnamento a cui si fa tacito riferimento, così come ricaviamo da una lunga tradizione, è infatti quello che possiamo collocare nel rapporto tra allievo e Maestro. Un lento travaso dell'esperienza del primo nella curiosità dell'altro; o se preferite, un passaggio di testimone: vigile, sorvegliato, che prevede reciproca consapevolezza e disponibilità allo scambio, alla trasmissione simbolica del valore dentro quell'infinita maratona (più calli che medaglie) che chiamiamo vita.

Beh, fate allora la prova anche voi, se non l'avete ancora fatta. Non dico un contadino, che rappresenta una realtà troppo retorica e in fondo astratta, ma entrate anche solo cinque minuti in chat con uno sconosciuto (tra parentesi, potrebbe essere un contadino...), e vi troverete immediatamente scaraventati contro un muro, un ostacolo che neppure l'atleta più prestante riuscirebbe a scavallare. E questa persona dovrebbe diventare il vostro Maestro? Ma mi faccia il piacere...

Una distanza e un limite culturale e di interessi, certo, vocaboli e cadenze inconciliabili, ma non è ancora questo il punto. Più di frequente è proprio a un livello di base, delle emozioni, dei sentimenti primari, che ci accorgiamo di non avere nulla da spartire con il nostro interlocutore. Un marziano, ecco, una faglia antropologica che si sta spalancando alle radici dell'umano, per riprendere la preziosa intuizione di Pasolini. Eppure è proprio mentre annaspiamo nel magma denso del disagio, tra i relitti di una comunicazione impossibile, che scorgiamo una diversa sfumatura dell'apprendere: per differenza, per contrasto; gli psicologi la chiamerebbero formazione reattiva.

Ma torniamo ancora alla scena originaria, da cui tutta la pedagogia occidentale si è poi sviluppata per emulazione, e cioè dal concetto greco di paideia. Mentore e Telemaco, dunque. Il primo, capostipite per antonomasia del concetto stesso di magistralità, si prende cura integralmente dell'educazione del secondo, che ne diventa il mentee. Ed è così che Telemaco impara da Mentore tutto ciò che da lui può assorbire: i segreti oscuri della geometria, le belle lettere che scivolano dolci sul palato; anche l'arte terribile della guerra, e magari le indicibili carezze. Ma stop, oltre non si può andare. Se lì dunque si fosse rimasti, non ci sarebbe stata alcuna dinamica storica – non dico alcun progresso, concetto assai sdrucciolevole – e Telemaco sarebbe rimasto per sempre aggrappato al chitone del suo precettore, replicando tutt'al più il rapporto con un nuovo e giovane allievo.

E invece, come suo padre, come Ulisse, anche Telemaco sente a un certo punto l'impulso a partire, intraprende un viaggio. Per ricercare il genitore scomparso, certamente. Ma così facendo si forma il carattere non solo sulla base dei saggi insegnamenti del Maestro, trovandosi ora a contatto di ciò che gli è – e gli rimane, attenzione! – del tutto e radicalmente estraneo; tra cui il pozzo nerissimo che si apre dentro agli occhi di Antinoo. Ed è anche da quello, dal rapporto drammaticamente avverso con i Proci, che bivaccano pigramente nelle sue stanze e offendono la memoria del Padre, il corpo della Madre, che Telemaco impara, cresce, temprandosi nel corpo e apparecchiando il pensiero. E sarà questo il vero insegnamento, utile alla resa dei conti finale.

Ritrovare il proprio Padre, ossia la radice più autentica di quel che siamo, per Omero significa dunque essere pronti per farlo, essere a propria volta diventati padri di se stessi. Come quando si smarriscono gli occhiali, che si ritrovano sempre dopo averne acquistato un nuovo paio; si trova insomma qualcosa nel momento in cui non ci serve più... Eppure la ricerca non è stata vana, abbiamo magari ripescato una vecchia fotografia smarrita sotto al letto, una pepita d'oro di purissima nostalgia. E così le acquisizioni più proficue non avvengono solo per mezzo di nozioni astratte, preformate, ma per la via sanguigna delle emozioni profonde, l’intimo sentire e le casualità della vita. Detta in una parola: l'esperienza. Che ci insegna a dire anche dei no, oltre che dei sì, comandi, va bene, eseguo, Signor Maestro.

Come dire che ci vogliono anche i cattivi maestri, le volpi e i gatti, per imparare a distinguere quelli buoni. E da pupazzetti di legno che eseguono meccanicamente i compiti loro assegnati, trasformarsi in ragazzini.

Beh, se questa intuizione – chiaramente iperbolica, almeno al nostro svagato livello iniziale – contiene comunque il seme di una verità buona anche per il presente, avremmo forse guadagnato un libretto delle istruzioni per la modernità. Che davvero si manifesta come una serie di pareti invalicabili, eppure piene di crepe, di spifferi e uno scricchiolio in quelle che pensavamo le categorie inossidabili del pensiero; chiamatela pure "decadenza", se preferite. Un luogo e un tempo, in ogni caso, in cui la continua e spesso mediata esposizione al nostro prossimo, ce ne fa sperimentare anche l'intransitiva distanza, l'enigmatica alterità.

Ma dove pure, con la scorta del fagotto che ci ha consegnato Mentore più di duemila anni fa, assimiliamo di continuo da tutti – braccianti agricoli, casalinghe di Voghera, hostess e steward della Ryanair – oltre che da tutto ciò con cui entriamo in contatto, calati tra gli infiniti strepiti di un vicolo troppo affollato e promiscuo. Ma sapendo che al contadino dell'apologo, portatore, si pretende, di una morale positiva e superiore, abbiamo tutto il diritto di ribattere anche il nostro fermo e irrevocabile NO, almeno e per grazia nel pensiero. Ed è così che le chat e i social forum si mostrano finalmente per quel che sono, o meglio potrebbero diventare se utilizzate con ironia, e magari un pizzico di cuore:  un meraviglioso catalogo di NO, NO grazie, NON mi interessa, preferirei di NO. Da cui imparare - sì, imparare - a saziarsi nel digiuno.

venerdì 10 agosto 2012

Okkio ai komunisti, o sulla mia esperienza in chat

– Cucu, è permesso..... :-) 
– …
– Hei, ma ci seiii???
– Eccomi
– Finalmente :-) Ciaooooo
– Ciao
– Come ti kiami?
– Guido
– Io Simona
– Piacere, Simona
– Gli amici, però, mi kiamano Simy
– Piacere, Simy
– Come ti kiamano i tuoi amici?
– Guido
– Ma è uguale
– A cosa?
– A te. Cioè, al tuo nome
– Sì, è uguale
– Fico :-)
– Prego?
– …
– …
– No, scusa, stavo rispondendo a un altro tipo in chat
– Ok
– E cosa fai di bello nella vita, Giulio?
– No, Guido
– Sì sì, cosa fai?
– Il mediatore civile
– Fico :-)
– Dici a me?
– E a ki lo devo dire?
– A quell’altro, il tipo
– No no, è uscito, doveva andare in piscina
– Ok
– Molto fico comunque, bravo :-)
­– Grazie
– E guadagni bene?
– A far cosa?
– Quella cosa lì, la guardia civile, come si dice?
– Il mediatore
– E cosa medi?
– Tra le persone che litigano
– Tipo buttafuori?
– Mmmh, fuochino...
– Non sarai mica un giudice!!! :-0
– Una specie, ecco
– Ed è divertente?
– Cosa?
– Fare il giudice
– Non dirlo a nessuno, ma non posso giudicare niente
– E allora perché fai la guardia civile?
– Per soldi
– Però non me l’hai detto, se guadagni tanto?
– Non tanto
– Allora sei un komunista, dì la verità…… ;-)
– Un "komunista"?
– Sì, ki guadagna poco sono i komunisti. Lo stesso quelli ke hanno studiato
– Non lo sapevo. Interessante
– Ne ho conosciuti in chat: gira e rigira, tutti komunisti
– E tu non sei komunista?
– Naaaaaa, sei fuori: mica sono scema!!!!
– Mi pareva
– Mi sa ke tu hai pure studiato..… ;-)
– Un po’
– E cosa hai studiato, una scuola per giudici?
– Non sono giudice
– Però sei komunista. Dai, me lo dici
– Ragioneria
– Non skerzare
– Mi sono diplomato all’Istituto Tecnico Commerciale nel 1985
– Allora sei vecchio. E poi?
– Poi mi sono iscritto a Filosofia, ma non ho dato la tesi
– Lo vedi ke avevo ragione: sei un giudice filosofo!!!
– Più che altro, ragioniere
– E magari leggi anke Rebubblica, voi giudici komunisti leggete tutti la Repubblica ;-)
– Sì, ogni tanto. E tu cosa leggi?
– Boh, quello che capita, Fabio Volo. Ma sta perdendo i capelli
– I capelli?!
– I capelli, sì, non lo vedi alla tivù?
– Lo sento alla radio dal dentista. Ascolta Radio Deejay, mentre mi trapana
– Fa ridere. Ma non ne ha quasi più, di capelli, pufff, spariti
– Anche io sto perdendo i capelli
– Non preoccuparti, è normale: succede a tutti i komunisti
– Allora sto tranquillo
– Tranqui, sì. Ma è divertente essere un filosofo?
– Ti interessa la filosofia?
– Ke cavolo ne so, forse.... Mi sa però ke è una roba un po’ complicata :-(
– Da komunisti, intendi?
– Yesss, così mi piaci :-)
– E qualcosa che piace a te?
– Le cose semplici, divertirmi
– Ad esempio?
– La BMW Z4, i capelli ricci, il daiquiri alla fragola, Cristiano Ronaldo, la sua tartaruga scolpita, WOW!!!
– (Mm-mm)
– ... poi, ecco, hai presente quando scatta l'orario, e si aprono le porte il primo giorno dei saldi, si spalancano da sole?
– Il primo giorno dei saldi, come no
– E allora la gente corre dentro tutta assieme
Tori all'encierro di San Firmino...
– I tori firmati in serra, boh, se lo dici tu: a me piace quel momento lì
– E' un'immagine molto bella
– Anke chattare, mi diverte un sacco
– Non è da komunisti, chattare?
– Naaaaa, cosa stai dicendo!!!!
­– Chiedevo
– E' una cosa da filosofi, vero, kiedere?
– Sì, direi proprio di sì
– E ki risponde, poi?
– Beh, nessuno. La filosofia si occupa solo delle domande
– E delle risposte, ki si occupa delle risposte?
– I ragionieri, di solito
– Allora mi sa ke è più divertente la ragioneria
– Molto più divertente
– E la guardia civile
– Divertentissima
– Ti sta bene la divisa?
– La divisa...?
– La divisa da giudice, dai, su, svelto ;-)
– In genere lo facciamo svestiti, solo gli slip e un cappellino di carta per coprire la pelata: lo ricaviamo dalle pagine culturali di Repubblica
– Naaaaa, mi stai prendendo in giro
– ...
– Ma almeno sei carino?
– In che senso?
– Lo sapevo, sei proprio un komunista.....
– Forse hai ragione
– Hasta la vista, adesso devo proprio andare
– Sono già iniziati i saldi?
– No, vado in piscina
– Con il tipo?
– Sì, ciao
– Ciao Simy
– Ciao Diego
– …
– No, scusa, Giorgio

giovedì 9 agosto 2012

La regina è nuda, o sulle tette come fattore politico


Le tette. Una volta – diciamo fino agli anni settanta – ci stavano le donne con le tette. Poi, naturalmente, c'erano anche le donne senza tette, le donne che scrivevano, pensavano, indossavano i pantaloni di vigogna e si accendevano una Muratti Ambassador con un Dupont dalla fiamma alta, sempre troppo alta. Una lunga tirata...  Per poi spararti il fumo dritto in faccia, tra i capelli radi, una nuvoletta ovattata e densa su cui viravano i loro occhi già perduti altrove, con l'aria di chi contenda più per abitudine che vocazione. E tutto ciò, senza il minimo accenno di una convessità mammaria.

Ok, sto semplificando, ben prima degli anni settanta esistevano donne intelligenti e colte, ma con ampi e morbidi seni. E però nella loro immagine esposta – pensiamo a Susan Sontag, Ingeborg Bachmann o in Italia a una Camilla Cederna – il seno veniva come ricompreso in un algido aplomb, e il corpo sacrificato alla ragione. Gli anni settanta hanno segnato un punto di svolta anche in questo: la femminilità smette di biforcarsi sul discrimine degli elementi estrinseci, non da ultimo con valore transitivo di segno, dunque erotico, rendendo compatibili un magnifico cervello con un corpo di uguale magnificenza, per ottenere il quale (si pensava) era sufficiente qualche tagliando dal parrucchiere e gli esercizi aerobici di Jane Fonda.

Il corpo, ecco il punto, la carne e soprattutto il piacere, nella sua forma maiuscola del godimento fisico e sessuale. Che tornano finalmente a risuonare all’unisono col pensiero – e questa fu davvero una liberazione – come l'adhān squillante del muezzin dal minareto, ma senza più il velo di un contegno vagamente claustrale, pubblicamente occhiuto. E fin qui, tutto bene. Ma siamo certi che tale processo di brusca legittimazione corporea, alla lunga, e cioè al tempo attuale ma già a partire dal decennio successivo, gli anni ottanta, si sia tradotto in un guadagno civile; un guadagno per le donne stesse, intendo?

La mia impressione, che ricavo dall'immagine dei profili femminili sul web, o dall'imbarazzante omogeneità con cui le donne vengono rappresentate in televisione, è che l’affrancamento da un regime bigotto della doppia morale (o sei femmina o sei donna, detta in soldoni), più che a una visione finalmente manifesta e schietta del femminile – la sua verità sommersa – , per metonimia abbia condotto a una manifestazione spettacolarizzata della femminilità. E cioè, ancora, sorretta dai codici di una socialità fortemente indirizzata, tutto all'opposto dell'utopia libertaria e gioiosa. Certo, gli assist non arrivano più dalle gerarchie vaticane per la lunga mano dorotea, che misurava le scollature a Canzonissima, ma dalle sovrastrutture dello show business e del consumo, che non contemplano nemmeno più la logica binaria della scelta: o di qua o di là, col corpo o col pensiero.

Ma torniamo alle tette, per capirci. Il sospetto è che passi proprio per il giro seno, come nelle giurie bifolche dei concorsi di bellezza nell'Italietta della ricostruzione, lo stigma simbolico che legittima la presenza sulla scena del mondo, compreso il valore e l'autorità di quel che viene espresso in parole. E non mi sto riferendo dunque solo a una presenza seduttiva, all'archetipo di Venere o, stessa aria di famiglia, di Elena che osserva annoiata la battaglia dagli alti spalti di Troia, ma anche ad Atena, Diana cacciatrice e perfino Cassandra, che ora hanno bisogno di abbassare le spalline per essere credute in quel che dicono, il corpo come verifica della “profezia”.

In altre parole sono proprio le tette, il lustro e gioviale offrirsi della carne, o se preferite e più in generale la bellezza dell'involucro, a sostenere le categorie astratte del pensiero, almeno da quando gli universali ideologici si sono frantumati e mescolati ai cocci del muro di Berlino. E dunque io, o meglio lei può dire questo, o quest'altro, non tanto per la robustezza dell'argomentare o la compassione del cuore, ma per le tette che ti butta in faccia come tautologie acquisite al discorso. Se tu non possiedi delle tette altrettanto sature di un significato preverbale, una speculare radianza fisica, meglio se te ne stai zitto, va’.

Ma dagli e dagli con le tette, anche negli uomini ha finito col prevalere una forma simile di legittimazione: io penso, parlo, dispongo perché ho "una minchia tanta"; orpello fisico che può naturalmente declinarsi anche nei suoi vari sostituti simbolici, quali l'automobile sportiva, il successo professione, i titoli e il vario e sberluccicante medagliere. Tutte forme di realizzazione che partono e ritornano al corpo, un poter fare del corpo sulle cose, simile al principio fisico della leva. Che coincide con i totem culturali già individuati da Freud, mica siamo andati tanto lontano. Ma senza più alcun tabù.

Il risultato di questo processo che, non senza scossoni, incongruenze, dalla rimozione fisica degli anni cinquanta ha portato all'attuale trionfo del corpo come ethos, valore di scambio e unità di misura del significare, lo vediamo allora non tanto nello sport, nelle Olimpiadi londinesi di questi giorni, che sono comunque epifenomeni di tutto ciò. No, per quanto possa apparire paradossale, lo vediamo con maggior acutezza nel dibattito politico. Ad esempio con un Berlusconi –  sempre adorabilmente candido in quel che fa, forse perché aderente al suo tempo, allo Zeitgeist, come nessun altro mai – Berlusconi che può finalmente affermare: "Rosi Bindi? Più Bella che intelligente."

E lo afferma a un pubblico contraddittorio di idee, bada bene, lo afferma a Porta a Porta, non al Bar Sport con due bodyguard e un parcheggiatore con l’hobby del mandolino. Ma proprio per questo il suo è un giudizio politico di cui far tesoro, malgrado la sfumatura sia stata intesa da pochissimi, e lui al solito criticato (non senza qualche buona ragione, tocca riconoscere). Eppure era davvero l'esclamazione del bimbo che vede, quindi dice, che il re è nudo, per non parlare della regina!

Da ciò si ricava non solo la sostanza politica del berlusconismo – l’esaltazione giovanile del corpo, tipica delle destre populiste e carismatiche –, ma anche quella della sinistra cosiddetta di governo. Che è poi l'attitudine di una vecchia zitella, pure un po’ racchia e inacidita, che rimpianga i bei tempi andati e la zazzera degli spasimanti di una folta chioma che fu (non sto ovviamente parlando di Rosi Bindi, ma del "rosibindismo", se così posso dire). Ma il male non è allora in quel che si dice, e piuttosto in chi lo dice, nella sua retorica supponente. Specie quando le donne, anche a sinistra, soprattutto a sinistra, pensano se stesse attraverso le medesime categorie esteriori, e Concita De Gregorio può sdilinquire nell'esaltazione dei corpi ginnici degli atleti olimpici, come una novella Leni Riefenstahl che si perda nelle movenze mistiche della carne acerba e scattante.

Ed è così, per restare al cinema, che quando nel vasto mare incroceremo un vascello realmente alieno e intimamente pirata, l'unica bandierina che sapremmo estrarre per farci riconoscere prima della buriana finale, non accamperà la silhouette austera e drammatica della croce, o il sontuoso fregio del Partenone, ma sarà una minuscola sottoveste color rosa shocking, come in quel film di Blake Edwards con uno strepitoso Cary Grant. E sarà già tanto, se quelli non ci rideranno in faccia.

martedì 7 agosto 2012

La danza degli zombie, o sulla comunicazione e la morte


“Non esiste più una maggioranza in questo Parlamento”, dichiara Antonio di Pietro in una recente intervista, “esistono soltanto dei morti viventi che hanno paura di andare alle elezioni…” Parole che vengono alternate, in un montaggio realizzato dallo staff dell’IDV, con le immagini dei principali leader politici italiani, i quali avanzano pencolanti e allucinati (l’effetto è ottenuto con la computer grafica) come in un celebre video di Michael Jackson dei primi anni ottanta. Zombie, sì.
Guardando il filmato su YouTube – il cattivo gusto lo diamo per scontato –, viene così da riproporsi la domanda impossibile per definizione: cosa accade dopo la morte?
Eppure, per la prima volta, mi è sembrato di possedere una risposta. Niente. Dopo la nostra morte tutto continua allo stesso modo, senza alcuna visibile incrinatura nel tessuto morbido della vita. Con una lieve differenza. Smettiamo di comunicare, di rispondere a chi ci pone una domanda, come i politici italiani alle richieste di mutamento del Paese.
Non ci credete? Vi invito allora a fare questo prova. Andate su uno degli infiniti social network presenti in rete, specie quelli che promettono incontri eccitanti, l’amore per l’amore, l’eterna felicità dei giusti. Il più famoso di tutti si chiama Meetic. Società francese quotata in borsa, con svariati milioni di utenti in tutto il mondo, tra cui il sottoscritto. Per iscriversi non è richiesto il nome di battesimo, ma un nomignolo di invenzione ed eventualmente una o più foto a corredo del profilo, dove siamo chiamati sbozzare una sorta di narrazione personale. A quel punto, il nostro personaggio può finalmente entrare in scena.
Immaginiamo allora Bilancina78 e RamboRoma. Lui alto, moro, ex-paracadutista. Generoso e schietto, ma vagamente permaloso. Lei introversa, con la passione per i tatuaggi e i piercing e l’esoterismo. Artista, si autodefinisce. Si conoscono sul web, scambiano alcuni messaggi. A RamboRoma piace quella strana ragazza, che dopo ogni parola inserisce sette o otto puntini di sospensione e digita la k al posto della ch, come gli Autonomi quando scrivevano Kossiga boia con lo spray. Una cosa originale, pensa RamboRoma.
Poi, però, un giorno, lei smette di rispondere alle sue mail. Come mai, avrà mica trovato qualcun altro? E così lui insiste, all’inizio con garbo, vuole riconquistarla – la fotografia di Bilancina78 che continua a sorridergli, con la frangetta rossa e i capelli rasati sulle tempie. Quindi le sue parole si fanno più dure, offensive. Ma che si crede quella, conclude, di avercela solo lei! E inizia a chattare con Jennifercuore, immagine in costume sulla spiaggia e passione per le auto sportive.
Beh, cosa è successo a Bilancina78 lo spieghiamo noi a RamboRoma. E’ morta. Incidente stradale al rientro da un concerto di Biagio Antonacci, a cui aveva di malavoglia accompagnato la sorella. E come lei migliaia di iscritti – le statistiche assicurative potrebbero darci il numero esatto –, migliaia di zombie che continuano a sorriderci, a parlare proprio a noi. Dicendoci cose come adoro il ballo latino americano e gli uomini con gli addominali scolpiti, cose così, o anche altre, non è importante. Ognuno con una sua voce, piccoli o grandi sogni di riscatto. Ma tutti morti, cadaveri che su internet non vengono più seppelliti. Zombie, appunto.
Il video di Antonio di Pietro sembra però suggerirci un carattere più generale del fenomeno; prosopopea veniva detto dagli antichi, intendendo il dialogo immaginario con i defunti. E se è vero – lo pensava anche Pasolini – che il punto di discrimine tra vita e morte è la possibilità di comunicare, l’esperienza del web ci viene ancora in aiuto. Proviamo a fermare qualcuno per strada per domandargli l’orario. Siamo quasi certi che ci risponderà. Per semplice galateo, d’accordo, non per un moto degli affetti. E adesso facciamo lo stesso su internet. Non l’orario, intendo, ma una qualsiasi richiesta, inoltrata via mail a una persona a caso su Facebook. Anche se si tratta di un conoscente, siamo altrettanto certi che risponderà…? No, perché su internet non è prevista alcuna cortesia formale: domandare è lecito, rispondere, tutt’al più, un optional.
In un saggio di alcuni anni fa, Giorgio Agamben parlava di giuramento implicito tra i parlanti, che consiste nella percezione di qualcosa come un impegno non scritto a rispondere al nostro interlocutore. Questo dovere verbale, presente in quasi tutte le comunità linguistiche, sta però venendo meno. Ed è per Agamben il tradimento del giuramento, in buona parte causato dall’irruzione della tecnologia quale diaframma tra uomo e uomo. Con parole assai più semplici, io chiamerei lo stesso fenomeno con il termine ir-responsabilità. Fine delle risposte, un mondo di sole domande, come la comunicazione tra RamboRoma e Bilancina78.
Ecco, io non so allora cosa avvenga al nostro corpo dopo la morte, quella vera, quella nera. Ma grazie anche a Meetic e ad Antonio di Pietro, ho capito cosa succede dopo la morte della comunicazione, nel tempo dei giuramenti traditi, dell’irresponsabilità di massa. Non succede nulla. E si continua così a sorridere, a chattare distrattamente, in attesa della risposta di un altro che è già morto da un pezzo, di un parlamento di zombie. Ma nessuno pensa che Bilancina78 abbia diritto a una sepoltura, magari con un piccolo fiore tra i capelli rossi, che continuano così a sventolare come la bandiera esausta del bagnino.


Ps - Questo articola rielabora, in parte, idee e parole già presentate in questo blog. Avrebbe dovuto comparire sul settimanale "Gli altri", ma è stato rifiutato senza nemmeno una risposta di cortesia (comportamento che sperimento con regolarità, tra parentesi, nelle redazioni cosiddette de sinistra...).

mercoledì 1 agosto 2012

Semi senza frutto, o sull’età quando ha perduto il suo tempo (per Federico)

 
Ma Federico, avrebbe aperto anche lui un blog, un lounge bar, un’agenzia di mediazione civile grazie al decreto legge del 4 marzo 2010, basta possedere un diploma e un ufficio e un computer, quindi essere iscritti a un'associazione di categoria, ad esempio l'ABDR, Albo dei Buttafuori delle Discoteche Romagnole? Già, ma quale computer avrebbe utilizzato Federico: Macintosh o Pc, iPhone o Samsung S2, televisione al plasma oppure LED…? Magari sarebbe diventato uno di quei cacatori di arenaria che non guardano la tv, Federico, solo romanzi Adelphi o al limite i mistici sufi nell’edizione Bompiani di Gabriele Mandel, che negli anni si aggiunse da solo il vezzoso titolo di Khan, Gabriele Mandel Khan, nelle lingue dei popoli nomadi della steppa con il significato di capo, comandante, come Gengis Khan. La domenica mattina si sarebbe dunque sintonizzato su Radio3, Uomini e profeti, la Caramore che intervista Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, il nuovo culto laico per le religioni. E così Federico avrebbe seguito i seminari di Gianfranco Bertagni sulle tradizioni spirituali comparate, forse sarebbe diventato buddista, o metodista o trappista, seguace degli antichi rituali celti, con druidi canuti che invocano gli spiriti guida nell'anfiteatro dei menhir, quei suppostoni di pietra che Obelix intagliava a mani nude. Obelix, già... A casa di suo padre, del padre di Federico, da qualche parte deve ancora esserci la collezione di Asterix che gli ho prestato; come per i nani di Biancaneve, si faceva gara a chi ricorda più nomi, tutti rigorosamente terminanti con la ix: Assurancetourix, il bardo stonato che viene imbavagliato in occasione dei banchetti, a capo del villaggio Abraracourcix, con l'unico timore che cielo gli caschi un giorno sulla testa, Matusalemix e le sue infinite primavere; perciò nessuno vuole farci a botte – lui al contrario non aspetterebbe altro – durante le risse che puntualmente si accendono nella pescheria di Ordinalfabetix, appiccate dalle insinuazioni del fabbro Automatix sulla freschezza del pescato. Il pesce, ecco! Federico sarebbe potuto diventare uno di questi maniaci del pesce, quelli che vanno solamente nei ristorantini con le tendine e le lucine e le statuine in stile Brancusi, dove servono la tartare di tonno e la crudité di spada e salmone, un vinello fresco della valle del Reno. Oppure niente Reno, niente vino, e piuttosto il neo-salutismo coatto, l’animalismo virtuoso, il veganesimo alimentare e l'ornamentale New Age, a comporre il cerchio mistico delle mani da cui far scoccare la coralità vibrante nell'Ohmmmmm, ritrovandosi al termine da O' Marinariello, nuova gestione, a dividersi una pizzetta senza mozzarella solo verdure di stagione, salutandosi poi con "un abbraccio di luce"... No no, non ce lo vedo Federico. Ma neppure con i pantaloni aragosta e la Fred Perry con il collo alzato, da sfoggiare all’happy hour a cui arrivare sempre un po’ in ritardo, e pace se le pietanze più appetitose stanno già squagliandosi nelle viscere dei puntuali e grezzi. O peggio ancora scoprire il body building e la maratona dopo i quarant’anni, eppure anche in questa risacca festosa avrebbe potuto galleggiare Federico, con quale certezza posso escludere che sarebbe diventato tifoso della Pellegrini e di Magini, tra gli attempati ragazzetti che sfogliano le pagine sportive di Repubblica – giustificandosi con la scusa che Gianni Mura scrive bene – e regalano al figlio la maglia della Nazionale con il numero di Balotelli, il numero nove che già fu di quel Boninsegna di cui mi invidiavi l’introvabile figurina, ti ricordi Federico? Quindi essere padre, controllare il libretto delle giustificazioni, l’orario di rientro la sera; o invece uno di quei genitori up-to-date che scaricano la musica da eMule insieme ai figli, canticchiando Alfredo dei Baustelle quando li accompagnano a scuola il lunedì mattina, mentre a sua volta il figlio, tuo figlio maschio occhi azzurri e grandi come te, ricambia con una strofa di Mick Jagger. O ancora, votare Beppe Grillo alle amministrative, il cinema di Tarantino e dei fratelli Cohen, i noir svedesi su Amazon con un semplice click, gli amici degli amici, che sono tuoi amici, su Facebook, i nemici e però cordiali, i tatuaggi tribali, le lingue straniere, essere padroni a casa nostra, il tempo che resta, le feste comandate, la spontaneità di massa, fare cassa con la finanza derivata, i capelli brizzolati, la Programmazione Neuro Linguistica, la svastica sugli accendini, i corsi per diventare sommelier, i rentier, i corsi di qualsiasi cosa, in edicola, a dispense settimanali, la Playstation 1, 2, 3, l'Omega-3, il tè verde con gli antiossidanti, la maionese senza conservanti, l'aggettivo carinissimo, gli albanesi e i libici sui barconi, ma tanto è solamente Blog, i livelli milanesi dello smog, il kebab, la bici elettrica, la fica depilata, i pannelli fotovoltaici, TomTom o Garmin, altro dilemma capitale, il pane ai multicereali e la macchina per sfornarlo, per produrre il bene da sé o meglio ancora in famiglia, tutto si fa meglio in famiglia, giù nel box la Storia del Partito Comunista di Paolo Spriano, in un cartone, a fianco del Ducati Monster che ha preso il posto del Morini College; te l'ho passato io per un paio di occhiali da sci Cebè, era una sera in cui avevamo entrambi bevuto troppo, ma se non altro avevano le lenti a specchio e il galletto tricolore: somigliavo, due gocce d'acqua, a Gustavo Thoni dopo la prima manche al Sestriere, con l'abbronzatura del viso come il cono bigusto della Sammontana. Dimenticavo, le vacanze. Ora, devi sapere, Federico, si va in vacanza, ma soprattutto si parla delle vacanze. Così, quando incontri un nostro coetaneo, ti racconta dei posti esotici dove è stato in villeggiatura, e si aspetta che tu faccia lo stesso; sì, proprio e ancora come con le figurine: si confronta e ci si scambia l'altrove. E allora, vediamo, da dove avresti potuto essere appena rientrato... Massì, andiamo sul sicuro: diciamo Sharm el Sheik, a Sharm el Sheik a febbraio con una tipa appena conosciuta su Meetic e le gambe il doppio delle tue – che non erano lunghissime, dai, anche se quel medico ti aveva detto che con la pubertà mi avresti superato in altezza – ma vent'anni in meno. Dunque una ragazza di ventisei anni, cinque più di te, di quel te a cui mi sto rivolgendo da quando sei uscito con un piccolo salto dal tempo, ma che non sei ancora tu, Federico, e non sono nemmeno io. Perché avere un’età non significa semplicemente avere tempo, il tempo che tu non hai e così l’età ti rimane incollata come catrame sotto ai sandaletti da scoglio, quelli che chiamavamo "le Orribili" e io indosso ancora per eccentrica nostalgia, una volta anche a un matrimonio. Le producono in Francia, sempre in silicone trasparente o colorato, ma vengono vendute solo negli Stati Uniti, dove le acquisto attraverso internet e mi arrivano in una settimana: Lione, Chicago, Sondrio, corrono le merci più veloci del vento che fischia, della bufera che urla, in questo sol dell'avvenire che ci dicono già avvenuto, e se non ce ne siamo accorti è per via degli occhiali scuri, con o senza galletto. E allora fidati di me, Federico, fidati come ti sei fidato quella volta che mi hai consegnato il giornaletto trovato nei campi dietro la scuola, con lei bianca e lui nero che facevano delle cose, ma quali cose...? Un po’ si vedeva un po’ era nascosto dal fango raggrumato, dovevamo fidarci di quello che ci stava sotto, fidati che non è più tempo per avere la nostra età sepolta, la tua Saltafoss di oro purissimo, il manifesto di Julius Erving, Dr J., appeso sulla porta del bagno che ti guarda mentre fai il bidè, sospeso in un'infinita schiacciata che sembrava non planare mai, e invece si è schiantata al suolo pure quella. Ma ancora più infinite – cosa ci sarà più dell'infinità... – parevano le attese in sagrestia per servire alla messa della domenica mattina, la cotta bianca che si accoppia con la tonachetta nera come i due nel giornaletto, con pigra devozione tra l'odore della terra fresca, il fumo intenso del turibolo, in un'oscillazione lenta, il capogiro del tempo... Ma alla mia nuova età, Federico, non si ha più voglia di spartire il fumo con gli dei, dividere l'arrosto con il tempo, questo tempo qui. Se non la manciata di parole patetiche e tristi che qualcuno leggerà al posto tuo. E che, come tutto, come noi, resteranno semi senza frutto.

Con parole tue, o sui generi letterari (dedicato a Paolo Nori)

Io è un po’ di tempo che mi viene un dubbio, ma cosa starò scrivendo, il mio dubbio: dei racconti? degli articoli? delle poesie? un diario pubblico? dei pamphlet o dei piccoli saggi un po’ naif?, ci sono dentro un po’ tutte queste cose nei miei interventi sul blog, ma mescolate assieme, uno non capisce. Così se quello che non capisce magari un giorno mi guarda, mi guarda in quel modo lì – è capitato ancora ieri su Facebook – e poi mi chiede Qual è il tuo genere?, ecco giuro che io non lo so qual è il mio genere, e gli ho risposto E il tuo?, guardandolo anch’io in quel modo lì (forse perché quando si scrive si guarda, anche se non si vede). Poi, oggi, invece, guardavo la mamma di Tommy, ma in un altro modo, e gli diceva a Tommy Prova a dirlo con parole tue (mi sembrava bella quando lo diceva), non usare le parole della maestra le parole che trovi nel sussidiario, e lui chinava la testa rotonda sul foglio e riprendeva a muovere la penna, non lo so mica se poi scriveva per davvero. E in quel momento mi è venuta la risposta da dare a quello, la prossima volta che lo vedo, anche se non lo guardo. Io scrivo dei temi.