domenica 19 agosto 2012

Il primo amore, o sul tempo e l’istante


Quando ero piccolo, negli anni settanta o giù di lì, esisteva una trasmissione televisiva che si chiamava l’Altra domenica. Ideata e condotta da Renzo Arbore, è andata in onda la domenica pomeriggio, su Rai2, dal marzo del 1976 al luglio del 1979; l’anno in cui Mino Vergnaghi, in salopette crème e camicia azzurra, vince il ventinovesimo Festival di Sanremo con Amare. Ma la vera rivelazione fu Franco Fanigliulo con A me mi piace vivere alla grande, in cui poco prima del refrain, ed era quantomeno bizzarro per una canzone popolare, quasi distrattamente lasciava cadere un verso enigmatico:“ho un nano nel cervello, un ictus cerebrale...” E dopo qualche anno è morto veramente, per un ictus cerebrale.

Tra gli inviati del programma di Arbore, una ragazzina con i capelli scuri da maschietto, gli incisivi leggermente scheggiati e la pronuncia della erre alla francese; credo si chiami rotacismo, meglio noto come erre moscia. I genitori della ragazza erano un famoso regista italiano e un'altrettanto celebre attrice svedese; pare che lei gli abbia inviato, al famoso regista, una lettera in cui ci stava scritto: “Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese e in italiano sa dire solo "ti amo", sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.” E secondo voi, con una lettera così, come poteva andare a finire la storia…? Che comunque non è questa storia qui.

In questa storia si parla di canzoni, oltre che di una ragazzina con i capelli da maschietto e gli incisivi leggermente incrinati al centro. La prima volta che l’ho vista intenta ad arrotare la sua erre francese sul palato – era la tivù pubblica, si guardava sul divano di velluto grigio insieme a mamma e papà – , ho pensato bon, io quella lì voglio sposarmela proprio. Peccato che son troppo piccolo, non posso mandarle una lettera in cui le dico che conosco questo e quest'altro, ma so dire solamente ti amo, "te voli ben", in dialetto valtellinese. Di conseguenza me la sono tolta di mente con un sospiro, come si dice. O almeno ci ho provato...

La ritrovo infatti il decennio successivo, siamo alla metà degli anni ottanta e io faccio ormai parte dei "ragazzi di oggi", insieme a Luis Miguel. Sanremo però è caduto un po’ in disgrazia, ma sta provando a risollevarsi dopo il minimo storico del 1983, con il primo posto di Tiziana Rivale che canta Sarà quel che sarà, e mai titolo fu più azzeccato. Nel frattempo, la ragazzina con i capelli da maschietto, gli incisivi sbeccati e la erre alla francese, meglio detta rotacismo o erre moscia, diviene l'immagine pubblica (“testimonial”, se preferite dirla come dicono i giornali) di uno dei più importanti marchi internazionali di bellezza – la chiamano bellezza (per quelli di prima "beauty"), ma fan poi solo delle creme. E io penso bon, ha più di trent’anni suonati e questi la prendono per la bellezza, beauty, cioè insomma per le creme, e io penso ma lo sai, che me la sposerei lo stesso. Peccato che son sempre troppo piccolo, dico vuoi sposarti prima di fare la patente della Vespa?

Passa una manciata di anni e finalmente una grande edizione di Sanremo, con l’orchestra che torna dopo dieci anni di assenza e l’abbinamento delle canzoni in concorso con i “big” stranieri, che regala una fioritura inattesa del brano di Toto Cutugno tra le dita di quel prodigioso giardiniere di Ray Charles. Bellissima anche la canzone dei Pooh, che con Uomini soli guadagnano un meritato primo posto. Ma dal palcoscenico del solito divano grigio, da cui ho tifato fino all'ultimo, la palma sarebbe andata a Vattene Amore, di Mietta e un Amedeo Minghi con i capelli più lunghi, lisci e biondi del solito; probabilmente li ha trattati con i prodotti di quella famosa linea di bellezza di cui è immagine pubblica la ragazzina, ormai fatta donna. Rimangono i denti scheggiati, la riga di lato da maschietto e la erre francese o moscia o rotacismo. Siamo nel 1990 e state sicuri che io me la sposerei ancora, e bon.

Peccato che sia già sposata, scopro, sbang, dopo nove anni. Sto dal barbiere e pesco a caso tra le riviste, così c'è un'ulteriore porta in faccia: non un marito, ma stiamo al secondo o terzo matrimonio...  Cacchio, questa non ci voleva! Provo allora a distrarmi accendendo il televisore. L'inverno, sconsolato come me, sta mollando piano la sua presa, e Fabio Fazio conduce la sua prima edizione sanremese, con Gorbachev e Dulbecco e Laetitia Casta presenti a turno sul palco dell’Ariston; cosa che apparve molto democratica, molto civile, mah. Fanno da contrappunto i versi di Nada Malanima, non una delle sue canzoni migliori ma quando attacca con "spezzami le ossa \ non darmi tenerezza" vai, allora la riconosco! In una delle serate iniziali, tonf, un orchestrale va giù secco come una pera matura. Semplice svenimento. Ma anche qui, molto corretto, molto democratico, molto civile il comportamento del presentatore. Mah. Poco memorabile la canzone vincitrice di Anna Oxa, surclassata da un ispiratissimo Nino D’Angelo, solamente ottavo con Senza giacca né cravatta.

Quando incontro qualcuno e si inciampa nell’argomento – l’argomento è naturalmente la ragazzina già donna e ora signora, ma sempre con i capelli da maschietto, gli incisivi segnati etc etc. –, quando incontro qualcuno e in genere si tratta di un uomo, o meglio di un maschio, inizia adesso a prendere piede un’espressione che a me non piace mica tanto, quell’espressione lì: “Cinquant’anni”, ti dice l'uomo che hai davanti, "quasi cinquant'anni e continua a far la bellona per le creme. Ma che si crede, di poter restare giovane in eterno? Però…” Però cosa pensi mentre lui assapora una lunga pausa, cerca la parola definitiva con cui chiudere il discorso, come la pietra sepolcrale. “Però” conclude con una brusca accelerazione, “un paio di colpetti io glieli darei ancora”.

E siamo arrivati al 2012, edizione davvero inguardabile di Sanremo, tant’è che non l’ho guardata proprio, anche se so che ha vinto una tale Emma con una canzone che si intitola Non è l’inferno; da cui si deduce che potrebbe esserne l’anticamera. Non male, premio della critica, forse solo la canzone di Samuele Bersani, ma cosa gli è venuto in mente di presentarsi in scena con le scarpe da pallone coi tacchetti... Tutto questo accadeva comunque a febbraio, piccolo salto in avanti, “flashforward” lo chiamano nel cinema quelli che fanno finta di capirne di cinema, e arriviamo al 18 giugno. Luci spente. Candeline. Torta. Dai, soffia, soffia… Perché è il giorno in cui la ragazzina compie sessant’anni – dico, 60!

Ma la vera notizia è forse un’altra, ed è che non voglio sposarla più.

No no, non è per via che sono troppo giovane – ho sempre quattordici anni in meno, e allora? –, o lei troppo vecchia, no, davvero: è sempre bellissima,"very beautiful” se siete ancora di quelli là. Mi importa un fico anche dei suoi numerosi compagni, veri o presunti, tra cui un paio di registi famosi almeno quanto il padre. E' che non sono più innamorato, semplicemente. Non c’è un motivo, è successo, così, come quando ho smesso di guardare San Remo, a volte le cose succedono così. Senza una ragione. Eppure anche questa storiella da niente, senza ragioni né torti, una cosa forse è riuscita ad insegnarmela. Stevenson pensava che “le storie servono a rendere più chiare le lezioni della vita”, ma prima di morire su un’isoletta del Pacifico, come Fanigliulo di ictus cerebrale, sussurrò: “Un’ostinata convulsione di materia bruta”. Come a dire che a volte è inutile sforzarsi di capire.

La mia lezione del giorno, provvisoria come tutto ciò che si forma, muta e annega tra brute ostinate convulsioni, sta dunque nell’aver imparato a distinguere tra strofa e ritornello; e cioè, in pratica, tra tempo e istante.

Che sembra sempre uguale, l'istante, un motivetto dolce in cui le cose si manifestano, ritornano, ti fanno il solletico ai timpani ma anche allo sguardo, per poi nascondersi nuovamente dentro la pancia del tempo. Ed è allora con la strofa che invece tutto muta lentamente, ma cambia per davvero: quando nel refrain è come se non fosse successo nulla; e in effetti, nel colmo dell'esposizione, la pupilla che si spalanca gongolante alla vita, non c’è proprio niente da vedere. Così nascono le foto sovraesposte: per un eccesso di confidenza. Ci sta poi che un orchestrale si rilassi un attimo e vada giù come una pera, no?

O come quando, ecco, all’Altra domenica arrivò un tizio sconosciuto con la barba, il naso lungo e appuntito, gli occhi a palla. Si chiamava AndyLuotto. La cosa che sapeva fare Andy Luotto, era mettersi a guardare in camera. Zitto. Muto. Nient’altro. Una sfinge di rarefatta demenza, che catturava lo sguardo e monopolizzava l’attenzione dal divano grigio, su cui stavo sempre seduto insieme a mamma e papà. E il tempo, per me, è rimasto quella famiglia degli anni settanta ricomposta dentro lo sguardo assente e vagamente ebete di Andy Luotto. In cui nulla accade, mentre tutto succede.

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