sabato 11 agosto 2012

Preferirei di no, o su quello che direbbe adesso Mentore a Telemaco (per Chiara)


Ieri ho scritto un post in cui condenso – esasperandole un poco, ma davvero non di molto – le tre o quattro esperienze che ho avuto in chat. Mi sono comunque bastate per capire che quella non è la mia tazza di tè, come dicono gli anglosassoni con il sopracciglio alzato.  Qualsiasi residuo di programma informatico adatto allo scopo è stato quindi sradicato dalle applicazioni del mio pc. L'improbabile conversazione riportata mi ha però fatto comprendere anche un' altra cosa, più sottile, forse perfino importante. Provo allora a condividerla.

Avete presente quando si dice, in genere con la prosopopea di chi ti stia consegnando un doblone del tesoro, che chiunque, anche “un contadino” – chissà perché tirano sempre in ballo i contadini, i quali non mi risulta amino molto concionare... –, chiunque ha qualcosa da insegnarti, ed è meglio se te ne stai zitto ad ascoltare? A partire dalla circostanza, in cui chi ti rammenta questa incorruttibile perla di saggezza si assegna un fondamentale ruolo educativo; che, per altro, ti guardi bene dall'aver richiesto...

Tocca però riconoscere: l'affermazione è assolutamente vera, ogni uomo possiede un dono di conoscenza per te, qualcosa, sì, da incassare e mettere subito in cassaforte. Ma è pure completamente falsa, allo stesso tempo e senza pregiudicare il primo assunto. Basta infatti un minimo di esperienza per sapere che gli altri, il più delle volte e specie quando ti chiamano al telefono – piove, non c'è campo, hai le mani impegnate dai sacchetti della spesa –, sono e rimangono dei grandissimi scocciatori. E' dunque un paradosso realizzato, la storiella del contadino da cui prendere ripetizioni. Una verità duplice ma non dialettica.

L'insegnamento a cui si fa tacito riferimento, così come ricaviamo da una lunga tradizione, è infatti quello che possiamo collocare nel rapporto tra allievo e Maestro. Un lento travaso dell'esperienza del primo nella curiosità dell'altro; o se preferite, un passaggio di testimone: vigile, sorvegliato, che prevede reciproca consapevolezza e disponibilità allo scambio, alla trasmissione simbolica del valore dentro quell'infinita maratona (più calli che medaglie) che chiamiamo vita.

Beh, fate allora la prova anche voi, se non l'avete ancora fatta. Non dico un contadino, che rappresenta una realtà troppo retorica e in fondo astratta, ma entrate anche solo cinque minuti in chat con uno sconosciuto (tra parentesi, potrebbe essere un contadino...), e vi troverete immediatamente scaraventati contro un muro, un ostacolo che neppure l'atleta più prestante riuscirebbe a scavallare. E questa persona dovrebbe diventare il vostro Maestro? Ma mi faccia il piacere...

Una distanza e un limite culturale e di interessi, certo, vocaboli e cadenze inconciliabili, ma non è ancora questo il punto. Più di frequente è proprio a un livello di base, delle emozioni, dei sentimenti primari, che ci accorgiamo di non avere nulla da spartire con il nostro interlocutore. Un marziano, ecco, una faglia antropologica che si sta spalancando alle radici dell'umano, per riprendere la preziosa intuizione di Pasolini. Eppure è proprio mentre annaspiamo nel magma denso del disagio, tra i relitti di una comunicazione impossibile, che scorgiamo una diversa sfumatura dell'apprendere: per differenza, per contrasto; gli psicologi la chiamerebbero formazione reattiva.

Ma torniamo ancora alla scena originaria, da cui tutta la pedagogia occidentale si è poi sviluppata per emulazione, e cioè dal concetto greco di paideia. Mentore e Telemaco, dunque. Il primo, capostipite per antonomasia del concetto stesso di magistralità, si prende cura integralmente dell'educazione del secondo, che ne diventa il mentee. Ed è così che Telemaco impara da Mentore tutto ciò che da lui può assorbire: i segreti oscuri della geometria, le belle lettere che scivolano dolci sul palato; anche l'arte terribile della guerra, e magari le indicibili carezze. Ma stop, oltre non si può andare. Se lì dunque si fosse rimasti, non ci sarebbe stata alcuna dinamica storica – non dico alcun progresso, concetto assai sdrucciolevole – e Telemaco sarebbe rimasto per sempre aggrappato al chitone del suo precettore, replicando tutt'al più il rapporto con un nuovo e giovane allievo.

E invece, come suo padre, come Ulisse, anche Telemaco sente a un certo punto l'impulso a partire, intraprende un viaggio. Per ricercare il genitore scomparso, certamente. Ma così facendo si forma il carattere non solo sulla base dei saggi insegnamenti del Maestro, trovandosi ora a contatto di ciò che gli è – e gli rimane, attenzione! – del tutto e radicalmente estraneo; tra cui il pozzo nerissimo che si apre dentro agli occhi di Antinoo. Ed è anche da quello, dal rapporto drammaticamente avverso con i Proci, che bivaccano pigramente nelle sue stanze e offendono la memoria del Padre, il corpo della Madre, che Telemaco impara, cresce, temprandosi nel corpo e apparecchiando il pensiero. E sarà questo il vero insegnamento, utile alla resa dei conti finale.

Ritrovare il proprio Padre, ossia la radice più autentica di quel che siamo, per Omero significa dunque essere pronti per farlo, essere a propria volta diventati padri di se stessi. Come quando si smarriscono gli occhiali, che si ritrovano sempre dopo averne acquistato un nuovo paio; si trova insomma qualcosa nel momento in cui non ci serve più... Eppure la ricerca non è stata vana, abbiamo magari ripescato una vecchia fotografia smarrita sotto al letto, una pepita d'oro di purissima nostalgia. E così le acquisizioni più proficue non avvengono solo per mezzo di nozioni astratte, preformate, ma per la via sanguigna delle emozioni profonde, l’intimo sentire e le casualità della vita. Detta in una parola: l'esperienza. Che ci insegna a dire anche dei no, oltre che dei sì, comandi, va bene, eseguo, Signor Maestro.

Come dire che ci vogliono anche i cattivi maestri, le volpi e i gatti, per imparare a distinguere quelli buoni. E da pupazzetti di legno che eseguono meccanicamente i compiti loro assegnati, trasformarsi in ragazzini.

Beh, se questa intuizione – chiaramente iperbolica, almeno al nostro svagato livello iniziale – contiene comunque il seme di una verità buona anche per il presente, avremmo forse guadagnato un libretto delle istruzioni per la modernità. Che davvero si manifesta come una serie di pareti invalicabili, eppure piene di crepe, di spifferi e uno scricchiolio in quelle che pensavamo le categorie inossidabili del pensiero; chiamatela pure "decadenza", se preferite. Un luogo e un tempo, in ogni caso, in cui la continua e spesso mediata esposizione al nostro prossimo, ce ne fa sperimentare anche l'intransitiva distanza, l'enigmatica alterità.

Ma dove pure, con la scorta del fagotto che ci ha consegnato Mentore più di duemila anni fa, assimiliamo di continuo da tutti – braccianti agricoli, casalinghe di Voghera, hostess e steward della Ryanair – oltre che da tutto ciò con cui entriamo in contatto, calati tra gli infiniti strepiti di un vicolo troppo affollato e promiscuo. Ma sapendo che al contadino dell'apologo, portatore, si pretende, di una morale positiva e superiore, abbiamo tutto il diritto di ribattere anche il nostro fermo e irrevocabile NO, almeno e per grazia nel pensiero. Ed è così che le chat e i social forum si mostrano finalmente per quel che sono, o meglio potrebbero diventare se utilizzate con ironia, e magari un pizzico di cuore:  un meraviglioso catalogo di NO, NO grazie, NON mi interessa, preferirei di NO. Da cui imparare - sì, imparare - a saziarsi nel digiuno.

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