venerdì 17 agosto 2012

Scrivo quindi sono, o sulla scrittura e il mondo


Il cinema non è un semplice artificio tecnico con cui descrivere la vita, ma è il linguaggio della vita – la sua manifestazione percepibile, esposta – in cui la vita si riflette per comprendersi e magari amarsi un po' di più. Questa, almeno, era l’opinione di Pier Paolo Pasolini. Che così argomentò la sua predilezione verso il cinema: non dover più utilizzare la lingua italiana, operando in tal modo l’unica forma di dissidenza civile ancora concessa a un poeta. Tacere il linguaggio letterario, che è lo stesso delle istituzioni, del Potere, per accostarsi alla nuda vita senza più veli o bandiere, dentro cui la si avvoltola come a ricomporre una salma.

Ripensavo alla potente intuizione appena ricordata, confrontandola, istintivamente, con i complimenti che capita di rivolgere a chi scrive. Tu scrivi bene, gli si dice. Tu sai scrivere. Beh, non sono completamente d’accordo.

Come il cinema utilizza il linguaggio della vita (e dei sogni) per esprimere i propri spunti, anche la scrittura utilizza un linguaggio preesistente: quello del pensiero, prima ancora che della comunicazione interpersonale, la relazione significante. Ed è proprio per questa via, percorsa a ritroso, che Pasolini poteva concludere che il Potere ci manovra, ci pensa, essendo da esso realmente pensati in quanto titolari di un linguaggio appreso. Ma già Rimbaud (prima di Lacan e Foucault e Umberto Tozzi) affermava sfacciatamente: “Je est un autre”. E l’altro, appunto, era la magnifica lingua da cui era parlato, il colore delle vocali che gli rimaneva appiccicato alle dita lunghe e sottili.

Eppure una lunga tradizione filosofica, che si fa risalire alla celebre sentenza di Cartesio (“cogito ergo sum”), ha visto proprio nel pensiero la certificazione della nostra identità, al punto che non possiamo sottrarci a un passaggio ulteriore: se è vero che il linguaggio, almeno in parte, dispone di noi, è dunque altrettanto vero, o se preferite conseguente, il fatto che noi non disponiamo mai davvero del linguaggio. La lingua con cui noi pensiamo, quindi scriviamo, non è infatti una cosa come un'altra, che possiamo maneggiare con estrinseca disinvoltura. E ciò perché se io penso e quindi sono, io sono, mi realizzo, attraverso il gesto del pensiero.

Da ciò si ricava che se io “è un altro” – il linguaggio – il linguaggio non può essere senza di me, in quanto sono io a sillabarlo, a inciderlo, insomma a rigeneralo dal limbo potenziale in cui si trova confinato, in tal modo generando anche il me stesso che pensa e quindi è. In altre parole, esiste una circolarità semantica tra linguaggio e soggettività moderna, che ci impedisce di pensarci (meglio, di concepirci) al di fuori di esso. Sarebbe infatti come collocare un Io ulteriore al di fuori di noi: ma a questo punto Io, il vero Io, chi è: colui che pensa in parole o colui che si guarda pensare, dalle propaggini di un continente rarefatto ed extralinguistico?

Per uscire dal paradosso, dobbiamo dunque riconoscere che la scrittura non corrisponde a un semplice artificio tecnico-espressivo, qualcosa da maneggiare come uno scalpello oppure un sacco di patate – ciò che si dice "saper scrivere", essere "bravi" – ma al modo attraverso cui noi veniamo al mondo come esseri pensanti. O meglio ancora al nostro modo, al nostro mondo, a noi.

Forse qualcuno si ricorderà del celebre aneddoto riferito a un Jean-Paul Sartre particolarmente pedante, quel giorno lì. Il giorno in cui se ne stava seduto al tavolo di un bistrot in qualche fronzuto boulevard parigino, e si presentò a lui un signore con indosso una giubba bianca e un paio di pantaloni neri, così presentandosi: “Salve, sono il cameriere.” “No, lei non è il cameriere”, lo corresse il filosofo con una punta di ironico disappunto. “Lei fa, il cameriere”.

Beh, per la scrittura possiamo tranquillamente affermare il contrario: uno non "fa" lo scrittore, ma è, integralmente è la propria scrittura.

E dunque, se volete farmi un complimento, non ditemi che scrivo bene, che so scrivere, perché nella migliore delle ipotesi sarebbe illusione, e nella peggiore una forma di circonvenzione. Ditemi piuttosto che, attraverso la scrittura, io sono diventato qualcosa. E questa cosa che produce combinazioni alfabetiche vi sembra buona, oppure cattiva, pessima, decidete voi. In ogni caso sono sempre io a essere in gioco, non le parole che mi rappresentano. Perché non ci sono buoni o cattivi scrittori, non ci sono camerieri, ma solamente uomini con o senza qualità.

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