martedì 28 giugno 2011

La farfalla è un roditore, o sull'ennesimo crimine di Facebook


Tra gli infiniti crimini di Facebook, ora c'è anche quello che sta facendomi venire in odio la poesia. Chi infatti, su Facebook, si sveglia e scrive sulla propria bacheca: "Oggi mi rode il culo". E questi sarebbero quelli normali. Mentre altri, come una tale Danyla che mi ha richiesto l'amicizia alcuni mesi fa, ugualmente si svegliano, questa mattina, ma scrivono invece:

"un pulviscolo di riflessi tra disordine di vertebre ed infanzia di dita...nella densità di ciò che imprimono...mentre l'uno è mosto e l'altro vino..."

Al momento ci sono già cinque persone che hanno alzato il loro pollicione, mostrando di gradire quel che ha appena scritto Danyla. Ma si tratta davvero di una poesia, a suffragio del mio subentrato odio al genere? Magari è semplicemente un pensiero senza zavorra... una cartolina da un luogo di villeggiatura della mente... che cos'è? In ogni caso la partecipe attenzione dei cinque, come "infantili" dita di una mano, significherà pure qualcosa. Forse anche solo l’apprezzamento ad alcune immagini enigmatiche e vagamente fantasy, che fanno da corredo al testo. O dobbiamo credere che esista realmente qualcuno a cui piace un pulviscolo di riflessi tra disordine di vertebre ed infanzia di dita?!

Ho così provato a rileggere le parole sontuose e rarefatte di Danyla per sei o sette volte (è un esperimento che consiglio a tutti), nella speranza di riuscire a tradurle in una lingua comprensibile, pubblica come dovrebbe essere un social network. Alla fine sono arrivato alla conclusione che una traduzione verosimile potrebbe essere la seguente:

"Oggi mi rode il culo."

In pratica sia che il concetto venga espresso in prosa sia in poesia, su Facebook io continuo a leggere di persone che si svegliano e gli rode il culo. O che, come insinuava sornione John Cage, non hanno nulla dire. E lo dicono. La differenza sta dunque solo nella varietà della dizione - diretta oppure involuta, perfino barocca - ma nella sostanza c'è una sorprendente unanimità: l'infinito rodimento di chi non ha altro modo di manifestarlo, di manifestarsi. Non avendo però nulla da comunicare.

Eppure in una riflessione che potrebbe essere conclusa qui, verificando come Facebook sia il ricettacolo di una generale insoddisfazione - non soddisfatto è in particolare il desiderio di veder risplendere una propria lucina, che si distingua stabilmente tra le luminarie guizzanti del mondo-, dobbiamo introdurre un'ulteriore e interessante variabile: si tratta sempre e comunque di un rodimento intransitivo. Che non va cioè a comporre, in accordo con gli altri rodimenti, le altre lucine, la sagoma uniforme e maestosa di un albero di Natale nella notte, a rischiarare lo spazio circostante.
Abbiamo così tante piccole e idiosincratiche smanie espressive, davvero un pulviscolo di riflessi che dal nulla cerca di essere qualcosa, senza però contenere al suo interno alcun seme generativo, per richiamare la precedente metafora arborea. E di conseguenza nemmeno la coltivazione di un progetto, la gemmazione di nuovi significati che, impollinandosi a vicenda, possano condurre a una nuova fioritura. Quindi alla raccolta, all'assimilazione nutriente per il corpo sociale. No, solo il nulla che reclama però una sua pubblica forma, inerte e lucida come un fiore di plastica.

O se volessimo provare a spostare l'intuizione dal linguaggio della botanica a quello della logica formale, dovremmo probabilmente ricondurre tutto ciò al concetto di tautologia, o meglio ancora di tautologia estetica.

E' infatti rarissimo che gli interventi su Facebook siano veicolati per mezzo di una riflessione articolata e composta, formulati nella misura sorvegliata di un linguaggio civile, senza velleità oracolari o ammiccamenti ironici. Ossia con un'impostazione dialettica, dove l'altro sia compreso quale ombra implicita delle nostre affermazioni, che si distinguono dalle esternazioni proprio per la presenza (anche solo mentale) di un interlocutore, in tal modo partecipe alla generazione di un significato negoziabile e aperto. Quindi dal significato al fare, a una prassi efficiente nel reale.

Estetico è invece il gesto di chi semplicemente ama guardare ed essere guardato, anche le cose altrui, in un famelico processo di incorporazione. Che porta al dilagare di citazioni dotte oppure pecorecce, scampoli di mondo e vecchi spezzoni su YouTube, pubblicati sulla propria bacheca con una cadenza meccanica simile a quella di una dogana: pollicione levato e la dogana ti fa passare, ti annette all'ineffabile regno della visibilità, della luce; pollicione non-levato e la dogana rimane chiusa, le tue parole riconsegnate al limbo opaco dell'indifferenza.

Ciò che non ritrovo nelle nuove forme di comunità virtuali è allora una lingua che faccia attrito sulle cose, nello sforzo congiunto o più precisamente dialogato, umanamente intenzionato, di interpretare la realtà per stabilire un ruolo attivo e volontario al suo interno. L'alfabeto di Facebook è invece contemplativo, e ancora più spesso autocontemplativo. Ed è da qui che nasce l'elemento tautologico e profondamente asociale. Mi sembra insomma che ci si trovi alle prese con l'ennesima mina dalla miccia bagnata: uno strumento comunicativo potenzialmente deflagrante, che potrebbe avere effetti politici ed espressivi su ampia scala. Ma invece si è deciso di usarlo solo per grattarsi il sedere.

Anzi, come visto, per osservare il prurito senza fare nulla. Solo rodimenti di culo, e rodimenti di rodimenti in un processo esponenziale di astrazione. Che raggiunge infine le leggerissime e diafane ali di una farfalla, "pulviscolo di riflessi tra disordine di vertebre ed infanzia di dita..." Ma alla lunga, a furia di scontrarmi con tali squisiti cadaveri d'insetto, posti sotto al vetrino di un'attenzione che si vorrebbe senza più alcuna dogana, infinita e dunque senza fine, senza un altro a definire l'ordine comune del discorso, anche a me ha finito col rodere il culo.

lunedì 27 giugno 2011

Peppo Parolo


Tra la fine degli anni sessanta e la metà dei settanta mia madre frequentava una profumeria sondriese di nome Parolo, che è anche il nome della via in cui sono nato e cresciuto, al numero 10. La profumeria Parolo invece si trovava - e si trova ancora, ma con una diversa gestione - al termine della galleria Campello, dove fino a pochi anni fa era rimasto un cavallo a gettone bianco. La vernice negli ultimi tempi si era scrostata e la coda rotta; qualcuno aveva scritto Furia su un fianco dell'animale, con un pennarello nero. Mia madre, al termine della sfilata delle vetrine, passava dunque davanti a Furia, prima di girare a destra ed entrare nell'atrio lungo e stretto della profumeria Parolo, che lei frequentava ma non come una semplice cliente. Era infatti amica dell'anziano proprietario: credo si chiamasse Peppo ed era un uomo basso e curvo e con gli occhiali spessi, i capelli soffici, bianchi, la voce roca. Una volta raccontò di come suo padre fosse stato ucciso dai fascisti picchiandolo ripetutamente con sacchetti di tela riempiti di sabbia. Per non lasciare segni sul corpo, concluse.

Io accompagnavo spesso mia madre nelle sue visite a Peppo Parolo, mi piaceva l'odore, anche se dopo un po' mi annoiavo. Come ricompensa alla mia pazienza avevo diritto a un giro in groppa a Furia, ma quella volta lì ero già troppo grande; avrò avuto sei o sette anni e aspettavo la primavera per l'arrivo degli autoscontri, la coda di Provolino da afferrare per vincere una nuova corsa. Appena rientrati a casa ricordo comunque che glielo domandai: "Chi sono i fascisti, mamma?" Lei me lo spiegò con parole circospette, per non turbarmi più di quanto già non fossi, ma anche chiare. I fascisti sono uomini a cui non piace la libertà degli altri uomini, solamente la loro. Poi aggiunse che la via in cui abitavamo si chiamava Parolo in ricordo del padre di Peppo, ucciso dai fascisti senza lasciare alcuna traccia, come si fa con le foche per non rovinare la pelliccia. Questo dettaglio della pelliccia delle foche però la mamma non l'aveva detto, solo alcuni anni dopo, guardando un documentario in televisione, Ambrogio Fogar aveva spiegato la crudele tecnica con cui vengono cacciate, e mentre parlava gli eran venuti gli occhi lucidi e un tono molto arrabbiato della voce. Io avevo pensato al padre di Peppo Parolo e ai sacchetti di tela dei fascisti.

Al termine delle visite Peppo Parolo ci regalava sempre dei campioncini di profumo: femminili e dolci per mia madre e altri più speziati anche per me, che in alcuni casi mi facevano starnutire. Io me li versavo subito addosso, anche sei o sette tipi diversi in una sola volta, e quando uscivo dal negozio lasciavo un alone odoroso al mio passaggio, come un barone siciliano dopo la toilette. Un baronetto che starnutisce. Il profumo che mi piaceva di più, tra quelli che avevo scoperto insieme ai fascisti, si chiamava Eau de Bruyere ed era contenuto in una bottiglietta verde, con un voluminoso tappo color senape. Anche a mio padre, a cui mia madre aveva dato il dopobarba, sempre Eau de Bruyere, era piaciuta molto questa marca di profumo, che da quel giorno aveva iniziato a utilizzare d'abitudine. Io non sono stato particolarmente precoce e direi che, con regolarità, ho iniziato a radermi solamente all'inizio delle scuole superiori, facendo seguire il tutto con una bella spruzzata di Eau de Bruyere.

Negli anni successivi a mia madre era presa questa mania di farmi delle sciarpe - a tinta unica, mélange e soprattutto con larghe fasce di colore, come le bandiere degli stati -, e così durante un capodanno in montagna avevo prestato al mio amico Federico una sciarpa in cui si ripetevano il bianco, rosso e blu della bandiera francese, perché tremava tutto dal freddo con addosso solo un trench crema in stile tenente Colombo. Dopo alcuni giorni Federico era venuto a casa mia, in via Parolo 10, a riportarmi la sciarpa francese, ma prima di andar via mi aveva chiesto se potevo dirgli qual'era la marca del mio dopobarba. Il fatto, come dire... aveva continuato Federico un po' imbarazzato, è che la sua fidanzata aveva annusato la mia sciarpa e le era piaciuto molto il profumo di cui erano ancora intrise le maglie, e così ora voleva regalarglielo.

A questo punto, ricapitolando, eravamo io, mio padre, Federico e anche il fratello della fidanzata di Federico, che si chiama Mariagrazia, ad avere lo stesso odore, già che lei aveva deciso di acquistare due confezioni di Eau de Bruyere: una per il fratello e una per il fidanzato. Poi sono successe delle cose e tra le cose che son successe io ho smesso di cospargermi il viso di Eau de Bruyere, forse perché una fidanzata mi aveva regalato un dopobarba di una marca differente. Nemmeno Federico si mette più Eau de Bruyere, essendo morto, a ventun anni, in un incidente automobilistico al ritorno da una discoteca. La stessa sera e la stessa discoteca dove una ragazza mi aveva fermato per dirmi che avevo dei capelli bellissimi, e pure un buon profumo. Anche io avrei dovuto rientrare con la Ford Fiesta rossa dei genitori di Federico - a malapena si riconosceva la forma dai rottami, il giorno dopo - ma la ragazza che mi annusava è andata via presto e allora mi sono fatto dare un passaggio da un certo Piero Nela. Un tipo esuberante di cui tutti dicevano sempre il cognome insieme al nome, mai solo Piero o solo Nela, sempre Piero Nela, un po' come Peppo Parolo. Mio padre ora utilizza un dopobarba che trovo eccessivamente speziato - mi fa starnutire - e quanto al fratello di Mariagrazia: chi lo vede più...

Nel frattempo Mariagrazia si è rifidanzata, quindi sposata. Adesso vive in Svizzera e ha un marito di tredici anni più giovane e una figlia di sei o sette. La figlia l'ho vista una sola volta appena nata, ma conosco il marito che è alto, forte e bello come un dio greco, in testa milioni di capelli nerissimi. Quando immancabilmente qualcuno - in genere sono altre donne - le parla del marito, Mariagrazia scuote un po' la testa come a dire ma tu guarda che cazzata che ho fatto, tredici anni, quando io ne avrò settantacinque lui avrà l'attuale età di Richard Gere... Ma intanto si vede che non farebbe cambio con nessuno di noi che abbiamo quasi vent'anni meno di Richard Gere, e però le ragazze non ci fermano più per complimentarsi dei nostri capelli, del buon odore che scivola fuori dalle nostre sciarpe. La vita, come si dice.

E nella vita va a finire che un giorno mi trovo a parlare proprio con Peter, il marito di Mariagrazia. Non so però bene cosa dirgli - a lui piacciono molto le Alfa Romeo, ma io non conosco i modelli attuali -, apparteniamo insomma a spicchi diversi di mondo, generazioni. E' lui allora a chiedermi come era essere giovani ai nostri tempi - "ai nostri tempi", ha usato proprio questa espressione. Però sento che in una conversazione fatta di niente, luoghi comuni e sorrisi di circostanza, si apre una breccia, come una finestra. E dalla finestra un odore, anzi un profumo: Eau de Bruyere! Mariagrazia deve avere regalato una bottiglietta verde anche al marito, con il tappo senape, ho controllato su Internet e non è cambiato nulla, tutto come "ai nostri tempi". Ed è col naso che riesco così a sintonizzarmi finalmente su di lui, per offrirgli la risposta che forse cercava.

Come era essere giovani ai nostri tempi?

Come a tutti tempi, come una giovane foca che si struscia morbida sul pack, come Federico - il suo trench crema da tenente Colombo - che torna a casa allegro e profumato da una discoteca di provincia e come il padre di Peppo Parolo, quando non era ancora il padre di Peppo Parolo e gridava abbasso il Duce! Magari lo scriveva anche sui muri del cimitero, insieme a viva la libertà: non per un uomo solo ma per tutti gli uomini; e questo, in fondo, non c'era nemmeno bisogno di aggiungerlo. E però, ai nostri tempi, i sacchetti di tela erano stati sostituiti con quelli in plastica con la scritta rossa dei supermarket, e alcune fotomodelle si facevano fotografare nude per protesta contro la moda delle pellicce, quando tra le due cose non ho mai capito che relazione ci fosse...

No, non funziona vero? E' che mi son fatto un po' prendere la mano, ma stava tutto dentro la mia testa. Intanto Peter era ancora lì ad aspettare la sua risposta: con gli occhi spalancati, l'espressione di un bambino che ti lascia copiare dal suo foglio, se solo glielo chiedi. Ma adesso era lui a chiedere qualcosa a me, e così dovevo pur inventarmi una storia, una storia del genere:

Ai nostri tempi ci stava un cavallo bianco, ecco cosa ho detto per davvero a Peter, un cavallo su cui qualcuno aveva scritto Furia con un pennarello nero, ed era la nostra idea di libertà: non per un bambino solo ma per tutti i bambini; e questo, in principio, non c'era nemmeno bisogno di aggiungerlo: un bambino già lo sa, che i bambini sono tutti uguali. Furia stava proprio di fronte a una profumeria che si chiamava Parolo, da cui sgusciava fuori una miscela vaporosa di essenze, combinate secondo l'estro dei giorni. Tu ci balzavi in groppa e la mamma - in mano i sacchetti gonfi del supermarket, i capelli lunghi raccolti nella crocchia dello chignon - ti aspettava avvolta da quella nuvola odorosa, come un'aureola olfattiva. E se gli odori avessero una bandiera quella era una bandiera tutta d'oro, non ce ne sono mica altre. Oro purissimo!

Poi gli ho chiesto se conosceva la marca del suo dopobarba ma lui mi ha detto che no, non la sapeva: "Me l'ha regalato mia moglie, ma se ti interessa mi informo..." Quindi ha scrollato le spalle con un sorriso largo e tranquillo, come uno che riprenda a vedere un vecchio film in tivù dopo l'interruzione degli spot.

domenica 26 giugno 2011

Goodbye my friends, mes amours, addio e grazie, ma soprattutto addio


Non dico che funzioni così per tutti. Anzi, forse non funziona così neppure per me: è solo un sogno, un’illusione, una reverie infantile. Che nasce dallo sforzo sotterraneo di mettere ordine in ciò che “non ha governo né mai ce l’avrà”, come cantava Chico Buarque in una delle sue più belle canzoni.

In ogni caso, da un po’ di tempo, a me pare che vada a questo modo. Conosco da qualche parte una persona: è un uomo: è colto, simpatico, generoso; ma alle volte anche sbruffone e un poco somaro, non importa. Comunque questa persona mi incuriosisce e diverte, la percezione è reciproca. Ed è così che diventiamo amici.

In altre occasioni si tratta di una vecchia amicizia che si rinsalda, quel che si dice una rimpatriata. Da principio avverto dunque la specialità di questo rapporto; non che attribuisca dei meriti superiori al mio nuovo amico, o naturalmente inferiori. Da un punto di vista spaziale, e per approssimazione, potrei dire che queste qualità siano interiori, e cioè che vadano a collocarsi nella mia coscienza. Che il mio nuovo amico riesce a intercettare e a rendere manifesta, almeno in alcuni dei suo aspetti a me attualmente sconosciuti.

Non si tratta però di formulazioni verbali o didascalici suggerimenti, che egli sia in grado di offrirmi come un pretone di campagna o uno psicanalista forbito. Piuttosto della sua viva presenza, la geometria familiare dei gesti, gli occasionali discorsi in cui mi ritrovo ad annuire soddisfatto, senza per altro essere necessariamente d'accordo. Mi sento semplicemente a mio agio, e la qualità che definisce questo genere d'amicizia è proprio l'iniziale mancanza di sforzo, di attrito climatico con il mondo: non sento il desiderio né di indossare né di togliere il maglione, non so se mi spiego...

Quando però non sono lesto nel cogliere tale eco conviviale, che proviene dagli scantinati dell'anima ed è riconoscibile da un eccesso di "facilità" iniziale, di sgrammaticata sintonia, è come, non esagero, se il mio amico si trasformasse in un’oscena caricatura di se stesso, e cioè ancora una volta in me. Non tutto in un colpo, poco a poco, giorno per giorno. Fino a diventare una maschera mostruosa che mi incalza ruggendo per essere riconosciuta: guarda, guardami!

A parlarmi, a richiamare l’attenzione sui demoni che hanno assunto le forme disinvolte del mio amico, è quindi sempre la sua voce, che ora inizio ad ascoltare con diffidenza e sospetto. Ed è in genere a quel punto – sono sempre un po’ lento nel cogliere le cose, ho bisogno di farmi spiegare le barzellette – che comincio a provare anche qualche dubbio sulla bontà della nostra amicizia, ricapitolandone mentalmente le origini. Ora ho voglia sia di togliere sia di indossare il maglione, una diffusa insofferenza che mi avvolge.

Eppure tutto è come prima, non è cambiato nulla. Nemmeno il suo comportamento si è modificato e a maggior ragione il mio: siamo gli stessi amiconi di sempre, pacche sulle spalle. Ed è forse per questo motivo – chiamiamole “difese” – che sento nuovamente le invocazioni tanto più forti nella mia testa: guardami, drin, ascoltami, drin, drin drin sono qui, vienimi a salvare! Un suono che somiglia alla scampanellata lunga del postino quando c’è da ritirare una raccomandata, come se anche la nostra amicizia fosse una comunicazione urgente che non sia ancora stata recapitata, ma non più differibile

Dopo essere sceso in ciabatte a ritirare il messaggio in codice, che in tutti i modi il mio amico ha cercato di cacciarmi in mano in questi mesi, riesco finalmente a vedermi attraverso il suo specchio deformante, perfino a comprendermi e a perdonarmi. Ero io l'aborto che reclamava per essere gettato in un cestino, non lui. Ed è solo a quel punto - missione compiuta - che il mio amico può finalmente uscire di scena, senza troppe parole. Ma è un distacco che avverto sempre con un fondo di malinconia, di tristezza che sento crescere come i violini nel finale del film.

A volte ho perfino il dubbio di essere stato io a contagiarlo, a infettarlo con i veleni che gli ho riversato addosso, l’amicizia come una discarica abusiva. L'osservo quindi scomparire dall’inquadratura della mia vita in groppa a un ronzino che si sente Furia cavallo del West, in un tramonto infuocato dal technicolor, cactus e polvere sullo sfondo. E sarà per sempre così: rovinato, folle, malato, un ossesso che delira alla luna. Sarà per sempre soverchiato dallo zaino dei miei demoni, che gli ho consegnato prima di lasciarci. Goodbye. This is the end. And we’re definitely lost, my good friend…

Ecco, lo stesso mi succede anche con le donne, ma in un senso speculare e inverso. Diciamo che la lingua del film è ora il francese, con il protagonista che sussurra il suo straziato “adieu, mon amour”. Eh già, perché questa volta non si parla di amicizia ma di amore proprio, o insomma qualcosa che ci somigli, la differenza non mi è sempre chiara. Nei casi più felici i due sentimenti tendono infatti a sovrapporsi. Ma non come gemelli, refrain di una medesima canzone, e piuttosto come tifosi che si scambiano i gagliardetti delle reciproche squadre.

Anche in amore c’è comunque un momento in cui ti accorgi che devi proseguire da solo, il ponte indiano non è in grado di reggere due persone, figurarsi i cavalli e il peso delle infinite recriminazioni. E però, mentre l’amico mi ha svelato una parte di me “difettosa”, un draghetto che stava acquattato nelle mie viscere e per farlo ha dovuto adottare quel mostriciattolo fino al punto di coincidervi (e più è tardivo il riconoscimento, più intense sono le fiamme che escono dalla gola dell’amico), la donna amata è come se fosse in grado di rilasciare parti di me che ugualmente non conoscevo, ma che mi accrescono.

L’unico termine che mi viene in mente per descrivere ciò che intendo è di derivazione teologica, ed è benedizione. Sì, è come se in qualche modo l’amore riuscisse a benedirmi.

Se quando finisce un’amicizia il mio amico è maledetto per sempre – naturalmente non è vero, ma io la vivo a questo modo – quando si conclude una storia d'amore la donna amata torna semplicemente a essere una donna come tutte le altre, dopo avermi impresso la sua benedizione. Quella di conoscere meglio me stesso, si è già detto: ma non in una parte attuale sebbene segreta, come avviene nell'amicizia; viceversa possibile, eventuale. Nell'amore si realizza dunque una potenzialità che faceva tana nel mio carattere, e anche quando termina mi sento una persona diversa e migliore. Mi ha insomma lasciato non con qualcosa in meno – una pustola infetta, la vanvera di un dio gaglioffo e bugiardo – ma con qualcosa in più. L’amore è un optional.

La stessa dinamica ho ritrovato in un antico modello concepito per descrivere la personalità umana. Si chiama enneagramma, e da un punto di vista grafico viene raffigurato attraverso un simbolo geometrico costituito da un poligono a nove punte, iscritto in un cerchio come la stella di Tex Willer. Ciascun vertice del poligono è collocato sulla circonferenza del cerchio a una distanza equivalente – la circonferenza, in altre parole, viene in tal modo a essere suddivisa in nove parti uguali.

Da ogni punto di tangenza tra stella e cerchio, che colloca figurativamente anche un tipo psicologico definito, si diramano quindi due rette interne che collegano ciascun punto ad altri due, sempre corrispondenti a tipologie caratteriali, o se preferiamo “archetipi” della coscienza. Secondo questa teoria, diffusa in occidente nei primi decenni del novecento da Georges Ivanovic Gurdjieff, ma successivamente ripresa anche da un'importante corrente della psicologia sudamericana, i due punti di collegamento rappresentano l’indirizzo e l’equipaggiamento di ogni percorso di trasformazione, non solo psicologica.

Il processo messo in luce da tale schema si pretende infatti universale, una specie di modello matematico del cambiamento. Cambiamento che può avvenire in modo volontario, e cioè non subito, forzoso, solo a patto di essere consapevoli di dove siamo (la nostra tipologia attuale), del punto da cui proveniamo (l’equipaggiamento, inteso come ciò di cui dobbiamo liberarci per evolvere, ma che ci è utile in funzione conoscitiva) e infine del punto d’arrivo (l’indirizzo, costituito dagli aspetti che ancora dobbiamo integrare, raggiungere).

Ma perché ho chiamato in causa questo millenario schema di descrizione della personalità, quando stavo parlando dei mie rapporti di amore e di amicizia, non sempre fortunati?

Beh, perché da qualche anno a questa parte mi sembra che ogni nuova fiammata nelle amicizie – non tutte le mie amicizie sono così, ovviamente, ne esistono alcune che si sono stabilizzate, se così posso dire – mi segnala un aspetto di me che è giunto il momento di superare, di lasciarmi alle spalle. Mantenendo però la sua lezione come “equipaggiamento”: in fondo io vengo da lì, era quella la mia casa. Mentre ogni amore mi regala un frammento del mio nuovo io, dispiega la rotta.

Per tali ipotetiche ragioni mi accorgo che ad entrambi, amici di un giorno e amori a scadenza, sono in fondo ugualmente debitore. Sempre che io riesca a comprendere il messaggio nascosto nella bottiglia, e a tracciarlo sulla mappa sotto forma di un puntino. Da cui però subito muovere il culo nell’infinito viaggio che unisce i segni, gli errori, gli inciampi. Proprio come in quel vecchio gioco sulla settimana enigmistica, in cui dopo aver collegato ogni punto con una matita – ma non prima della fine – si viene gratificati dall’emergere di un disegno.

E chissà se, concludeva Karen Blixen in un suo racconto, al termine della mia vita anche io riuscirò a cogliere la figura di un airone, che decolla dall’unione di tutte le sfinite tracce che ho lasciato al suolo…?

mercoledì 22 giugno 2011

La Nuova Era, apologia della Santa Messa


Dopo un paio d'anni in cui mi sono interessato di spiritualità contemporanea, mi sembra di essere finalmente approdato a qualcosa che somigli a una conclusione. Che così può essere riassunta: l'unico modo serio per intraprendere un percorso spirituale altrettanto serio nell'Italia post-cattolica dei prima anni del terzo millennio, è andare a Messa la domenica. Punto. Stop. Sta già tutto lì.

E non perché quel tutto sia anche vero, o superiore al qualcosa delle esperienze spirituali derivate da altri contesti culturali, specie orientali. Ma perché salvo forse alcuni rari impianti nostrani di bulbi religiosi esotici, che si richiamano perlopiù al Sufismo o al Buddhismo Zen o in ogni caso a tradizioni strutturate e storicamente documentabili - è dalla mescolanza che verifico ogni volta il peggio -, personalmente ho trovato queste autostrade della salvezza ingorgate da un numero spropositato di cialtroni, ingenui, illusi, approssimati, volgari, depressi, cacacazzi, rotti in culo... Persone spesso in malafede, anche.

Se non altro il Cattolicesimo romano presenta allora una formazione gerarchica - discutibile fin che si vuole… - che assicura ciò che ho chiamato serietà. Termine che si riferisce all'arte di far seguire conseguenze a premesse secondo un principio discrezionale, questo è fuori dubbio, e cioè di non necessaria concatenazione logica o scientifico-empirica, e però di impegno volontario sorvegliato, di lealtà morale. Serio è insomma chi fa quel che dice di voler fare, e che ha nel suo sì sì e nel suo no no.

Quanto poi alla verità, la mia idea è che tutte le narrazioni spirituali non possano per definizione essere vere, parlando di qualcosa che non solo non è vero, concreto, dimostrabile e figuriamoci la vita eterna, ma semplicemente "non è", almeno nei termini abituali di un discorso.

Se anche tale sostanza narrativa fosse, se esistesse un'effettiva corrispondenza tra assunti verbali e referenti di realtà, un contenuto, diciamo così, non sarebbe infatti conoscibile. E se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile, come già aveva intuito Gorgia da Lentini quasi duemilacinquecento anni fa.

Dobbiamo dunque ricavare che l'intero castello della spiritualità moderna sia stato edificato con la sabbia della menzogna?

No, assolutamente. Perché la constatazione che qualcosa non è vero non significa automaticamente che sia falso. La nozione di verità religiosa - che è solo una tra le funzioni antropologiche del fatto religioso - andrebbe allora ritradotta con un termine contiguo ma a ben vedere anche profondamente distinto, quello di autentico. Una religione può essere o non essere autentica: mai vera!

Con autenticità richiamiamo infatti l'origine - non contraffatta, sorgiva - ma anche l'effetto di qualcosa, che si accordi all'origine senza mediazioni svianti. Nel caso specifico faremo corrispondere l'autenticità con un impulso alla trasformazione della coscienza; o alla sua individuazione, secondo un diffuso alfabeto junghiano. Ciò che viene a individuarsi nella pratica religiosa è dunque un punto irriducibile che potremmo chiamare sacro: il punto, il nocciolo, dove io e non-io tendono a regredire alla loro origine confusa, dando luogo a un nuovo io e a una nuova totalità, non più distinti eppure definiti, incarnati. Ed è questo il senso profondo del sacramento.

L'autentico oggetto del discorso religioso, perlopiù metaforico, simbolico, è quindi il sacro. Che non deve essere validato secondo parametri restrittivi di verità ed errore, anche se sono le stesse autorità religiose a incorrere di frequente in tale confusione dei piani, scivolando in dubbi proclami ontologici o di etica sessuale. Potremmo dire che la religione è una procedura, ossia una sintassi senza semantica. E alcuni stili narrativi e liturgici sono appunto più seri, più collaudati, più meditati e simbolicamente espressivi di altri. Da qui la loro efficienza.

Quando la Santa Messa domenicale, a mio avviso, è il più serio ed efficiente dramma mai messo in scena.

martedì 21 giugno 2011

Alfredo


Alfredo Rampi ha trentasei anni, è del segno dell’ariete, ascendente pesci. Cinque settimane fa ha sottoscritto un mutuo ventennale con Monte dei Paschi di Siena, con cui ha acquistato una villetta multifamiliare nella periferia di Frascati; a Villa Vecchia, per la precisione. Negli ultimi anni gli amici ne avevano un po’ perso le tracce: chi dice che stesse lavorando come barman in una discoteca di Colonia, chi come ragioniere per una ditta che opera nel nord Africa – ma non risulta che si sia mai diplomato presso l’Istituto Kennedy di Frascati, e l’ipotesi sembra alquanto dubbia – e altri ancora che fosse imbarcato sulle crociere Lauro, con il ruolo di tecnico addetto alle attrezzature informatiche. La ragione del suo rientro è in ogni caso inequivocabile: il 25 giugno Alfredo Rampi, dalla madre Franca ancora chiamato affettuosamente Alfredino, si sposerà presso la Basilica di San Pietro Apostolo. Quindi si trasferirà con la moglie tedesca (allora forse qualcosa di vero c'era) e un figlio del precedente matrimonio di lei nella nuova abitazione, scelta un po’ più grande del necessario perché non si sa mai, arrivassero altri figli…

Ecco, questa è quella che viene abitualmente chiamata un'ucronia, e cioè uno sviluppo alternativo a quello reale dei fatti. Per la realtà e perfino per la Storia con la S maiuscola Alfredo Rampi è infatti morto il 13 giugno del 1981, ingoiato da un pozzo artesiano in località Vermicino, una frazione di Frascati dove fanno un vinello leggero e pallido che va bevuto molto freddo, per consolare la tristezza. Televisioni, radio e giornali si sono accampati attorno al luogo dell’incidente per l’intero periodo in cui si è cercato di sottrarlo a una morte atroce, in un’agonia che è durata tre infiniti giorni. Il termine “evento”, abusato nei decenni successivi, in questa circostanza ha così acquistato una sua eloquente consistenza. E ciò grazie all'ostensione pubblica degli ultimi momenti di vita del bambino, la sua fine in diretta nazionale, tanto più evidente e scandalosa per la paradossale sottrazione dell'oggetto, solo una vocina che ogni tanto emette qualche flebile lamento da un imbuto di terra e fango. Mentre sessanta milioni di italiani sperimentano l'efficace formuletta di un sociologo canadese: “villaggio globale”, da lì in poi ci saremmo abituati a chiamarlo a questo modo.

Di quel villaggio ne facevo dunque parte anche io, che per destino biografico mi trovavo gettato a Sondrio, estremo nord del Paese: in una ventina di minuti di automobile si raggiunge la Svizzera, riconoscibile per gli svizzeri e per i distributori di benzina. Il pieno di super costava qualche biglietto da mille in meno, una bella passeggiata da fare con il cervello in vacanza e l’autoradio al massimo. Un tragitto che avrei percorso molte volte negli anni successivi ma non ancora quel 13 giugno del 1981, se non per accompagnare gli amici più grandi, più fortunati, che avevano già il privilegio della patente B. Io allora avevo quindici anni, un mese e venticinque giorni. Otto anni e trecentocinquantasette giorni più di Alfredo Rampi, che implorava un po’ di acqua e la mamma dal fondo di un pozzo vicino a Frascati.

In quel periodo frequentavamo un bar di nome Sole e il barista, Gigi, ogni volta che entrava un nostro amico che aveva l'abitudine di vestirsi tutto di giallo, borbottava ad alta voce: “Fruscett”, che credo si capisca cosa significhi. Quindi faceva finta di niente e continuava sciacquare i bicchieri, mentre ridacchiava sotto i baffi insieme a tutti i noi. I baffi di Gigi non erano baffi figurati ma folti e biondicci, che gli conferivano un’aria adulta anche se non esattamente matura, e ciò nonostante i vent'anni appena scavallati come si salta un ostacolo troppo basso. Ogni volta che Gigi borbottava al vento i suoi “fruscett”, il nostro amico Simone, sempre più spazientito dentro un completo giallo canarino, iniziava e enumerare tutte le conquiste femminili. Aggiungendo, ma a bassa voce: “Frocetto ci sarà lui”.

Simone aveva un cugino di nome Fabio che era il suo esatto contrario. Tanto Simone era ossessivamente attento all’abbigliamento e a ciò che amava chiamare “il proprio look” – quell’anno erano da considerarsi un must i jeans Valentino, Armani e Stone Island, mi spiegava Simone con tono austero – quanto il cugino ostentava indifferenza a ogni aspetto del suo apparire, che considerava insulso e vezzoso. Di tanto in tanto Fabio si presentava al bar con una frase di Nietzsche ricopiata sul risvolto di un pacchetto di Lucky Strike, l'eterna felpa grigia pezzata di sudore. Io che ero iscritto a ragioneria Friedrich Wilhelm Nietzsche non sapevo nemmeno chi fosse, ma era un nome che suonava bene e ogni tanto lo ripetevo, quasi fosse un ritornello musicale da canticchiare di fronte a qualche ragazza appena conosciuta.

Il 13 giugno 1981, due e mezzo di pomeriggio o giù di lì, io e Simone ci troviamo al bar Sole e stiamo bevendo una Stella Artois alla spina. Non una birra a testa, intendo, ma una birra solamente. Che ciascuno sorseggia mentre l’altro è impegnato nel videogioco: un pinguino si muove impacciato tra grossi cubi di ghiaccio, che deve impilare a comporre una sorta di tris. Solo tre dei numerosi cubi tra cui si affanna il pinguino, per esser più precisi, possono essere impilati, gli altri vanno spostati come in un domino o in altri casi ancora frantumati, quando è visibile una lieve incrinatura. Ogni volta che si riesce a realizzare il tris - senza che il pinguino venga stritolato a sua volta dai cubi di ghiaccio -, si passa al livello successivo e c’è il cambio di consegne tra i giocatori, insieme alla caraffa di Stella Artois.

Io indosso un paio di All Stars di tela azzurra, quelle che utilizzo anche negli allenamenti di basket - per la partita domenicale conservo invece delle Adidas modello Abdul Jabbar -, un paio di jeans Stone Island e una maglietta sempre della Stone Island, con un’enorme rosa dei venti stampata sul petto. Simone è al solito vestito interamente in giallo e nonostante il caldo indossa anche un gilè Benetton di lana con lo scollo a V. Perfino le stringhe delle Superga di tela, gialle, sono gialle, ma fortunatamente quel giorno Gigi è stato sostituito dietro al banco dalla sorella, che non usa commentare. Anzi, non parla proprio la sorella di Gigi. L'unica cosa che ricordo di lei è che aveva un fidanzato canoista, e ancora adesso quando vedo una canoa non penso alla sorella di Gigi - troppo facile - ma a Gigi stesso, che nel frattempo ha fatto una tranquilla morte da vecchio: si è addormentato e non si è svegliato più. Aveva trent'anni e già finito tutti gli ostacoli da saltare.

Quando Fabio entra al Sole io e Simone abbiamo già raggiunto un livello discretamente avanzato, il pinguino ora sta rischiando di brutto. Qualcuno – uno tra gli amici che stanno stravaccati ai tavoloni in legno di fronte alla vetrata, con altre Stella Artois schiumanti – butta lì da dietro il parapetto: “Fabio, sai se ci sono novità su quel bambino caduto nel pozzo, hai visto mica in tivù?” “No, non so niente” risponde Fabio con un’alzata di spalle, mentre con una mano si dà una sistematina al cavallo dei jeans Armani, da lui indossati senza il fastidio borghese degli slip. Glieli ha regalati una sua fidanzata più vecchia ma anche ricca, che il sabato pomeriggio Fabio accompagna in Svizzera a far benzina con un Duetto scappottato; lui ha accettato i jeans solo a patto di potergli strappare subito l’aquilotto. “Ho visto che dicevano qualcosa al telegiornale mentre stavo cercando un libro in soggiorno” continua Fabio dopo una breve pausa, "ma io poi sono andato di là a leggere. Mio fratello dice che dovrebbero buttargli giù una bella colata di cemento.”

Quello di acquistare abiti firmati e poi amputarli del marchio era in effetti una pratica piuttosto diffusa. Anche io, con le mie felpe Stone Island, avevo l’abitudine di sfilare la pecetta in stoffa dai due bottoncini cuciti sulla manica. Però non la gettavo via e riponevo accuratamente il tutto in una scatola vuota dell’Ovomaltina, che tenevo in un armadio vicino al flauto rosso con cui mi esercitavo alle scuole elementari, nel doposcuola. Ma come mai in questo momento tutti e dunque anche io, anche Simone, anche il fidanzato canoista della sorella di Gigi - ma lei no, muta, impassibile come sempre - e finalmente anche Fabio, che quando ride ha una faccia così gentile e graziosa e delicata che ti dimentichi della felpa grigia che non si cambia da un mese, come mai tutti ma proprio tutti stanno ridendo?

Ah, già, quello che ha appena detto Fabio, anzi suo fratello: una bella colata di cemento, giù, nel camino del pozzo artesiano, giù per trenta metri fino a raggiungere la testa di un bambino di sei anni incastrato sotto terra, giù in un cavo di venticinque centimetri di diametro che non gli permette di muovere le mani, di ripulirsi la bocca dal fango che… (No, basta, anche la descrizione narrativa deve avere un suo pudore!)

Ogni volta che ripenso a questa battuta sciagurata – e ci ho ripensato spesso nei trent’anni che sono gocciolati come un rubinetto rotto – non mi fa male la frase in sé, ma quelle nostre risate così meccaniche e automatiche, da pronti-via-ridete in una di una sit-comedy americana, e che sono poi cresciute una sull'altra alla maniera di una valanga di panna montata. I denti si dispongono in un certo modo, la lingua in un altro e da quella conformazione morfo-posturale il soffio, il suono che esce fuori insieme all’aria dei polmoni: suono e soffio che normalmente vengono accompagnati alla vitalità gioiosa del corpo o a un innocuo e grato stupore per qualcosa, per qualcuno. Alfredino Rampi, ad esempio. Ridere di Alfredino Rampi, sì, ridere fin che ti fa male la pancia, la panna montata di cui hai finito col fare indigestione.

Ma se non era gioia o sorpresa, cos’era dunque quella risata fragorosa e compulsiva, quell'osceno concerto per imbecillità e candore?

Ripensandoci ora mi sembra di poter intuire che si trattasse di un tentativo e di una resistenza. Il tentativo di essere come il fratello di Fabio, più grande ed esperto e disinvoltamente sgamato di noi – e chissà quante volte il fratello di Fabio sarà già andato in Svizzera a far benzina… -, ma anche la resistenza a diventare come i nostri genitori, come gli insegnanti, come la stanca processione che si accoda all’esibizione di un cordoglio che ci pareva artefatto, pigramente di maniera. Ridere era insomma il nostro modo per non essere né una cosa né l’altra: bambini impressionabili, che si spaventano e fuggono di fronte al dolore del mondo, ma nemmeno adulti fintamente compassionevoli, ipocriti. Essere altro da tutto questo, essere ciò che siamo.

Quando non c'è un altro, quando non c'è un tu a definirti per contrasto - o se si profila se ne cancella simbolicamente lo spettro con una colata di cemento - è però difficile avvicinarsi a quello sdrucciolevole concetto che è l'identità. Rimane dunque il noi, un pronome di prima persona plurale avvolto dal venticello estivo di una risata scomposta e gaglioffa. Noi che significava forse semplicemente non essere ancora io... E cioè oscillare dentro una specie di limbo luminoso tra cielo e terra: eccola la gioventù, eccoli i nostri anni ottanta! Come uno scrigno magico dove conservare tutte le pecette morbide della Stone Island.

Il limbo luminoso della gioventù, lo scrigno magico e segreto... Quasi tutti credo che abbiano sperimentato una simile sensazione. Ma cosa succede se ti addormenti su quei cuscini glassati, le pecette scure come la coperta di Linus? E così adesso mi viene il dubbio che il sogno adolescenziale, per la nostra generazione, possa essersi trasformato nell'incubo di un pozzo artesiano... Le pareti che si induriscono, si calcificano, vorresti muovere un braccio ma ti accorgi che non puoi più: sei bloccato, sei incastrato in un patetico abito giallo canarino, stritolato come un pinguino tra i ghiaccioli. E così resti lì per anni, cerchi di assumere una posizione comoda - magari ogni tanto qualche rimpatriata con i vecchi amici, vai in palestra, in fondo ti conservi bene, una puntata in Svizzera a far benzina - mentre dall'alto dell'imboccatura qualcuno guarda giù, si pulisce la schiuma dai baffi biondicci, e ti sussurra piano piano: "Fruscett."

Mezzora fa ho sospeso la scrittura di questo testo che mi procurava disagio. Mi sono alzato, ho bevuto un bicchiere di succo di pompelmo e poi ho raggiunto l’armadio dove l'avevo lasciata. E la scatola di Ovomaltina infatti stava ancora lì, al fianco del flauto rosso con cui avevo imparato a fischiettare l'Allemanda. Ho aperto il coperchio, faceva un po' di resistenza, e le ho trovate distese come le avevo deposte quasi tre decenni fa: le mie pecette... Rettangolini neri e vellutai – ma la parte posteriore è in tessuto impermeabile e sintetico - con il lato maggiore di una decina di centimetri scarsi. All’interno è raffigurata la rosa dei venti per mezzo di una cucitura più spessa, il filo è di un diverso colore: giallo all’esterno e verde al centro, dove compare la scritta Stone Island replicata nei due fronti. E’ un marchio particolarmente riuscito, bisogna riconoscere. Potremmo perfino dire bello.

Ho richiuso il tutto e mi sono avviato a piedi verso il bar Sole, con il cane sorpreso che non facessimo il consueto giro notturno verso Piazza Garibaldi e poi il giochino della scala mobile in Garberia: io che salgo per il nastro meccanico e la Peppa fa il giro dalle scale, ricongiungendoci in cima sempre con grande e reciproca festa, come emigranti che non si vedono da anni. Quando abbiamo raggiunto il ponte sul Mallero la Peppa ha proseguito verso i giardinetti, ma io mi sono fermato proprio al centro, ho aperto la scatola arancione dell’Ovomaltina e, dopo aver controllato che non mi vedesse nessuno, ho rovesciato il contenuto. Era troppo scuro perché potessi scorgere le pecette dileguare tra i gorghi e le insenature del torrente. Quindi ho recitato una preghiera per Alfredino Rampi, l’eterno riposo, anche se non mi ricordavo bene tutte le parole. La Peppa mi aspetta con in bocca un mazzo di chiavi appena ritrovato tra i cespugli.


(Ps - Se anche gli interventi scritti avessero una colonna sonora, non c'è dubbio - e vi invito a farlo - che la colonna sonora di questo goffo tentativo di fare i conti con il mio passato e con il nostro presente, sarebbe questa qui.)

sabato 18 giugno 2011

Scommesse, o sul perché il sottoscritto preferisce le lettere ai lettini


Dopo la lettera aperta inviata all’attrice Emanuela Ponzano e quasi a compimento di un ideale dittico sui “panni sporchi lavati in piazza", faccio seguire alcune brevi considerazioni che muovono da una mail ricevuta nei giorni scorsi, e non ancora del tutto digerita. A inviarmela è stata una giovane psicanalista lacaniana che non conosco di persona, sono due righe appena. Nelle quali, parlando della mia presenza su internet, ha usato le seguenti parole:

“Ho dato un'occhiata veloce perchè sto lavorando, caspita, ma sei uno scrittore! Complimenti, scommetto che sei anche filosofo...”

Ora ci tengo a dire subito che non ho, come anticipato, alcun rapporto con la persona che scrive. Né dopo aver letto la curiosità o lo stimolo di approfondire la conoscenza. Un minimo di onestà intellettuale mi impone però di considerare come qualsiasi frase, stralciata dal suo contesto di origine, rischi di risultare incomprensibile o sconnessa, quando non addirittura grottesca. Vorrei in ogni caso prescindere completamente dall’identità dell’autrice (di cui ovviamente terrò segreto il nome) e dalle ragioni per cui mi ha scritto, concentrandomi unicamente sulla sua professione e sul contenuto del breve messaggio. Per ricercare quindi, solo tra questi aspetti che proverò a circoscrivere, eventuali connessioni significative. E ciò a rischio di quel che potremmo chiamare una “forzatura ermeneutica”, che è per l’appunto l’esperimento che qui intendo svolgere: forzare la psicanalisi a rilasciare qualcuno tra i suoi segreti…

Chi scrive è una psicanalista, dicevamo. E in particolare è una psicanalista lacaniana. La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo queste brevi frasi dal contenuto distratto, quasi scanzonato e ilare, è dunque stata una sentenza di Lacan, abitualmente molto più austero e corrucciato. “La femme n’existe pas”, ripeteva sornione il celebre psicanalista francese, ravvivandosi i folti capelli bianchi con una mano. “La femmina non esiste”.

E così, per estensione, mi è venuto da lambiccare: ma allora non sarà che anche la psicanalisi, in fondo, non esiste…

Dubbio che mi viene dalla constatazione che in psicanalisi, come si ricava molto bene dalle parole della mail che ho riportato, non si legge un testo, non ci si concentra su una traccia verbale a tutti visibile e il cui codice interpretativo sia uniforme, come potrebbero essere le Pagine gialle, ma in qualche modo si ipotizza l’esistenza di quel testo. L’inconscio, in altre parole, è da intendersi come una sorta di "scommessa” narrativa nella forma testuale del sintomo, allo stesso modo dell’anima per i cattolici o la reincarnazione per gli induisti (vedi alla voce "forse", sulle Pagine gialle).

Una considerazione che potrebbe sembrare di prima battuta sarcastica, liquidatoria, ma che a ben vedere non è affatto riduttiva. Difatti non disporre di un oggetto tangibile e manifesto non significa che stiamo parlando di nulla, ma comunque di qualcosa che viene postulato come condizione anteriore del discorso, che va precisandosi proprio a partire da tale assunzione dogmatica. Wittgenstein avrebbe chiamato questo modo di procedere un “gioco linguistico”, ossia un modo di argomentare certamente alternativo all’empirismo scientifico, i cui processi di validazione degli assunti sono più trasparenti e accessibili, ma non del tutto privo di un suo potere di significazione.

Un gioco linguistico, dunque. Simile per disposizione intellettuale e attendibilità dei risultati alla disciplina teologica, che personalmente trovo una tra le forme discorsive di maggiore interesse. Teologia e psicanalisi si equivalgono infatti nell'atteggiamento di chi sussuma interiormente il proprio oggetto ("in interiore homine stat veritas"), non potendolo desumere da condizioni esterne e verificabili. La verità, come dire, è sempre implicata, e mai compiutamente assodata.

Allo stesso modo della teologia, io considero quindi la psicanalisi un sapere potenzialmente emancipativo. Oltre che una pratica, al suo meglio, in grado di accrescere in consapevolezza e libertà il soggetto all’interno di una modernità confusiva; o più propriamente e in termini filosofici: di “fondarlo”. Ed è in questo secondo aspetto, pragmatico e morale, che la psicanalisi si distingue infine dalla teologia, molto più gerarchica e inclusiva.

Dubitabile è invece la sua efficacia clinica, come ormai riconosciuto anche da alcuni psicanalisti illuminati (Cesere Viviani ad esempio, che in questo breve pamphlet ha scritto parole di grande acume e saggezza). In ogni caso l’argomento esorbita non solo dai miei intenti, ma anche dalle mie modeste competenze in materia.

Torniamo dunque agli elementi di cui disponiamo: la mail della giovane psicanalista lacaniana, recapitata nella mia casella di posta elettronica. A partire già dalle prime battute è subito chiaro che sta parlando di qualcosa che non conosce né frequenta – ha dato solo “un’occhiata veloce”, dichiara – ma verso cui si sente comunque in diritto, o forse in dovere, per galateo, di commentare con un sussulto esclamativo: “caspita!”

Andiamo allora a vedere cosa dice il Dizionario Sabatini Colletti dell’esclamazione caspita: “Esprime stupore, ammirazione, contrarietà”.

Nel caso il termine riguarda con ragionevole convinzione i soli campi semantici dello stupore e dell’ammirazione, non della contrarietà. E ciò in conseguenza del fatto che la giovane psicanalista accosta l’esclamazione a dei complimenti. Ma complimenti per cosa? Cerchiamo nuovamente di comprenderlo rileggendo le sue parole:

“Caspita, ma sei uno scrittore! Complimenti, scommetto che sei anche filosofo...”

I complimenti non sono qui riferiti a un fatto, che non conosce (perché "deve lavorare"), ma a un’ipotesi, anzi a una doppia ipotesi: che io sia uno scrittore ma anche un filosofo. Nel suo pensiero essere scrittori e filosofi è dunque ragione sufficiente per generare complimenti. E’ insomma una qualità, un valore in sé. Al punto che dobbiamo concludere che, per uno psicanalista, l’oggetto significativo del discorso non è tanto il discorso stesso - la sua evidenza testuale, potremmo tradurre in termini narratologici - ma ciò che siamo grado di arguire o supporre a partire da nostre precedenti convinzioni.

Ma questa è per l’appunto l’applicazione del metodo teologico di esegesi scritturale, che Freud eredita dalla tradizione ebraica a cui appartiene.

O se vogliamo guardare le cose da un altro punto di vista, ciò che la psicanalista lacaniana fa sono ancora tutta una serie di scommesse, quasi fossero delle miniaturizzazioni distratte del grande azzardo teologico di Pascal, di cui condivide il metodo:

1) prima scommessa: che io sia uno scrittore;

2) seconda scommessa: che io sia un filosofo;

3) terza scommessa: che la qualità del mio scrivere e filosofare, anche senza una lettura che giustifichi il giudizio, meriti dei complimenti;

4) quarta scommessa: che i complimenti debbano essere indirizzati non tanto al merito ma allo statuto nominale di scrittore e di filosofo, e indipendentemente dai risultati lo stesso viene giudicato virtuoso (“a prescindere”, direbbe Totò).

Per andare verso una conclusione e iniziare a sbarazzare il campo da un po’ di congiuntivi e condizionali, ricordiamo velocemente che io non sono “un filosofo” e forse nemmeno “uno scrittore”, almeno in questa fase un po' al ribasso della mia vita. Però, della scrittura, della filosofia e anche della psicanalisi, la brevissima mail che ho qui riprodotto mi ha probabilmente aiutato a comprendere qualcosa in più. E ciò che ho compreso potrebbe essere così riassunto.

Gli scrittori sono delle persone che utilizzano il linguaggio per parlare della cose, e cioè per dare forma comunicabile a un’esperienza che può essere anche contraddittoria, o meglio molteplice, innervata, ma sempre tangibile. E stiamo ancora parlando di uno stile del pensiero, non dei risultati che possono condurre anche ad esiti di sublime misticismo, come in Dostoevskij o Flannery O’Connor. Infatti anche questi autori così dediti alla tradizione cristiana, quando scrivono si discostano da essa, virando a una pratica per metodo e sensibilità molto più vicina all'orizzonte mitologico o panteistico. Un coro greco, una polifonia orizzontale: non la tensione verticale della monodia gregoriana.

Credo che sia per tale ragione strutturale che un narratore ricerca le sue provvisorie conquiste in superficie, documentandole proprio a partire dalla crosta mobile del mondo, sull'epidermide osmotica delle persone. E' un fatto di pelle, come si dice. E la pelle assorbe umori e altri umori lascia filtrare: nasce dalla relazione dei flussi, la verità letteraria, potremmo dire...

Quando gli scrittori si occupano di oggetti non verificabili come Dio oppure l’anima, lo fanno dunque a partire da una postura esteriore, dalla ustioni sulla pelle, che è tangibile e porosa. L’anima è insomma ciò che il personaggio-uomo pensa dell’anima, e Dio quello che l'idea di Dio produce nell'umanità dei rapporti. Così mentre il narratore scrive il suo testo viene a invischiarsi nelle cose, nelle persone, e da quelle e da queste modificato di continuo. L'inchiostro era una buona metafora di tutto ciò, raggrumandosi sulla pagina quale fondamento vischioso dei propri esiti astratti, l'incipit e la trama sono condizioni necessarie del finale. Le parole stanno lì, sul foglio non più intonso, e possono di continuo essere richiamate e interrogate. Verificate.

Questa verificabilità testuale non significa però che quei termini siano effettivamente veri, ma verosimili, e cioè conseguenti a uno sviluppo drammaturgico plausibile, che si accordi con l'esperienza. Chi infatti può dire che la mail della giovane psicanalista mi sia stata recapitata per davvero? Magari si tratta solamente di un espediente narrativo che io ho accampato per svolgere un ragionamento, per afferrare un'intuizione per le orecchie. Se c’è dunque una qualche verità in ciò che io sto provando a dirvi: sta qui, nelle mie parole, non dovete ricercarla né più in alto né più in basso di quel scrivo. Oltretutto, questa verità non è necessariamente reale.

Ma vediamo invece cosa fa la filosofia. La filosofia non si accontenta di una verità verosimile esperita per osmosi, come invece avviene in letteratura, ma ricerca una verità che sia anche reale; diversamente dalla scienza non pretende però una prova provata, ma una prova dimostrata. In qualche modo la verità filosofica sta dunque sia dentro sia fuori dal linguaggio, e lo sforzo filosofico sta nel mettere in connessione questi campi. Non solo le parole con le cose, intendo, come già fa la letteratura, ma anche le parole con le idee. Una cucitura che va però eseguita senza creare alcuna smagliatura! La teologia può infatti permettersi un ampio numero di smagliature poetiche, che vengono vissute come ornamenti figurali del discorso, mentre il tessuto della narrazione filosofica deve essere lustro e tirato, per poter coprire l'intera superficie del divano.

O se vogliamo cambiare metafora, richiamando nuovamente la teoria di Wittgenstein, in filosofia è come in quei giochi che ogni tanto trasmettono in televisione, a tarda notte. Giochi d'azzardo in cui è possibile conoscere solamente alcune tra le carte di cui dispone l’avversario, mentre altre vengono mantenute coperte. Quello della filosofia è ugualmente un azzardo parziale, a partire da qualcosa di certo e verificabile: il linguaggio e l’esperienza sensibile, le regole formali della logica. Mentre il fondo ontologico del reale rimane occultato, e dunque oggetto di una mezza scommessa, per così dire. Una scommessa che deve essere quantomeno coerente con le carte esposte.

E infine arriviamo alla psicanalisi, che è invece un gioco totalmente al buio. In psicanalisi tutte le carte sono coperte, si può solo scommettere, azzardare, e quindi complimentarsi per ciò che non si conosce o conoscere ciò che non si sa, presumendolo. Ed è così che i linguaggi psicanalitici risultano spesso involuti, non verificabili, spesso anche incoerenti da un punto di vista della logica e della forma. Ad esempio se la nostra giovane psicanalista dovesse dirci che stiamo vivendo una recrudescenza del complesso di Edipo e noi facessimo sì sì con la testa, come bimbi a cui viene offerta una caramella, la psicanalista potrebbe concludere compiaciuta: ”Finalmente l’hai capito anche tu, lo vedi che avevo ragione io: hai proprio un bel complesso di Edipo, caspita!”

Infatti lei lo sapeva fin da prima che tu avevi il complesso di Edipo, e che desideravi portarti a letto la mamma e dare un bel cazzottone in testa al papà. Lei lo sapeva perché l’aveva postulato con anticipo, quindi ci aveva scommesso sopra la sua fish di verità.

Ma se invece con la testa tu avessi fatto no no, mi scusi signorina, ma a me questo complesso di Edipo… insomma, a me non mi risulta. Magari vorrei anche scoparmi la cameriera al bar qua sotto, d’accordo, ma la mia mamma che è vecchia e grassa e con la basletta no, guardi che si sbaglia! Beh, la psicanalista a quel punto – dopo aver naturalmente detto ancora caspita, ma questa volta con sfumatura di disappunto – la psicanalista avrebbe nuovamente ragione, e te lo spigherebbe a questo modo. Il fatto che tu neghi il complesso di Edipo rappresenta un meccanismo di difesa inconscio, e la presenza di un meccanismo di difesa è la più chiara dimostrazione di quel che stai cercando disperatamente di negare. Ossia che desideri “giacere” (chissà se qualcuno utilizza ancora il verbo giacere, ma tant’è…) giacere con tua madre ed eliminare fisicamente tuo padre.

In tal modo sia che tu neghi oppure ammetti la sua ipotesi, la sua scommessa, è sempre quella giusta. E lo è perché si tratta di un postulato. Che nella teoria dei giochi significa semplicemente che la psicanalisi è un gioco truccato, come quello delle tre carte. Non si è infatti mai visto un gioco dove si vince sia con il rosso sia con il nero, né un analista lacaniano che, mettiamo, dopo una seduta terapeutica ti dice mi sono sbagliato, avevi ragione tu, capita di sbagliare. Quindi diventa junghiano o confuciano o vegano... (qualcos'altro da ciò che era prima della sua scommessa, intendo).

Ma la psicanalisi può anche essere un gioco sapiente, perché comunque ogni energia viene indirizzata in questa direzione: sapere, conoscere se stessi, come ingiungeva l'oracolo di Delfi. E poi anche in psicanalisi tutto si decide nella relazione, in uno scambio di "flussi". Ed è questo scambio vissuto, più che il minimo castello di carte che prova a contenerlo, barando, a costituire il possibile aspetto emancipativo. Al netto di tutti i suoi trucchetti, l'analista è in fondo semplicemente una persona: non un metodo, non un sistema.

Se guardiamo alla psicanalisi come a una persona, ci accorgiamo allora che può essere generosa e sottile anche nell'uso del linguaggio, come Cesare Viviani, psicanalista ma anche grande poeta, oppure prendere le sembianze di un uomo o una donna che usano in modo disinvolto e vogare un idioma settario, da cui capitalizzano la loro fettina di potere. Potere, certo, potere di postulare assunti e ritrarre subito la rete delle conseguenze, un po' come si fa in quelle tristi pozze artificiali dove si pescano le trote appena seminate, e poi ci si fa fotografare con il pesce orgogliosamente impugnato per la coda.

Ecco, l'anima può allora trasformarsi nel pescetto rosso che nuota nella brocca opaca di uno psicanalista che dice "caspita" e "scommetto", sempre più piccina e smunta. Ma anche nella balena di Melville, nel pesce cane che inghiottì Jonas o Pinocchio prima di vomitarli in un luogo nuovo e diverso, già che erano Jonas e Pinocchio a essere diventati nuovi e diversi a sé. Tutto sta insomma ancora una volta nella misura del gioco che abbiamo deciso di giocare, ma soprattutto in chi ci accompagna in questo viaggio.

Quanto a me, le mie finanze e la mia indole mi suggeriscono di continuare a giocare da solo, senza preoccuparmi troppo di quale sia l'etichetta di quel che faccio: filosofo, scrittore…? Boh, può essere, perché no, ma non è questo il punto. Il punto, o forse i due punti, il punto e virgola, ognuno lo chiami un po’ come creda o meglio come scelga, consiste infatti nel cercare di far corrispondere le parole con le cose, che come già visto non è nient'altro che l'antico gioco della scelta consapevole. Ma ciò senza postulati, senza trucchi e senza nascondere alcuna carta dentro al polsino. O almeno questo è il mio punto, il mio gioco.

Ed è un gioco, sì, ma un gioco dove non esistono scommesse e ogni cosa viene distesa sopra la pagina quasi oscenamente, come grasse gatte al sole.

venerdì 17 giugno 2011

Mattoni, o sulla differenza tra un architetto e uno scimpanzé


Io penso, ma poi magari mi sbaglio, io penso che la differenza tra un architetto è uno scimpanzé è che l'architetto è un signore con una giacca di velluto, le bretelle e tanti capelli sulla testa, che quando gli cascano dentro agli occhi li deve spostare con la mano. Se incontra un cumulo di mattoni con una tettoia sopra, l'architetto, poi, fa una cosa stranissima. Toglie tutti i mattoni - un mattone oggi, un mattone domani ma prima la tettoia - e con quel materiale ci costruisce una cosa nuova: più strana, complicata e alle volte anche più bella. Ecco, io penso, ma poi magari mi sbaglio anch'io, che allora un architetto è bravo se riesce a smantellare l'ovvio, per fabbricare il nuovo. Mentre uno scimpanzé, ma è solo quello che penso io, è un animale senza giacca, senza bretelle e con tanti capelli dappertutto, che ogni tanto si prende qualcosa dai capelli e se la infila in bocca. Quando poi lo scimpanzé incontra la bella e nuova e complicata costruzione dell'architetto, la smonta, la fa letteralmente a pezzi, fino a che ritorna un cumulo di mattoni con una tettoia sopra. Ma prima, lo scimpanzé, non l'architetto, prende ogni singolo mattone tra le mani e se lo rigira un po'. Quindi lo passa a un altro scimpanzé ed è come se gli dicesse: “guarda”. Non guarda questa cosa che ho fatto io, ma guarda e basta. E così quello che penso, e chi se ne importa se sbaglio, è che lo scrittore non è un architetto ma è uno scimpanzé, anche se non ha tanti capelli addosso e nemmeno sulla testa. E però, come lo scimpanzé, lo scrittore, smantella il nuovo non per ricostruirlo più bello e strano e complicato, ma per mostrare l'ovvio che sta sotto. E per dire infine a tutti gli altri: guarda...

mercoledì 15 giugno 2011

La spaccata


Non io ma un mio amico, il mio amico giura di averla vista per davvero. O forse, ora che ci penso, si trattava di un suo amico, il quale assicura che si trova ancora lì in questo momento... La descrive come né alta né bassa, né bella né brutta, vestita solo di un leggero abito di organza scura che le arriva sopra le ginocchia, lasciando intravedere gambe robuste e leggermente divaricate, alla maniera di chi si stia accingendo a un esercizio di stiramento muscolare, quello che chiamiamo spaccata. O meglio sta cercando di fare la spaccata vicino a un ruscello che scroscia limpido e festoso, è una tarda mattina di tarda primavera, tutto è tardo e lievemente fuori posto, come annebbiato. Anche il ruscello, a ben guardare, non è propriamente vicino ma sta sotto l'abito plissettato della donna, che l'amico del mio amico ha visto con i suoi occhi e dice metto la mano sul fuoco, non ci credi?, metto la mano sul fuoco. Quindi la donna continua a divaricare le gambe e a ridiscendere leggermente con il busto, come ha visto a fare alla tivù in uno di quei programmi in cui una ragazza giovane e bella e sorridente mostra i trucchi per rassodare i glutei - li ha chiamati proprio a questo modo: trucchi - ma anche i seni, rimuovere la cellulite e diventare belle come lei, che è giovane e bella e sorridente come sempre sono le ragazze della tivù, pensa la donna mentre incunea i piedi nudi tra le sponde rocciose. Per non cascare a terra, o è il caso di dire dentro l'acqua gelida del ruscello, la donna ha infatti compreso che è necessario trovare un punto fermo per l'appoggio, e le rive opposte e ravvicinate servono perfettamente allo scopo. Così saldamente impuntata riprende a spingere con gli adduttori, suda, si sforza, emette infine un piccolo gemito di soddisfazione. Il compasso femorale a mala pena raggiunge un angolo di quarantacinque gradi, d'accordo, ma il ruscello cosa sta succedendo al ruscello?! No, non è solo un'impressione: il ruscello si è allargato, se ne è accorto anche l'amico del mio amico e dice metto la mano sul fuoco, si è allargato, non ci credi si è allargato?, il ruscello intendo. E anche se solo di qualche centimetro, ora è più ampio e rigoglioso di prima che la donna iniziasse a fare la spaccata - sì, insomma, a provarci almeno. Con questa certezza ricomincia a spingere con aumentata convinzione, nel tentativo di realizzare quella perfetta e simmetrica figura che ha visto compiersi nella ragazza della tivù, e con tanta sorridente facilità: sembrava davvero "un trucco". Spingi spingi e il ruscello aumenta nuovamente di larghezza, diventa un torrente, poi un fiumiciattolo, un canale, un naviglio ma la spaccata no, quella ancora non le riesce. In compenso, oltre al greto del fiume - ha già raggiunto la misura di un fiume, ma non smette ancora di espandersi - si sono mossi per reazione anche i terreni circostanti, in un lieve tremolio che ha risvegliato una capra che dormiva sdraiata nell'erba, accanto a una pianta di ciliegie grasse e mature. La vibrazione del terreno non si è però fermata alla capra e alle ciliegie: ha raggiunto un gregge di mucche olandesi al pascolo, poi uno scoiattolo che si era spinto fino al limitare del bosco, gli alberi silenziosi al suo interno, le cui foglie hanno iniziato a fremere e a stormire insieme al cinguettio spaventato dei passeri e poi ancora le montagne, il mare, dove il terremoto si è trasformato in un'onda imponente e scura, con l'orlo bianco e sgualcito come il colletto del droghiere. Peccato che della spaccata che tanto facilmente riusciva alla ragazza della tivù, ancora neanche l'ombra. E così un giorno nel fiume dove la donna sta provando a coincidere con il suolo e le acque, navigheranno i traghetti, le chiatte con i bancali, e sarà tanto largo da non riuscire a scorgere una riva dall'altra, se non con uno di quei cannocchiali affusolati con cui si riescono a vedere i fiorellini sulle mutande delle femmine, a vederli e a contarli dalla terrazza su cui l'amico del mio amico si sorbirà una limonata fresca con la cannuccia, forse perfino l'ombrellino. Ma anche riflessi nell'acqua che scorre impercettibile come il tempo, noi potremo intuire i fiorellini stampati sugli slip della donna, anzi già li vediamo, stanno lì e con più la donna si avvicina all’acqua nel tentativo di realizzare la spaccata - quasi un ponte tra mondi che sono a ogni suo sforzo sempre più distanti, eppure uniti - quanto più chiaramente vediamo delinearsi la sagoma dei fiorellini, uscire dalla nebbia della tarda mattina di tarda primavera. E allora ci viene in mente che in fondo è un bel modo per concludere una storia: un ciuffo di fiorellini gialli, rossi, azzurri e blu su un tappeto liquido e lucente, che abbaglia lo sguardo e fa chiudere le palpebre con un sorriso... (Mentre il mondo, là fuori, continua a tremare e si levano certe onde minacciose.)

martedì 14 giugno 2011

Damon Galgut e Massimiliano Parente, o sul personaggio omo


Come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi e anche bravi? Mentre stavo leggendo l’ultimo bellissimo libro di Damon Galgut, mi sono ritrovato a farmi spesso questa domanda. A cui però, dopo essere inciampato in un breve velenosissimo articolo di Massimiliano Parente per il Giornale (è possibile leggerlo anche qui), se ne è affiancata una parallela: come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi e anche cattivi?

Ecco, a questo punto potrei cavarmela dicendo che l’omosessualità, che io sappia unico elemento, insieme alla scrittura, che accomuna Galgut a Parente, non c’entra proprio nulla. C’entrano invece le persone, il modo in cui le persone vivono i rapporti e quel particolare tipo di rapporto in cui l'interlocutore non si sia ancora precisato - eppure sempre implicato, presente - che è il gesto di fermare una storia in segni grafici combinati.

Beh, io mi sento invece di insistere: come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi, bravi ma allo stesso tempo anche cattivi, se non alle volte addirittura feroci e pessimi?

Credo infatti che la preferenza erotica e l’identità sociale che ne consegue siano determinanti rispetto alla vocazione alla scrittura, e che questo dato non sia indifferente agli esisti qualitativi della stessa, favorendo gli estremi contrapposti. Provo a spiegarmi, seguendo una logica in fondo elementare. La scrittura, specie quella prosastica, narrativa, rappresenta lo sforzo concentrato nella ricerca di una forma dentro l'accadere caotico della vita. Ma non una forma qualsiasi, una forma tanto per fare, quanto la forma esatta in cui si rifletta l’incerto equilibrio tra cose, persone, fatti e il riflesso emotivo della loro mescolanza in un punto di vista incarnato, il personaggio.

Il personaggio è dunque l’equivalente narrativo del primo uomo sulla terra, indipendentemente dal tempo storico del racconto. Ma a ben vedere anche la condizione omosessuale si configura come novità storica scandalosa, sebbene ne esistano testimonianze antichissime. E ciò probabilmente perché nessuna comunità, nessuna socialità organizzata si è ancora provvista di una struttura di ordine simbolico adatta a definire e integrare una ripulsa ai rapporti erotici cosiddetti “normali”, e al sistema riproduttivo e di accudimento che ne consegue, garantendo la continuità generazionale. Un meccanismo oliato ed efficiente che è stato chiamato famiglia, almeno in Occidente.

L’omosessuale, anche quando sia totalmente analfabeta, o illetterato, è dunque già a partire dal suo status un potenziale scrittore. La sua condizione atipica gli impone infatti di inventarsi un tracciato narrativo attraverso l’esistenza, una forma all’interno della fabula sociale in cui il suo personaggio non è ancora previsto, o quando contemplato viene semplificato in caricatura umiliante.

Questo, almeno fino a pochi decenni fa. Prima che l’omosessualità guadagnasse finalmente il riconoscimento di un'eresia tollerata, dove più dove meno, e anche da quella prospettiva iniziassero a delinearsi schemi di comportamento ricorrenti e identità preformate e ubique, per così dire. Che non sono però ancora effetto dell'emergere di funzioni sociali concluse, come il buon padre di famiglia, il guerriero coraggioso, la madre sollecita, il birbone simpatico, la Circe accalappia maschi… Non sono insomma dei modelli antropologici espressione di un ordine sotteso, ma qualcosa come generi letterari entro un canone maggiore.

La “checca isterica” o il "macho" o il "dandy leccato" formano alcune di queste varianti, prodotte dalla comunità gay e solo in seguito fissate dentro la finzione spettacolare. Tipi narrativi che riconosciamo con un solo colpo d'occhio, ma che ancora non siamo in grado di rubricate come classici, già che per profondità e struttura somigliano tutt'al più a maschere regionali minori, come Brighella o il dott. Balanzone. L'intellettuale gay cinico, supponente e prodigo di giudizi implacabili e sarcastici non è nient'altro che un'altra maschera di comodo, rassicurante nel suo innocuo abbozzo di commedia. E nel caso uno desiderasse sfogliarne l'intera collezione, è sufficiente rivolgersi a quel formidabile tableau vivant costituito dal Gay Pride.

Certo, anche questi goffi tentativi rappresentano comunque una forma di resistenza all’umiliazione sociale, che riduce l’omosessuale a macchietta lubrica e desiderante. Ma a quello stereotipo ne vengono opposti altri di segno semplicemente contrario, ben lontani dalla complessa strutturazione letteraria di un personaggio credibile e articolato, con sfumature adeguate a un'epoca poco incline ai sommari tagli di un'accetta. Si tratterebbe allora di inventarsi ogni volta il proprio romanzo, di modulare all’interno del coro una voce riconoscibile e unica.

Cos’è che allora mi fa dire che gli scrittori omosessuali, oltre che numerosi per via dell'incertezza che accompagna la loro collocazione in società, tendono a disporsi agli estremi opposti per quando riguarda la qualità dei risultati?

Me lo fa dire di Damon Galgut, ad esempio. Che a ogni suo romanzo si getta, nella pagina allo stesso modo che nelle vita, come se fosse il primo uomo venuto al mondo. E dalla vita e dalla pagina ricerca risposte credibili e un luogo dove accamparsi, giorno per giorno, notte per notte, con gli unici mezzi della propria vigile curiosità e sforzandosi di incidere un proprio inconfondibile segno nella terra, che ricava da questa assoluta esposizione agli eventi e soprattutto all'umanità degli incontri. Ricerca insomma delle ragioni che non siano semplicemente buone, ma sperimentate nel corpo e nel pensiero, in un'esperienza che sia davvero singolare come quella di un cavaliere solitario.

E però me lo fa anche dire Massimiliano Parente, che con i suoi interventi letterari scomposti e incanagliti mostra come l’omosessualità, quando indossata come una medaglia al merito, non sia solamente un orientamento sessuale tra i tanti, ma un genere erotico del discorso dove tutto è svalutato a fuffa, merda, spazzatura sentimentale prodotta dai "normali", a cui accordare la facile retorica del disprezzo. Questa postura reattiva non rappresenta però un archetipo e ancor meno un modello letterario credibile, un exemplum. Tutt'al più un cappottino logoro che abbiamo già visto sfilare infinite volte, sempre con la convinzione che fosse un capo unico ed esclusivo, il segno squisito di un'elezione, ed è invece solo l'abito rattoppato che i fratelli si scambiano a ogni rintocco del calendario.

O forse è solo che quando i tappi della birra vengono confusi per smaglianti lustrini, e viceversa, non solo la vita ma anche la letteratura è altrove.

lunedì 13 giugno 2011

"Je est un autre", o sulla micosi spirituale dell'Occidente


"Non è là fuori il raggiungimento della felicità, ma solo e unicamente dentro di noi." E' una frase, questa, che si sente ripetere con crescente frequenza. E che viene di volta in volta attribuita a diverse personalità: dal campo della ricerca spirituale ai consigli psicologici nelle rubriche sui settimanali, dalla New Age a ciò viene chiamato miglioramento personale o self-helping - una volta si sarebbe detto "aiutati che il ciel t'aiuta", con la differenza che il cielo ci è caduto sulla testa come temeva Abraracourcix, capo dell'irriducibile villaggio gallico dove ritroviamo anche Asterix e Obelix. In ogni caso tutti d'accordo su un punto: l'anima basta a se stessa, e tutto ciò che esorbita i suoi confini interni è ridondante o pleonastico. Con il suggello perfino del Dalai Lama, che ci mette la sua onorevole griffe.
Bene, e allora proviamo a prendere sul serio l'affermazione e a trarne le debite conseguenze. Il primo esito logico è forse il seguente: la passione amorosa è nociva, è viziosa. Jean-Paul Sartre aveva inquadrato molto bene la questione da un punto di vista linguistico. "Passione è patire l'altro, è la consapevolezza che la nostra possibilità di trascenderci è legata alla libertà dell'altro". Per diventare titolari delle nostre emozioni dobbiamo allora liquidare, prima di tutto, quella più estrema. La passione. Quindi anche l'amore, vissuto come rischiosa esposizione all'altro che in tal modo ci pregiudica. E' solo a quel punto che possiamo finalmente inabissarci dentro di noi - "intra-scenderci", più che trascenderci, a volere essere pignoli... - alla ricerca di una felicità che il coro dei giusti e dei sapienti ci promette di trovare lì: nel fondo, nel dentro. E che dunque si precisa come una forma di autarchia emotiva, di liquidazione di tutto ciò che ci è esterno, oltre che estraneo, a favore di quel che ci è proprio. La felicità starebbe insomma nell'abbraccio egoico, una sorta di reintegrazione simbolica nella figura dell'uroboro o dell'androgino divino.
Proseguendo nella ricerca di coerenza con l'assunto d'origine, incontriamo quindi alcune domande. Se sfuggiamo la diversità come inquinamento delle falde limpide della nostra unicità cosciente, prima domanda, cos'è che allora ci è davvero proprio, a quale soggettività finiamo col coincidere in quest'estremo tentativo di ricomposizione autistica?
Senza smarrirci nuovamente tra le pagine di agili almanacchi psicologici o di esotiche formulazioni sapienziali, io mi affiderei alla persuasiva intuizione di uno dei più grandi poeti moderni: "Je est un autre", io sono un altro, scriveva infatti Arthur Rimbaud già più di un secolo fa. O ancora più radicalmente: io non è solamente un altro, ma molti altri, una moltitudine di altri se non addirittura una "legione", per dar credito a un pensiero che viene dal cuore della tradizione religiosa occidentale, e che ricaviamo dalla risposta di Gesù all'indemoniato di Gerasa, così come riportata in Marco. Che aggiunge: "Perché noi siamo in molti".
Al fondo più fondo di noi non troviamo, o almeno non troviamo necessariamente, le verdi praterie della pace spirituale, la tranquillità di chi sta bene in qualsiasi luogo quando sta bene con se stesso, che è il luogo comune più tenace e strampalato di tutti, per il semplice fatto che siamo noi a non stare lì. Piuttosto, ci dicono Luca e Rimbaud, in quell'oscura profondità ha piantato le sue tende un altro, una legione di altri. E ciò anche per i saperi moderni e laici della psiche, da Freud in poi che ha iniziato col tripartire la mappa della coscienza in Io, Super-Io ed Es, prima di successive e recenti moltiplicazioni. Ma l'immagine più suggestiva ci viene forse dal suo epigono più rigoroso e serrato, lo psicanalista francese Jacques Lacan, che nei gironi segreti della mente vede levarsi e spadroneggiare una specie di gigante: “Grande Altro”, così lo ha chiamato. Con ciò indicando il sedimento inconscio dell'immaginario culturale, in cui si raggruma all’interno del soggetto il mosaico dell'epoca storica corrente, includendo in forma simbolica la morale ma anche le forme dominanti del piacere.
Alla luce anche di queste nozioni, si crea così lo spazio per la domanda successiva. Da dove deriva tutta questa crescente ripulsa verso il fuori, verso la minaccia emotiva che proviene dall'altro in carne e ossa, tanto da farne il motivo conduttore della nuova spiritualità, che vede in una mite pacificazione con se stessi (il dentro) il veicolo di ogni virtù?
A parte un maldigerito e spesso approssimativo innesto di tradizioni esterne e perlopiù orientali, la stessa linea interpretativa lacaniana (un nome per tutti: Slavoj Žižek) individua un'intima coerenza con il modello di produzione e consumo dell'Occidente tardo moderno, che trova il suo riflesso in una forma di godimento esteso e compulsivo, molecolare, ma al netto di ogni rischio che derivi dall'esposizione al possibile e all'incerto - e cioè, in altre parole, ancora una volta all'altro. Più che un riferimento circostanziato alla spiritualità orientale, ciò che si manifesta è allora una rimozione della traccia carsica che ha accompagnato l'intera storia della cristianità secolare, e che con qualche forzatura può essere riassunta in un celebre passo scritturale contenuto ancora una volta nei Vangeli. Questa volta si tratta però di Luca, là dove viene detto: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà..." (Lc 9,22-25):
Ciò che trovo impressionante in questo passaggio è la frase "rinnegare se stesso". Che segue a una possibilità, non a un invito e tanto meno a un imperativo spirituale: la possibilità di prendere sulle spalle la croce e seguire il Cristo. Ma continuando la nostra interrogazione, come potremmo tradurre il termine Cristo in un'accezione non religiosa e più vicina alla prospettiva che abbiamo scelto di seguire, che con un certo margine di libertà potremmo definire psicologica? Io penso che il Cristo, così come viene presentato da Luca ma filtrato dal prisma ottico di Lacan, sia ciò che ci è definitivamente e radicalmente altro, in tutti i sensi. Quindi l'accoglienza e l'amore – ma ancora prima il conflitto, lo scontro con quel che ci mette in questione nel profondo – verso la differenza originaria.
Provando dunque a riformulare il tutto, non è nel gesto di chi si ritragga dal mondo per trovare la gioia, la felicità, "le bonheur", che noi possiamo sperare di ritrovarci. E ciò per via del fatto che quella sarebbe solamente una felicità dell'altro, sotto forma di proiezioni culturali inconsce o di demoni psichici che sgomitano per la loro mezz'oretta di gloria, illuminati dai riflettori di un’attenzione compiacente. Tutt'al più avremmo realizzato la felicità della legione che ci abita, moltiplicata e reificata dal credito spirituale che gli accordiamo. Mentre, per paradosso, è proprio l'altro-altro, l'altro concreto e fuori di noi, che come suggeriva Sartre può attivare il riconoscimento identitario e la trascendenza del limite posto dal Grande Altro a suggello del godimento - "una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute", come nella lungimirante profezia di un altro filosofo che ci è caro. Già che il godimento deve essere normale, normato, e a questo pensano le convenzioni sociali, il potere, la religione, il conformismo del consumo, anche spirituale… Mentre è proprio quella soggettività che nelle Scritture viene chiamata “nostro prossimo” a interrogarci di continuo e a scombinare i piani. E non c’è risposta, non c’è nulla, senza una buona domanda.
Sempre per il tramite di un’interrogazione esterna, viene quindi arrischiata una relazione che dia fondamento psichico a una soggettività polimorfa. Ci deve infatti essere dal lato opposto del confessionale una "sventurata" o uno sventurato che risponda, come avviene con la celebre monaca del Manzoni, perché si attivi la narrazione, il romanzo di noi attraverso il mondo. Senza questa presenza vissuta, senza il volto ma anche il corpo dell’altro, c’è solo il vano brusio dei demoni del profondo, la legione che scalpita per aggiudicarsi una scheggia di realtà. L’identità, per la moderna psicologia del profondo, sarebbe insomma qualcosa di simile allo Spirito Santo nella teologia agostiniana. Già che su questo aspetto Agostino è stato molto chiaro: è la presenza dello Spirito che stabilisce quel che è del Padre e quel che è del Figlio, lo Spirito viene prima del Padre e del Figlio. O come diremmo noi, molto più impoetici e smagati, è solo attraverso una relazione che si può definire l’identità delle parti, e in ultima analisi anche una felicità che non sia solo anestetica distrazione.
Eppure tale gesto di affidamento all’altro - che non saprei come circoscrivere se non ancora una volta con il termine amore, senza con ciò nascondermi anche il portato di resistenza e attrito nell’esposizione - eppure tale gesto è il più difficile ed estremo, un gesto temuto, sviato e continuamente rimandato. Infatti se nella spiritualità New Age ciò a cui si fa ricorso è un ascensore ovattato che ci accompagni, lentamente, dolcemente, dentro gli scantinati tiepidi e affollati dell'anima, lo sporgersi dell’altro verso il nostro minimo dominio e noi verso di lui, in una dialettica sempre inconclusa e mobile di limiti che si spostano, si assestano, somiglia al sedile di pilotaggio della Jaguar XKR di James Bond, l'agente 007. Un sedile elaborato da un geniale artigiano che, al solo sfiorare di un tasto rosso posto sul cruscotto, sbalza il pilota fuori dal tettuccio, lo espelle a viva forza contro il mondo. O meglio non contro, ma dentro il mondo.
Ecco, la più grande e diabolica truffa della New Age, che sta pervertendo non solo spiritualmente ma anche psicologicamente, antropologicamente il nostro tempo, è allora a mio giudizio proprio questa: sussurrarci che la felicità sta là sotto, in compagnia dei balocchi lussureggianti che riflettono l'epoca, in combutta con la legione di demoni che ingorgano le tubature dell'anima, e non invece nel viso aperto ma anche rischioso dell'altro, nel suo corpo vivo e fremente. Ed è una vera e propria forma di micosi spirituale, che prima di invadere la coscienza si estende e urtica la superficie della pelle, rendendola insensibile al tatto.
Ma il problema, me ne rendo conto, è che non è facile pigiare un tasto per essere immediatamente proiettati fuori dal tettuccio di un'auto in corsa, specie quando stai viaggiando su un'autostrada confortevole e lustra. Non è facile perdere la vita per poterla ritrovare: dove? quando? come? Non si sa...
E così non potendo rispondere a quelle che sarebbero le domande davvero decisive del nostro breve excursus interrogativo, risulta molto più semplice accendere un paio di incensi, contemplare le volute odorose e ipnotiche dall'orlo di un cuscino damascato, una musichetta facile facile con dolci campane in sottofondo… Quindi infilarsi in cantina a far baldoria con tutti gli altri.

lunedì 6 giugno 2011

Feedback, o sul pensiero al tempo dell’istantaneità del giudizio


Mi piace ritrovare commenti a ciò che pubblico nel blog. Oltre alla rassicurante sensazione che non me la sto suonando e cantando da solo - la mia immagine che finalmente comincia a scontornarsi nella foto di classe, tra uno che fa le corna e una ragazzina con i fiocchetti azzurri annodati alle trecce lunghe e sottili -, oltre a quello è come un'onda che ti bagna i piedi all'improvviso, mentre cammini distrattamente sul bagnasciuga. O come quando, ecco, ritorni al banco dopo aver avuto indietro il tema corretto dal professore. Massì, quei temi scritti di malavoglia e senza uno straccio di idea, inizialmente, ma poi con foga e quasi un mistico trasporto, in mattinate tiepide in cui i più fortunati facevano educazione fisica nel cortile. Le maglie ammonticchiate ad astrarre la sagoma dei pali della porta, in partitella in cui gli esonerati e i pigri e chi ha dimenticato le Superga a casa - o le Adidas, o le Puma - fumano all’orlo del campetto, fumano sotto le fronde rade di betulla, fumano quasi sdegnati dal sudore minerale dei compagni che si oppone all'ovattata new wave dei loro discorsi, oligarchica generazione dell'accidia . E alla fine, qualcosa, qualche pensierino, pure l'hai cavato fuori per davvero. Tu chiuso nell'infinito ventre afoso di balena. Al punto che ora ti sembra di avere capito tutto, di avere le idee chiare sul mondo, la vita, tutto quanto. E sta ogni cosa impressa nel tuo tema, nel tuo capolavoro! Ma quando ti risiedi e finalmente lo apri aspettandoti un applauso, lo trovi invece imbrattato da una calligrafia affilata e distratta, che dal minimo vulcano di una penna Bic ha colato una lava rossa e vischiosa. Un fiume del tutto indifferente all'oggetto su cui si posa - i poveri fogli di computisteria a rigone larghe, come ostacoli da saltare: ogni riga e ti avvicini di un piccolo passo al traguardo... - e che dilaga in pensieri tortuosi, giudizi sommari, acuti suggerimenti, enigmi cerebrali, esibizionismi intellettuali, citazioni dotte o basse o sarcastiche e che dilaga, sì, ma anche urtica, scortica e infine sbaraglia ogni provvisoria convinzione, a intralciare timidamente il suo cammino. Così non solo ti accorgi della flottiglia di mosche che sta ora decollando dal tuo pugno, ma anche della viva presenza della mano che è rimasta aperta, vuota e scandalosamente nuda, nel gesto di chi domanda l'elemosina ai passanti. E anche di quella tua strana zampetta spalancata, bianchiccia, ti par di capire meno di un cazzo…