sabato 18 giugno 2011

Scommesse, o sul perché il sottoscritto preferisce le lettere ai lettini


Dopo la lettera aperta inviata all’attrice Emanuela Ponzano e quasi a compimento di un ideale dittico sui “panni sporchi lavati in piazza", faccio seguire alcune brevi considerazioni che muovono da una mail ricevuta nei giorni scorsi, e non ancora del tutto digerita. A inviarmela è stata una giovane psicanalista lacaniana che non conosco di persona, sono due righe appena. Nelle quali, parlando della mia presenza su internet, ha usato le seguenti parole:

“Ho dato un'occhiata veloce perchè sto lavorando, caspita, ma sei uno scrittore! Complimenti, scommetto che sei anche filosofo...”

Ora ci tengo a dire subito che non ho, come anticipato, alcun rapporto con la persona che scrive. Né dopo aver letto la curiosità o lo stimolo di approfondire la conoscenza. Un minimo di onestà intellettuale mi impone però di considerare come qualsiasi frase, stralciata dal suo contesto di origine, rischi di risultare incomprensibile o sconnessa, quando non addirittura grottesca. Vorrei in ogni caso prescindere completamente dall’identità dell’autrice (di cui ovviamente terrò segreto il nome) e dalle ragioni per cui mi ha scritto, concentrandomi unicamente sulla sua professione e sul contenuto del breve messaggio. Per ricercare quindi, solo tra questi aspetti che proverò a circoscrivere, eventuali connessioni significative. E ciò a rischio di quel che potremmo chiamare una “forzatura ermeneutica”, che è per l’appunto l’esperimento che qui intendo svolgere: forzare la psicanalisi a rilasciare qualcuno tra i suoi segreti…

Chi scrive è una psicanalista, dicevamo. E in particolare è una psicanalista lacaniana. La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo queste brevi frasi dal contenuto distratto, quasi scanzonato e ilare, è dunque stata una sentenza di Lacan, abitualmente molto più austero e corrucciato. “La femme n’existe pas”, ripeteva sornione il celebre psicanalista francese, ravvivandosi i folti capelli bianchi con una mano. “La femmina non esiste”.

E così, per estensione, mi è venuto da lambiccare: ma allora non sarà che anche la psicanalisi, in fondo, non esiste…

Dubbio che mi viene dalla constatazione che in psicanalisi, come si ricava molto bene dalle parole della mail che ho riportato, non si legge un testo, non ci si concentra su una traccia verbale a tutti visibile e il cui codice interpretativo sia uniforme, come potrebbero essere le Pagine gialle, ma in qualche modo si ipotizza l’esistenza di quel testo. L’inconscio, in altre parole, è da intendersi come una sorta di "scommessa” narrativa nella forma testuale del sintomo, allo stesso modo dell’anima per i cattolici o la reincarnazione per gli induisti (vedi alla voce "forse", sulle Pagine gialle).

Una considerazione che potrebbe sembrare di prima battuta sarcastica, liquidatoria, ma che a ben vedere non è affatto riduttiva. Difatti non disporre di un oggetto tangibile e manifesto non significa che stiamo parlando di nulla, ma comunque di qualcosa che viene postulato come condizione anteriore del discorso, che va precisandosi proprio a partire da tale assunzione dogmatica. Wittgenstein avrebbe chiamato questo modo di procedere un “gioco linguistico”, ossia un modo di argomentare certamente alternativo all’empirismo scientifico, i cui processi di validazione degli assunti sono più trasparenti e accessibili, ma non del tutto privo di un suo potere di significazione.

Un gioco linguistico, dunque. Simile per disposizione intellettuale e attendibilità dei risultati alla disciplina teologica, che personalmente trovo una tra le forme discorsive di maggiore interesse. Teologia e psicanalisi si equivalgono infatti nell'atteggiamento di chi sussuma interiormente il proprio oggetto ("in interiore homine stat veritas"), non potendolo desumere da condizioni esterne e verificabili. La verità, come dire, è sempre implicata, e mai compiutamente assodata.

Allo stesso modo della teologia, io considero quindi la psicanalisi un sapere potenzialmente emancipativo. Oltre che una pratica, al suo meglio, in grado di accrescere in consapevolezza e libertà il soggetto all’interno di una modernità confusiva; o più propriamente e in termini filosofici: di “fondarlo”. Ed è in questo secondo aspetto, pragmatico e morale, che la psicanalisi si distingue infine dalla teologia, molto più gerarchica e inclusiva.

Dubitabile è invece la sua efficacia clinica, come ormai riconosciuto anche da alcuni psicanalisti illuminati (Cesere Viviani ad esempio, che in questo breve pamphlet ha scritto parole di grande acume e saggezza). In ogni caso l’argomento esorbita non solo dai miei intenti, ma anche dalle mie modeste competenze in materia.

Torniamo dunque agli elementi di cui disponiamo: la mail della giovane psicanalista lacaniana, recapitata nella mia casella di posta elettronica. A partire già dalle prime battute è subito chiaro che sta parlando di qualcosa che non conosce né frequenta – ha dato solo “un’occhiata veloce”, dichiara – ma verso cui si sente comunque in diritto, o forse in dovere, per galateo, di commentare con un sussulto esclamativo: “caspita!”

Andiamo allora a vedere cosa dice il Dizionario Sabatini Colletti dell’esclamazione caspita: “Esprime stupore, ammirazione, contrarietà”.

Nel caso il termine riguarda con ragionevole convinzione i soli campi semantici dello stupore e dell’ammirazione, non della contrarietà. E ciò in conseguenza del fatto che la giovane psicanalista accosta l’esclamazione a dei complimenti. Ma complimenti per cosa? Cerchiamo nuovamente di comprenderlo rileggendo le sue parole:

“Caspita, ma sei uno scrittore! Complimenti, scommetto che sei anche filosofo...”

I complimenti non sono qui riferiti a un fatto, che non conosce (perché "deve lavorare"), ma a un’ipotesi, anzi a una doppia ipotesi: che io sia uno scrittore ma anche un filosofo. Nel suo pensiero essere scrittori e filosofi è dunque ragione sufficiente per generare complimenti. E’ insomma una qualità, un valore in sé. Al punto che dobbiamo concludere che, per uno psicanalista, l’oggetto significativo del discorso non è tanto il discorso stesso - la sua evidenza testuale, potremmo tradurre in termini narratologici - ma ciò che siamo grado di arguire o supporre a partire da nostre precedenti convinzioni.

Ma questa è per l’appunto l’applicazione del metodo teologico di esegesi scritturale, che Freud eredita dalla tradizione ebraica a cui appartiene.

O se vogliamo guardare le cose da un altro punto di vista, ciò che la psicanalista lacaniana fa sono ancora tutta una serie di scommesse, quasi fossero delle miniaturizzazioni distratte del grande azzardo teologico di Pascal, di cui condivide il metodo:

1) prima scommessa: che io sia uno scrittore;

2) seconda scommessa: che io sia un filosofo;

3) terza scommessa: che la qualità del mio scrivere e filosofare, anche senza una lettura che giustifichi il giudizio, meriti dei complimenti;

4) quarta scommessa: che i complimenti debbano essere indirizzati non tanto al merito ma allo statuto nominale di scrittore e di filosofo, e indipendentemente dai risultati lo stesso viene giudicato virtuoso (“a prescindere”, direbbe Totò).

Per andare verso una conclusione e iniziare a sbarazzare il campo da un po’ di congiuntivi e condizionali, ricordiamo velocemente che io non sono “un filosofo” e forse nemmeno “uno scrittore”, almeno in questa fase un po' al ribasso della mia vita. Però, della scrittura, della filosofia e anche della psicanalisi, la brevissima mail che ho qui riprodotto mi ha probabilmente aiutato a comprendere qualcosa in più. E ciò che ho compreso potrebbe essere così riassunto.

Gli scrittori sono delle persone che utilizzano il linguaggio per parlare della cose, e cioè per dare forma comunicabile a un’esperienza che può essere anche contraddittoria, o meglio molteplice, innervata, ma sempre tangibile. E stiamo ancora parlando di uno stile del pensiero, non dei risultati che possono condurre anche ad esiti di sublime misticismo, come in Dostoevskij o Flannery O’Connor. Infatti anche questi autori così dediti alla tradizione cristiana, quando scrivono si discostano da essa, virando a una pratica per metodo e sensibilità molto più vicina all'orizzonte mitologico o panteistico. Un coro greco, una polifonia orizzontale: non la tensione verticale della monodia gregoriana.

Credo che sia per tale ragione strutturale che un narratore ricerca le sue provvisorie conquiste in superficie, documentandole proprio a partire dalla crosta mobile del mondo, sull'epidermide osmotica delle persone. E' un fatto di pelle, come si dice. E la pelle assorbe umori e altri umori lascia filtrare: nasce dalla relazione dei flussi, la verità letteraria, potremmo dire...

Quando gli scrittori si occupano di oggetti non verificabili come Dio oppure l’anima, lo fanno dunque a partire da una postura esteriore, dalla ustioni sulla pelle, che è tangibile e porosa. L’anima è insomma ciò che il personaggio-uomo pensa dell’anima, e Dio quello che l'idea di Dio produce nell'umanità dei rapporti. Così mentre il narratore scrive il suo testo viene a invischiarsi nelle cose, nelle persone, e da quelle e da queste modificato di continuo. L'inchiostro era una buona metafora di tutto ciò, raggrumandosi sulla pagina quale fondamento vischioso dei propri esiti astratti, l'incipit e la trama sono condizioni necessarie del finale. Le parole stanno lì, sul foglio non più intonso, e possono di continuo essere richiamate e interrogate. Verificate.

Questa verificabilità testuale non significa però che quei termini siano effettivamente veri, ma verosimili, e cioè conseguenti a uno sviluppo drammaturgico plausibile, che si accordi con l'esperienza. Chi infatti può dire che la mail della giovane psicanalista mi sia stata recapitata per davvero? Magari si tratta solamente di un espediente narrativo che io ho accampato per svolgere un ragionamento, per afferrare un'intuizione per le orecchie. Se c’è dunque una qualche verità in ciò che io sto provando a dirvi: sta qui, nelle mie parole, non dovete ricercarla né più in alto né più in basso di quel scrivo. Oltretutto, questa verità non è necessariamente reale.

Ma vediamo invece cosa fa la filosofia. La filosofia non si accontenta di una verità verosimile esperita per osmosi, come invece avviene in letteratura, ma ricerca una verità che sia anche reale; diversamente dalla scienza non pretende però una prova provata, ma una prova dimostrata. In qualche modo la verità filosofica sta dunque sia dentro sia fuori dal linguaggio, e lo sforzo filosofico sta nel mettere in connessione questi campi. Non solo le parole con le cose, intendo, come già fa la letteratura, ma anche le parole con le idee. Una cucitura che va però eseguita senza creare alcuna smagliatura! La teologia può infatti permettersi un ampio numero di smagliature poetiche, che vengono vissute come ornamenti figurali del discorso, mentre il tessuto della narrazione filosofica deve essere lustro e tirato, per poter coprire l'intera superficie del divano.

O se vogliamo cambiare metafora, richiamando nuovamente la teoria di Wittgenstein, in filosofia è come in quei giochi che ogni tanto trasmettono in televisione, a tarda notte. Giochi d'azzardo in cui è possibile conoscere solamente alcune tra le carte di cui dispone l’avversario, mentre altre vengono mantenute coperte. Quello della filosofia è ugualmente un azzardo parziale, a partire da qualcosa di certo e verificabile: il linguaggio e l’esperienza sensibile, le regole formali della logica. Mentre il fondo ontologico del reale rimane occultato, e dunque oggetto di una mezza scommessa, per così dire. Una scommessa che deve essere quantomeno coerente con le carte esposte.

E infine arriviamo alla psicanalisi, che è invece un gioco totalmente al buio. In psicanalisi tutte le carte sono coperte, si può solo scommettere, azzardare, e quindi complimentarsi per ciò che non si conosce o conoscere ciò che non si sa, presumendolo. Ed è così che i linguaggi psicanalitici risultano spesso involuti, non verificabili, spesso anche incoerenti da un punto di vista della logica e della forma. Ad esempio se la nostra giovane psicanalista dovesse dirci che stiamo vivendo una recrudescenza del complesso di Edipo e noi facessimo sì sì con la testa, come bimbi a cui viene offerta una caramella, la psicanalista potrebbe concludere compiaciuta: ”Finalmente l’hai capito anche tu, lo vedi che avevo ragione io: hai proprio un bel complesso di Edipo, caspita!”

Infatti lei lo sapeva fin da prima che tu avevi il complesso di Edipo, e che desideravi portarti a letto la mamma e dare un bel cazzottone in testa al papà. Lei lo sapeva perché l’aveva postulato con anticipo, quindi ci aveva scommesso sopra la sua fish di verità.

Ma se invece con la testa tu avessi fatto no no, mi scusi signorina, ma a me questo complesso di Edipo… insomma, a me non mi risulta. Magari vorrei anche scoparmi la cameriera al bar qua sotto, d’accordo, ma la mia mamma che è vecchia e grassa e con la basletta no, guardi che si sbaglia! Beh, la psicanalista a quel punto – dopo aver naturalmente detto ancora caspita, ma questa volta con sfumatura di disappunto – la psicanalista avrebbe nuovamente ragione, e te lo spigherebbe a questo modo. Il fatto che tu neghi il complesso di Edipo rappresenta un meccanismo di difesa inconscio, e la presenza di un meccanismo di difesa è la più chiara dimostrazione di quel che stai cercando disperatamente di negare. Ossia che desideri “giacere” (chissà se qualcuno utilizza ancora il verbo giacere, ma tant’è…) giacere con tua madre ed eliminare fisicamente tuo padre.

In tal modo sia che tu neghi oppure ammetti la sua ipotesi, la sua scommessa, è sempre quella giusta. E lo è perché si tratta di un postulato. Che nella teoria dei giochi significa semplicemente che la psicanalisi è un gioco truccato, come quello delle tre carte. Non si è infatti mai visto un gioco dove si vince sia con il rosso sia con il nero, né un analista lacaniano che, mettiamo, dopo una seduta terapeutica ti dice mi sono sbagliato, avevi ragione tu, capita di sbagliare. Quindi diventa junghiano o confuciano o vegano... (qualcos'altro da ciò che era prima della sua scommessa, intendo).

Ma la psicanalisi può anche essere un gioco sapiente, perché comunque ogni energia viene indirizzata in questa direzione: sapere, conoscere se stessi, come ingiungeva l'oracolo di Delfi. E poi anche in psicanalisi tutto si decide nella relazione, in uno scambio di "flussi". Ed è questo scambio vissuto, più che il minimo castello di carte che prova a contenerlo, barando, a costituire il possibile aspetto emancipativo. Al netto di tutti i suoi trucchetti, l'analista è in fondo semplicemente una persona: non un metodo, non un sistema.

Se guardiamo alla psicanalisi come a una persona, ci accorgiamo allora che può essere generosa e sottile anche nell'uso del linguaggio, come Cesare Viviani, psicanalista ma anche grande poeta, oppure prendere le sembianze di un uomo o una donna che usano in modo disinvolto e vogare un idioma settario, da cui capitalizzano la loro fettina di potere. Potere, certo, potere di postulare assunti e ritrarre subito la rete delle conseguenze, un po' come si fa in quelle tristi pozze artificiali dove si pescano le trote appena seminate, e poi ci si fa fotografare con il pesce orgogliosamente impugnato per la coda.

Ecco, l'anima può allora trasformarsi nel pescetto rosso che nuota nella brocca opaca di uno psicanalista che dice "caspita" e "scommetto", sempre più piccina e smunta. Ma anche nella balena di Melville, nel pesce cane che inghiottì Jonas o Pinocchio prima di vomitarli in un luogo nuovo e diverso, già che erano Jonas e Pinocchio a essere diventati nuovi e diversi a sé. Tutto sta insomma ancora una volta nella misura del gioco che abbiamo deciso di giocare, ma soprattutto in chi ci accompagna in questo viaggio.

Quanto a me, le mie finanze e la mia indole mi suggeriscono di continuare a giocare da solo, senza preoccuparmi troppo di quale sia l'etichetta di quel che faccio: filosofo, scrittore…? Boh, può essere, perché no, ma non è questo il punto. Il punto, o forse i due punti, il punto e virgola, ognuno lo chiami un po’ come creda o meglio come scelga, consiste infatti nel cercare di far corrispondere le parole con le cose, che come già visto non è nient'altro che l'antico gioco della scelta consapevole. Ma ciò senza postulati, senza trucchi e senza nascondere alcuna carta dentro al polsino. O almeno questo è il mio punto, il mio gioco.

Ed è un gioco, sì, ma un gioco dove non esistono scommesse e ogni cosa viene distesa sopra la pagina quasi oscenamente, come grasse gatte al sole.

2 commenti:

  1. fai bene a non preoccuparti del titolo del gioco:voci come la tua sono inestimabilmente preziose. Grazie, mg

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  2. grazie mg, troppo buona, mi imbarazzi: va a finire che qui mi metto davvero in mente di essere un filosofo e uno scrittore... (caspita!)

    ;-)

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