mercoledì 22 giugno 2011

La Nuova Era, apologia della Santa Messa


Dopo un paio d'anni in cui mi sono interessato di spiritualità contemporanea, mi sembra di essere finalmente approdato a qualcosa che somigli a una conclusione. Che così può essere riassunta: l'unico modo serio per intraprendere un percorso spirituale altrettanto serio nell'Italia post-cattolica dei prima anni del terzo millennio, è andare a Messa la domenica. Punto. Stop. Sta già tutto lì.

E non perché quel tutto sia anche vero, o superiore al qualcosa delle esperienze spirituali derivate da altri contesti culturali, specie orientali. Ma perché salvo forse alcuni rari impianti nostrani di bulbi religiosi esotici, che si richiamano perlopiù al Sufismo o al Buddhismo Zen o in ogni caso a tradizioni strutturate e storicamente documentabili - è dalla mescolanza che verifico ogni volta il peggio -, personalmente ho trovato queste autostrade della salvezza ingorgate da un numero spropositato di cialtroni, ingenui, illusi, approssimati, volgari, depressi, cacacazzi, rotti in culo... Persone spesso in malafede, anche.

Se non altro il Cattolicesimo romano presenta allora una formazione gerarchica - discutibile fin che si vuole… - che assicura ciò che ho chiamato serietà. Termine che si riferisce all'arte di far seguire conseguenze a premesse secondo un principio discrezionale, questo è fuori dubbio, e cioè di non necessaria concatenazione logica o scientifico-empirica, e però di impegno volontario sorvegliato, di lealtà morale. Serio è insomma chi fa quel che dice di voler fare, e che ha nel suo sì sì e nel suo no no.

Quanto poi alla verità, la mia idea è che tutte le narrazioni spirituali non possano per definizione essere vere, parlando di qualcosa che non solo non è vero, concreto, dimostrabile e figuriamoci la vita eterna, ma semplicemente "non è", almeno nei termini abituali di un discorso.

Se anche tale sostanza narrativa fosse, se esistesse un'effettiva corrispondenza tra assunti verbali e referenti di realtà, un contenuto, diciamo così, non sarebbe infatti conoscibile. E se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile, come già aveva intuito Gorgia da Lentini quasi duemilacinquecento anni fa.

Dobbiamo dunque ricavare che l'intero castello della spiritualità moderna sia stato edificato con la sabbia della menzogna?

No, assolutamente. Perché la constatazione che qualcosa non è vero non significa automaticamente che sia falso. La nozione di verità religiosa - che è solo una tra le funzioni antropologiche del fatto religioso - andrebbe allora ritradotta con un termine contiguo ma a ben vedere anche profondamente distinto, quello di autentico. Una religione può essere o non essere autentica: mai vera!

Con autenticità richiamiamo infatti l'origine - non contraffatta, sorgiva - ma anche l'effetto di qualcosa, che si accordi all'origine senza mediazioni svianti. Nel caso specifico faremo corrispondere l'autenticità con un impulso alla trasformazione della coscienza; o alla sua individuazione, secondo un diffuso alfabeto junghiano. Ciò che viene a individuarsi nella pratica religiosa è dunque un punto irriducibile che potremmo chiamare sacro: il punto, il nocciolo, dove io e non-io tendono a regredire alla loro origine confusa, dando luogo a un nuovo io e a una nuova totalità, non più distinti eppure definiti, incarnati. Ed è questo il senso profondo del sacramento.

L'autentico oggetto del discorso religioso, perlopiù metaforico, simbolico, è quindi il sacro. Che non deve essere validato secondo parametri restrittivi di verità ed errore, anche se sono le stesse autorità religiose a incorrere di frequente in tale confusione dei piani, scivolando in dubbi proclami ontologici o di etica sessuale. Potremmo dire che la religione è una procedura, ossia una sintassi senza semantica. E alcuni stili narrativi e liturgici sono appunto più seri, più collaudati, più meditati e simbolicamente espressivi di altri. Da qui la loro efficienza.

Quando la Santa Messa domenicale, a mio avviso, è il più serio ed efficiente dramma mai messo in scena.

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