martedì 14 giugno 2011

Damon Galgut e Massimiliano Parente, o sul personaggio omo


Come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi e anche bravi? Mentre stavo leggendo l’ultimo bellissimo libro di Damon Galgut, mi sono ritrovato a farmi spesso questa domanda. A cui però, dopo essere inciampato in un breve velenosissimo articolo di Massimiliano Parente per il Giornale (è possibile leggerlo anche qui), se ne è affiancata una parallela: come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi e anche cattivi?

Ecco, a questo punto potrei cavarmela dicendo che l’omosessualità, che io sappia unico elemento, insieme alla scrittura, che accomuna Galgut a Parente, non c’entra proprio nulla. C’entrano invece le persone, il modo in cui le persone vivono i rapporti e quel particolare tipo di rapporto in cui l'interlocutore non si sia ancora precisato - eppure sempre implicato, presente - che è il gesto di fermare una storia in segni grafici combinati.

Beh, io mi sento invece di insistere: come mai gli scrittori omosessuali sono così diffusi, bravi ma allo stesso tempo anche cattivi, se non alle volte addirittura feroci e pessimi?

Credo infatti che la preferenza erotica e l’identità sociale che ne consegue siano determinanti rispetto alla vocazione alla scrittura, e che questo dato non sia indifferente agli esisti qualitativi della stessa, favorendo gli estremi contrapposti. Provo a spiegarmi, seguendo una logica in fondo elementare. La scrittura, specie quella prosastica, narrativa, rappresenta lo sforzo concentrato nella ricerca di una forma dentro l'accadere caotico della vita. Ma non una forma qualsiasi, una forma tanto per fare, quanto la forma esatta in cui si rifletta l’incerto equilibrio tra cose, persone, fatti e il riflesso emotivo della loro mescolanza in un punto di vista incarnato, il personaggio.

Il personaggio è dunque l’equivalente narrativo del primo uomo sulla terra, indipendentemente dal tempo storico del racconto. Ma a ben vedere anche la condizione omosessuale si configura come novità storica scandalosa, sebbene ne esistano testimonianze antichissime. E ciò probabilmente perché nessuna comunità, nessuna socialità organizzata si è ancora provvista di una struttura di ordine simbolico adatta a definire e integrare una ripulsa ai rapporti erotici cosiddetti “normali”, e al sistema riproduttivo e di accudimento che ne consegue, garantendo la continuità generazionale. Un meccanismo oliato ed efficiente che è stato chiamato famiglia, almeno in Occidente.

L’omosessuale, anche quando sia totalmente analfabeta, o illetterato, è dunque già a partire dal suo status un potenziale scrittore. La sua condizione atipica gli impone infatti di inventarsi un tracciato narrativo attraverso l’esistenza, una forma all’interno della fabula sociale in cui il suo personaggio non è ancora previsto, o quando contemplato viene semplificato in caricatura umiliante.

Questo, almeno fino a pochi decenni fa. Prima che l’omosessualità guadagnasse finalmente il riconoscimento di un'eresia tollerata, dove più dove meno, e anche da quella prospettiva iniziassero a delinearsi schemi di comportamento ricorrenti e identità preformate e ubique, per così dire. Che non sono però ancora effetto dell'emergere di funzioni sociali concluse, come il buon padre di famiglia, il guerriero coraggioso, la madre sollecita, il birbone simpatico, la Circe accalappia maschi… Non sono insomma dei modelli antropologici espressione di un ordine sotteso, ma qualcosa come generi letterari entro un canone maggiore.

La “checca isterica” o il "macho" o il "dandy leccato" formano alcune di queste varianti, prodotte dalla comunità gay e solo in seguito fissate dentro la finzione spettacolare. Tipi narrativi che riconosciamo con un solo colpo d'occhio, ma che ancora non siamo in grado di rubricate come classici, già che per profondità e struttura somigliano tutt'al più a maschere regionali minori, come Brighella o il dott. Balanzone. L'intellettuale gay cinico, supponente e prodigo di giudizi implacabili e sarcastici non è nient'altro che un'altra maschera di comodo, rassicurante nel suo innocuo abbozzo di commedia. E nel caso uno desiderasse sfogliarne l'intera collezione, è sufficiente rivolgersi a quel formidabile tableau vivant costituito dal Gay Pride.

Certo, anche questi goffi tentativi rappresentano comunque una forma di resistenza all’umiliazione sociale, che riduce l’omosessuale a macchietta lubrica e desiderante. Ma a quello stereotipo ne vengono opposti altri di segno semplicemente contrario, ben lontani dalla complessa strutturazione letteraria di un personaggio credibile e articolato, con sfumature adeguate a un'epoca poco incline ai sommari tagli di un'accetta. Si tratterebbe allora di inventarsi ogni volta il proprio romanzo, di modulare all’interno del coro una voce riconoscibile e unica.

Cos’è che allora mi fa dire che gli scrittori omosessuali, oltre che numerosi per via dell'incertezza che accompagna la loro collocazione in società, tendono a disporsi agli estremi opposti per quando riguarda la qualità dei risultati?

Me lo fa dire di Damon Galgut, ad esempio. Che a ogni suo romanzo si getta, nella pagina allo stesso modo che nelle vita, come se fosse il primo uomo venuto al mondo. E dalla vita e dalla pagina ricerca risposte credibili e un luogo dove accamparsi, giorno per giorno, notte per notte, con gli unici mezzi della propria vigile curiosità e sforzandosi di incidere un proprio inconfondibile segno nella terra, che ricava da questa assoluta esposizione agli eventi e soprattutto all'umanità degli incontri. Ricerca insomma delle ragioni che non siano semplicemente buone, ma sperimentate nel corpo e nel pensiero, in un'esperienza che sia davvero singolare come quella di un cavaliere solitario.

E però me lo fa anche dire Massimiliano Parente, che con i suoi interventi letterari scomposti e incanagliti mostra come l’omosessualità, quando indossata come una medaglia al merito, non sia solamente un orientamento sessuale tra i tanti, ma un genere erotico del discorso dove tutto è svalutato a fuffa, merda, spazzatura sentimentale prodotta dai "normali", a cui accordare la facile retorica del disprezzo. Questa postura reattiva non rappresenta però un archetipo e ancor meno un modello letterario credibile, un exemplum. Tutt'al più un cappottino logoro che abbiamo già visto sfilare infinite volte, sempre con la convinzione che fosse un capo unico ed esclusivo, il segno squisito di un'elezione, ed è invece solo l'abito rattoppato che i fratelli si scambiano a ogni rintocco del calendario.

O forse è solo che quando i tappi della birra vengono confusi per smaglianti lustrini, e viceversa, non solo la vita ma anche la letteratura è altrove.

9 commenti:

  1. Henry de Montherlant. Lo conosci?
    Fratto Frattini

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  2. adesso che mi ci fai pensare...non ho mai letto nulla di uno scrittore omosessuale- a parte Busi- che a me non piace. Mi segnerò dunque i nomi che segnali e Henry de Montherlant che già conosci. ( Mi vengono dei dubbi ora: Arbasino è omosessuale? e forse molti altri che ho letto ma di cui non ho pensato o notato la diversità). Sostanzialmente, comunque, penso che le persone siano infinitamente e caratterialmente diverse al di là dell'appartenenza a un sesso: donne cattive- donne buone; maschi cattivi-maschi buoni; incerti cattivi- incerti buoni.
    Non comprendo invece l'affermazione: "L’omosessuale, anche quando sia totalmente analfabeta, o illetterato, è dunque già a partire dal suo status un potenziale scrittore. La sua condizione atipica gli impone infatti di inventarsi un tracciato narrativo attraverso l’esistenza, una forma all’interno della fabula sociale in cui il suo personaggio non è ancora previsto, o quando contemplato viene semplificato in caricatura umiliante".
    Se ne desume, per logica consequenziale, che gli scrittori derivino da una "condizione atipica" che permette loro di inventarsi tracciati narrativi? Una sorta di devianza che porta a scrivere? Mah...

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  3. non so cosa risponderti, Mnemosyne. o meglio ho l'impressione che tu ti sia fatta una domanda ma anche ti sia data una risposta, come avviene nei programmi di marzullo. ebbene sì: io la penso come me, per quanto ciò possa apparire strano...

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  4. Gironzolavo attorno a questa tematica, da tempo. Arriva hauser ed è subito: luce, ordine, struttura. Grazie, mg

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  5. Arbasino si, forse solo bisex (anche?)

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  6. non ho capito, giuro, l'ultimo commento...

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  7. Letto solo adesso, bravi, ma credo che Arbasino e Galgut siano etero dichiarati.
    mp

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    1. Massimiliano, rileggo anche io, dopo mesi, solamente ora il mio testo, e dunque con uno sguardo quasi da spettatore. onestamente, continuo a trovarlo un testo "equilibrato"; ammesso che qualcuno possa ancora considerarla una virtù. riconosco però che difetta di una precisazione: l'aggettivo "bravo" (e "cattivo") non ha nell'argomentazione alcuna valenza estetica, ma viceversa cognitiva, esistenziale, e in ultima istanza morale. ci sono infatti scrittori - indipendentemente dalla loro abilità, cioè della resa formale del loro sforzo - che hanno fatto della curiosità verso il mondo ma soprattutto le persone (ed ogni altro essere vivente) la propria identità artistica. così, gli stessi scrittori, quando si accostano alla pagina lo fanno con ampiezza e disposizione dello sguardo (che non c’entra davvero nulla con la rima cuore amore) e pare che tutto vogliano inglobare, comprendere, restituire con voce tollerante e laicamente pietosa. diversamente, esistono altri scrittori che sembra che vogliano mantenere con le cose (l’oggetto della narrazione) una distanza sarcastica e respingente, trovando nella diffidenza pregiudiziale la propria personalissima cifra: morale, ripeto, non estetica. ecco, negli autori omosessuali io trovo che sia frequente la disposizione verso tali opposti, in una polarizzazione di cui ho provato a ipotizzare la genesi sociale. detto ciò, io penso che Galgut e Parente siano due ottimi scrittori: ma il primo infantilmente stupefatto da ogni cosa in cui si imbatte, mentre il secondo, almeno nella sua attività pubblicistica e sul web, livido di rancore e scherno verso tutto e tutti. (quanto ad Arbasino, non so che dire: non sono io ad averlo tirato in ballo)

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