martedì 21 giugno 2011

Alfredo


Alfredo Rampi ha trentasei anni, è del segno dell’ariete, ascendente pesci. Cinque settimane fa ha sottoscritto un mutuo ventennale con Monte dei Paschi di Siena, con cui ha acquistato una villetta multifamiliare nella periferia di Frascati; a Villa Vecchia, per la precisione. Negli ultimi anni gli amici ne avevano un po’ perso le tracce: chi dice che stesse lavorando come barman in una discoteca di Colonia, chi come ragioniere per una ditta che opera nel nord Africa – ma non risulta che si sia mai diplomato presso l’Istituto Kennedy di Frascati, e l’ipotesi sembra alquanto dubbia – e altri ancora che fosse imbarcato sulle crociere Lauro, con il ruolo di tecnico addetto alle attrezzature informatiche. La ragione del suo rientro è in ogni caso inequivocabile: il 25 giugno Alfredo Rampi, dalla madre Franca ancora chiamato affettuosamente Alfredino, si sposerà presso la Basilica di San Pietro Apostolo. Quindi si trasferirà con la moglie tedesca (allora forse qualcosa di vero c'era) e un figlio del precedente matrimonio di lei nella nuova abitazione, scelta un po’ più grande del necessario perché non si sa mai, arrivassero altri figli…

Ecco, questa è quella che viene abitualmente chiamata un'ucronia, e cioè uno sviluppo alternativo a quello reale dei fatti. Per la realtà e perfino per la Storia con la S maiuscola Alfredo Rampi è infatti morto il 13 giugno del 1981, ingoiato da un pozzo artesiano in località Vermicino, una frazione di Frascati dove fanno un vinello leggero e pallido che va bevuto molto freddo, per consolare la tristezza. Televisioni, radio e giornali si sono accampati attorno al luogo dell’incidente per l’intero periodo in cui si è cercato di sottrarlo a una morte atroce, in un’agonia che è durata tre infiniti giorni. Il termine “evento”, abusato nei decenni successivi, in questa circostanza ha così acquistato una sua eloquente consistenza. E ciò grazie all'ostensione pubblica degli ultimi momenti di vita del bambino, la sua fine in diretta nazionale, tanto più evidente e scandalosa per la paradossale sottrazione dell'oggetto, solo una vocina che ogni tanto emette qualche flebile lamento da un imbuto di terra e fango. Mentre sessanta milioni di italiani sperimentano l'efficace formuletta di un sociologo canadese: “villaggio globale”, da lì in poi ci saremmo abituati a chiamarlo a questo modo.

Di quel villaggio ne facevo dunque parte anche io, che per destino biografico mi trovavo gettato a Sondrio, estremo nord del Paese: in una ventina di minuti di automobile si raggiunge la Svizzera, riconoscibile per gli svizzeri e per i distributori di benzina. Il pieno di super costava qualche biglietto da mille in meno, una bella passeggiata da fare con il cervello in vacanza e l’autoradio al massimo. Un tragitto che avrei percorso molte volte negli anni successivi ma non ancora quel 13 giugno del 1981, se non per accompagnare gli amici più grandi, più fortunati, che avevano già il privilegio della patente B. Io allora avevo quindici anni, un mese e venticinque giorni. Otto anni e trecentocinquantasette giorni più di Alfredo Rampi, che implorava un po’ di acqua e la mamma dal fondo di un pozzo vicino a Frascati.

In quel periodo frequentavamo un bar di nome Sole e il barista, Gigi, ogni volta che entrava un nostro amico che aveva l'abitudine di vestirsi tutto di giallo, borbottava ad alta voce: “Fruscett”, che credo si capisca cosa significhi. Quindi faceva finta di niente e continuava sciacquare i bicchieri, mentre ridacchiava sotto i baffi insieme a tutti i noi. I baffi di Gigi non erano baffi figurati ma folti e biondicci, che gli conferivano un’aria adulta anche se non esattamente matura, e ciò nonostante i vent'anni appena scavallati come si salta un ostacolo troppo basso. Ogni volta che Gigi borbottava al vento i suoi “fruscett”, il nostro amico Simone, sempre più spazientito dentro un completo giallo canarino, iniziava e enumerare tutte le conquiste femminili. Aggiungendo, ma a bassa voce: “Frocetto ci sarà lui”.

Simone aveva un cugino di nome Fabio che era il suo esatto contrario. Tanto Simone era ossessivamente attento all’abbigliamento e a ciò che amava chiamare “il proprio look” – quell’anno erano da considerarsi un must i jeans Valentino, Armani e Stone Island, mi spiegava Simone con tono austero – quanto il cugino ostentava indifferenza a ogni aspetto del suo apparire, che considerava insulso e vezzoso. Di tanto in tanto Fabio si presentava al bar con una frase di Nietzsche ricopiata sul risvolto di un pacchetto di Lucky Strike, l'eterna felpa grigia pezzata di sudore. Io che ero iscritto a ragioneria Friedrich Wilhelm Nietzsche non sapevo nemmeno chi fosse, ma era un nome che suonava bene e ogni tanto lo ripetevo, quasi fosse un ritornello musicale da canticchiare di fronte a qualche ragazza appena conosciuta.

Il 13 giugno 1981, due e mezzo di pomeriggio o giù di lì, io e Simone ci troviamo al bar Sole e stiamo bevendo una Stella Artois alla spina. Non una birra a testa, intendo, ma una birra solamente. Che ciascuno sorseggia mentre l’altro è impegnato nel videogioco: un pinguino si muove impacciato tra grossi cubi di ghiaccio, che deve impilare a comporre una sorta di tris. Solo tre dei numerosi cubi tra cui si affanna il pinguino, per esser più precisi, possono essere impilati, gli altri vanno spostati come in un domino o in altri casi ancora frantumati, quando è visibile una lieve incrinatura. Ogni volta che si riesce a realizzare il tris - senza che il pinguino venga stritolato a sua volta dai cubi di ghiaccio -, si passa al livello successivo e c’è il cambio di consegne tra i giocatori, insieme alla caraffa di Stella Artois.

Io indosso un paio di All Stars di tela azzurra, quelle che utilizzo anche negli allenamenti di basket - per la partita domenicale conservo invece delle Adidas modello Abdul Jabbar -, un paio di jeans Stone Island e una maglietta sempre della Stone Island, con un’enorme rosa dei venti stampata sul petto. Simone è al solito vestito interamente in giallo e nonostante il caldo indossa anche un gilè Benetton di lana con lo scollo a V. Perfino le stringhe delle Superga di tela, gialle, sono gialle, ma fortunatamente quel giorno Gigi è stato sostituito dietro al banco dalla sorella, che non usa commentare. Anzi, non parla proprio la sorella di Gigi. L'unica cosa che ricordo di lei è che aveva un fidanzato canoista, e ancora adesso quando vedo una canoa non penso alla sorella di Gigi - troppo facile - ma a Gigi stesso, che nel frattempo ha fatto una tranquilla morte da vecchio: si è addormentato e non si è svegliato più. Aveva trent'anni e già finito tutti gli ostacoli da saltare.

Quando Fabio entra al Sole io e Simone abbiamo già raggiunto un livello discretamente avanzato, il pinguino ora sta rischiando di brutto. Qualcuno – uno tra gli amici che stanno stravaccati ai tavoloni in legno di fronte alla vetrata, con altre Stella Artois schiumanti – butta lì da dietro il parapetto: “Fabio, sai se ci sono novità su quel bambino caduto nel pozzo, hai visto mica in tivù?” “No, non so niente” risponde Fabio con un’alzata di spalle, mentre con una mano si dà una sistematina al cavallo dei jeans Armani, da lui indossati senza il fastidio borghese degli slip. Glieli ha regalati una sua fidanzata più vecchia ma anche ricca, che il sabato pomeriggio Fabio accompagna in Svizzera a far benzina con un Duetto scappottato; lui ha accettato i jeans solo a patto di potergli strappare subito l’aquilotto. “Ho visto che dicevano qualcosa al telegiornale mentre stavo cercando un libro in soggiorno” continua Fabio dopo una breve pausa, "ma io poi sono andato di là a leggere. Mio fratello dice che dovrebbero buttargli giù una bella colata di cemento.”

Quello di acquistare abiti firmati e poi amputarli del marchio era in effetti una pratica piuttosto diffusa. Anche io, con le mie felpe Stone Island, avevo l’abitudine di sfilare la pecetta in stoffa dai due bottoncini cuciti sulla manica. Però non la gettavo via e riponevo accuratamente il tutto in una scatola vuota dell’Ovomaltina, che tenevo in un armadio vicino al flauto rosso con cui mi esercitavo alle scuole elementari, nel doposcuola. Ma come mai in questo momento tutti e dunque anche io, anche Simone, anche il fidanzato canoista della sorella di Gigi - ma lei no, muta, impassibile come sempre - e finalmente anche Fabio, che quando ride ha una faccia così gentile e graziosa e delicata che ti dimentichi della felpa grigia che non si cambia da un mese, come mai tutti ma proprio tutti stanno ridendo?

Ah, già, quello che ha appena detto Fabio, anzi suo fratello: una bella colata di cemento, giù, nel camino del pozzo artesiano, giù per trenta metri fino a raggiungere la testa di un bambino di sei anni incastrato sotto terra, giù in un cavo di venticinque centimetri di diametro che non gli permette di muovere le mani, di ripulirsi la bocca dal fango che… (No, basta, anche la descrizione narrativa deve avere un suo pudore!)

Ogni volta che ripenso a questa battuta sciagurata – e ci ho ripensato spesso nei trent’anni che sono gocciolati come un rubinetto rotto – non mi fa male la frase in sé, ma quelle nostre risate così meccaniche e automatiche, da pronti-via-ridete in una di una sit-comedy americana, e che sono poi cresciute una sull'altra alla maniera di una valanga di panna montata. I denti si dispongono in un certo modo, la lingua in un altro e da quella conformazione morfo-posturale il soffio, il suono che esce fuori insieme all’aria dei polmoni: suono e soffio che normalmente vengono accompagnati alla vitalità gioiosa del corpo o a un innocuo e grato stupore per qualcosa, per qualcuno. Alfredino Rampi, ad esempio. Ridere di Alfredino Rampi, sì, ridere fin che ti fa male la pancia, la panna montata di cui hai finito col fare indigestione.

Ma se non era gioia o sorpresa, cos’era dunque quella risata fragorosa e compulsiva, quell'osceno concerto per imbecillità e candore?

Ripensandoci ora mi sembra di poter intuire che si trattasse di un tentativo e di una resistenza. Il tentativo di essere come il fratello di Fabio, più grande ed esperto e disinvoltamente sgamato di noi – e chissà quante volte il fratello di Fabio sarà già andato in Svizzera a far benzina… -, ma anche la resistenza a diventare come i nostri genitori, come gli insegnanti, come la stanca processione che si accoda all’esibizione di un cordoglio che ci pareva artefatto, pigramente di maniera. Ridere era insomma il nostro modo per non essere né una cosa né l’altra: bambini impressionabili, che si spaventano e fuggono di fronte al dolore del mondo, ma nemmeno adulti fintamente compassionevoli, ipocriti. Essere altro da tutto questo, essere ciò che siamo.

Quando non c'è un altro, quando non c'è un tu a definirti per contrasto - o se si profila se ne cancella simbolicamente lo spettro con una colata di cemento - è però difficile avvicinarsi a quello sdrucciolevole concetto che è l'identità. Rimane dunque il noi, un pronome di prima persona plurale avvolto dal venticello estivo di una risata scomposta e gaglioffa. Noi che significava forse semplicemente non essere ancora io... E cioè oscillare dentro una specie di limbo luminoso tra cielo e terra: eccola la gioventù, eccoli i nostri anni ottanta! Come uno scrigno magico dove conservare tutte le pecette morbide della Stone Island.

Il limbo luminoso della gioventù, lo scrigno magico e segreto... Quasi tutti credo che abbiano sperimentato una simile sensazione. Ma cosa succede se ti addormenti su quei cuscini glassati, le pecette scure come la coperta di Linus? E così adesso mi viene il dubbio che il sogno adolescenziale, per la nostra generazione, possa essersi trasformato nell'incubo di un pozzo artesiano... Le pareti che si induriscono, si calcificano, vorresti muovere un braccio ma ti accorgi che non puoi più: sei bloccato, sei incastrato in un patetico abito giallo canarino, stritolato come un pinguino tra i ghiaccioli. E così resti lì per anni, cerchi di assumere una posizione comoda - magari ogni tanto qualche rimpatriata con i vecchi amici, vai in palestra, in fondo ti conservi bene, una puntata in Svizzera a far benzina - mentre dall'alto dell'imboccatura qualcuno guarda giù, si pulisce la schiuma dai baffi biondicci, e ti sussurra piano piano: "Fruscett."

Mezzora fa ho sospeso la scrittura di questo testo che mi procurava disagio. Mi sono alzato, ho bevuto un bicchiere di succo di pompelmo e poi ho raggiunto l’armadio dove l'avevo lasciata. E la scatola di Ovomaltina infatti stava ancora lì, al fianco del flauto rosso con cui avevo imparato a fischiettare l'Allemanda. Ho aperto il coperchio, faceva un po' di resistenza, e le ho trovate distese come le avevo deposte quasi tre decenni fa: le mie pecette... Rettangolini neri e vellutai – ma la parte posteriore è in tessuto impermeabile e sintetico - con il lato maggiore di una decina di centimetri scarsi. All’interno è raffigurata la rosa dei venti per mezzo di una cucitura più spessa, il filo è di un diverso colore: giallo all’esterno e verde al centro, dove compare la scritta Stone Island replicata nei due fronti. E’ un marchio particolarmente riuscito, bisogna riconoscere. Potremmo perfino dire bello.

Ho richiuso il tutto e mi sono avviato a piedi verso il bar Sole, con il cane sorpreso che non facessimo il consueto giro notturno verso Piazza Garibaldi e poi il giochino della scala mobile in Garberia: io che salgo per il nastro meccanico e la Peppa fa il giro dalle scale, ricongiungendoci in cima sempre con grande e reciproca festa, come emigranti che non si vedono da anni. Quando abbiamo raggiunto il ponte sul Mallero la Peppa ha proseguito verso i giardinetti, ma io mi sono fermato proprio al centro, ho aperto la scatola arancione dell’Ovomaltina e, dopo aver controllato che non mi vedesse nessuno, ho rovesciato il contenuto. Era troppo scuro perché potessi scorgere le pecette dileguare tra i gorghi e le insenature del torrente. Quindi ho recitato una preghiera per Alfredino Rampi, l’eterno riposo, anche se non mi ricordavo bene tutte le parole. La Peppa mi aspetta con in bocca un mazzo di chiavi appena ritrovato tra i cespugli.


(Ps - Se anche gli interventi scritti avessero una colonna sonora, non c'è dubbio - e vi invito a farlo - che la colonna sonora di questo goffo tentativo di fare i conti con il mio passato e con il nostro presente, sarebbe questa qui.)

2 commenti:

  1. iniziavano gli anni 80, la "decade fashonista" dell'apparire ed è iniziata la spettacolarizzazione del dramma. In buona misura questi elementi perdurano tuttora.

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  2. senza dimenticare che dietro il parapetto del bar sole, confuso tra le risate per la battuta del fratello di fabio, che tu in quel momento ci fossi o non ci fossi, comunque c'eri, ci sei stato, ci siamo stati tutti Carlo (fino a che un cane o un dubbio ci hanno fatto ritrovare le chiavi di casa, o non trovare..)

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