mercoledì 29 dicembre 2010

Lettera aperta a Beppe Sebaste



Caro Beppe,
tu ed io non ci conosciamo di persona, ma per quella confidenza immaginaria che nasce dalla prolungata intimità con le pagine di un libro che hai molto amato, ti sto scrivendo una lettera aperta dal tono forse un po' troppo confidenziale, appunto.
Il libro in questione è Porte senza porta, che possiedo in una vecchia stropicciata edizione Feltrinelli. Ora ho appena iniziato a rileggerlo nella sua versione aggiornata (“rewind”) e una cosa, subito, mi ha colpito ascoltando il cd allegato al volume. Vorrei così parlartene senza pensarci troppo su; ancora a cavallo della bestia, come si dice. E' quando tu confidi della difficoltà di incrociare degli autentici maestri dentro la professione in cui forse più ti riconosci, quella di scrittore o in generale di artista, tanto da chiamare “fratelli maggiori” alcuni tuoi compagni di strada.
Vero, è una considerazione che anche a me è capitato fare di frequente. Imbarazzante la distanza che si apre tra le pagine di un libro di Aldo Busi, mettiamo, e le sue comparsate televisive. E come è riconoscibile lo sconforto di Paolo Villaggio che, dopo un intensa e asimmetrica amicizia con Federico Fellini – è lo stesso Villaggio a chiamarlo sempre maestro –, così conclude: “Fellini era un uomo che non aveva niente da darti.”
Ma come in tutte le intuizioni felici, subito vengono in mente casi particolari che le smentiscono e sembrano farti no no con il ditino, come le teste di certi cagnetti di pezza che venivano incollati sul lunotto posteriore delle automobili, sembrano passati un milione di anni. Marco Lodoli ad esempio e per restare all'attualità italiana. O per contiguità geografica penso a Eraldo Affinati e al suo quasi omonimo, non solo per l'onomastica, Edoardo Albinati. Beh, io trovo questi scrittori degli splendidi maestri, non sei d'accordo con me, Beppe?
Eppure eppure... al fondo hai proprio ragione tu: le qualità necessarie al magistero dell'esperienza, diciamo così con una formula vagamente altisonante, non hanno alcuna omogeneità con il talento artistico, e a maggior ragione con la sua espressione. Per riprendere quanto proponi già dall'epigrafe del tuo libro, maestro è infatti "colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa”.
Verrebbe da aggiungere, in un tentativo ironico, ma non troppo, di collocare prossemicamente tale affermazione nello spazio, che maestro è chi si rivolge a un Tu nella convinzione che possa tradursi in un Egli. Meglio ancora: maestro è chi rivolgendosi a un Tu rotolante nello spazio (“like a rolling stone”) per effetto della propria interferenza crea le condizioni gravitazionali affinché Tu possa diventare Egli; Egli sarebbe cioè colui che cessa di rotolare e ritorna alla stabilità domestica. Tanto che potremmo a questo punto anche invertire i termini pronominali, visto che nel gesto del rincasare è presente l'intuizione che Egli fosse, già da sempre, Tu; almeno a un livello narrativo potenziale.
Jodorowsky sintetizza questo aspetto del magistero con il concetto di “io essenziale”. Ciò che noi abbiamo chiamato Egli, in altre parole, non sarebbe altro che l'identità più genuina dell'allievo, implicata al suo interno come vocazione individuale che può manifestarsi solo nel momento in cui prende consapevolezza di sé. Ma ciò può avvenire solo attraverso una sorta di processo di deprogrammazione, di cui tu Beppe parli diffusamente, che potremmo interpretare anche come ripulitura dalle incrostazioni sociologiche e dalle scorie culturali, di cui era inizialmente gravata e dunque anche falsificata l'identità iniziale o presunta. Così da sospettare che l'interlocutore del maestro – il Tu a cui si rivolge - fosse già da subito tale essenza sopita. Un'essenza, se ho ben inteso, che si attualizza solamente nell'interazione umana con il maestro, e non va perciò interpretata come cosa in sé già costituita, ma appunto come racconto che raccontandosi accade.
Bene, se, per approssimazione, mi sono avvicinato allo schema cognitivo della dialettica maestro allievo come da te descritta, provo ad avventurarmi in uno schema speculare che racchiuda quella che si sviluppa tra artista e pubblico. Che io mi sento così di proporre: artista, “vero artista”, è colui che, parlando a un Voi più o meno definito, trasforma il Voi in Loro. Non c'è infatti Tu per l'artista, ma solo una pluralità umana genericamente approcciata come identità culturale e civile di una comunità realizzata su base storica e geografica – ed è molto importante tale aspetto di attualità crono-geografica, specie nell'idea moderna di romanzo – che grazie anche alla relazione con la voce dei propri artisti è in grado di precisarsi e riconoscersi, e cioè ancora una volta di autotrascendersi attraverso il processo della narrazione.
Sì, certo, il personaggio narrativo appare individualizzato - e in effetti lo è, almeno negli esisti più riusciti dell'attività letteraria - ma non sulla base di sue presunte qualità essenziali, quanto nel reagire all'insinuarsi in lui delle voci circostanti, al rifiuto dei valori prevalenti nella collettività o nella famiglia di origine, che avverte come indebiti. Lo schema romanzesco, con una spregiudicata semplificazione, potrebbe essere ricondotto al tentativo del personaggio di sottrarsi alle influenze esterne, che cercano di conformarlo a un modello precostituito e impersonale, spesso anche ingiusto e violento. Potremmo insomma sospettare che la scaturigine romanzesca stia nel mito di Antigone che si oppone a Creonte.
Ma stiamo appunto parlando di opposizione, di un effetto che potremmo definire "di ritorno". E' come se il personaggio risultasse autentico solo nel gesto di rifiutare il falso. Si rifiuta di diventare ciò che non è, ecco. Ma sull'essenza cava della soggettività la narrativa, quanto le arti figurative e cinematografiche, sembrano afasiche, incapaci di pronunciare una parola realmente decisiva. Forse perché l'opposto del falso non coincide necessariamente col vero, e anzi finisce con il mantenere memoria dell'inautenticità d'origine da cui si è contro-definito, come intuì Nietzsche attraverso l'icastica formulazione di "malattia delle catene"; nel moderno linguaggio psicanalitico potremmo forse tradurre con formazione reattiva. Ciò che ci può dunque indicare l'espressione artistica, al suo meglio, è semplicemente che si deve andare avanti, continuare, proseguendo a dire l'indicibile e a mostrare l'invisibile, così come conclude Beckett la sua trilogia. Continuare cioè a confrontarsi con l'invadenza omologanate del noto alla ricerca di qualcosa di sconosciuto e di proprio, di qualcos'altro...
A me sembra così che il nocciolo della relazione tra artista e pubblico stia in questo aggettivo indefinito: altro. Al punto di reificarlo in sostantivo, come fa lo psicanalista Jacques Lacan quando sintetizza la formula di “Grande Altro”. A significare l'apparato di conoscenze, simboli, pregiudizi, timori, interessi economici e politici e sessuali che vanno a definire lo sfondo culturale inconscio di ogni socialità organizzata, ossia lo schema implicito dei suoi poteri. Il vero interlocutore dell'arte - il Creonte a cui si oppone - non sarà allora proprio il potere, inteso come quel Grande Altro che, interferendo subliminalmente con le nostre vite, contribuisce a determinarle?
Arte come interferenza di ritorno al potere simbolico, dunque. Che può essere critica quanto apologetica, naturalmente: l'arte non è necessariamente contro, ma direi piuttosto di contrasto, alla maniera dei reagenti utilizzati nell'analisi di laboratorio, che portano in evidenza e dunque favoriscono la dinamica delle forze in campo. Ciò significa che l'arte, per riprendere un'altra bella immagine dal tuo libro suggerita nell'intervista al filosofo Aldo Gargani, come nell'incontro da tra due onde di frequenza può entrare in fase con il potere, potenziandolo, quanto in una interferenza distruttiva che ne favorisce una diversa ricomposizione. In ogni caso l'arte, che ancora una volta dobbiamo distinguere dal mero esercizio calligrafico, non scorre mai neutrale come un ruscello accanto al grande fiume del potere, tanto da concludere che un gesto artistico realizzato è quello che riesce a rendere l'apparato simbolico del potere, anche solo di un piccolo poco, altro da ciò che è, ovvero a spostarne il limite. Ma per quanto venga di continuo riposizionato, il limite, a questo modo, viene anche confermato.
L'arte è insomma lo strumento che gli uomini si sono dati per rendere altro il Grande Altro, e con ciò garantirne l'esistenza. Mica male, come sfida!
Istituita la nostra modesta proposta ermeneutica, almeno nella sua cornice concettuale, non ci rimane che cogliere alcuni effetti derivati, andando così forse a rischiarare anche la tua originaria e felice intuizione: “quasi mai gli scrittori sono dei maestri”, pronuncia la voce bassa e profonda di Beppe Sebaste dalla casse acustiche della mia autoradio. E ciò dipende probabilmente dal fatto che il risveglio di quell'identità essenziale che un maestro provoca nel momento in cui si rivolge al Tu dell'allievo, consapevole o meno di esserlo, allievo ma anche maestro, è un effetto di rimozione cosciente proprio di quell'apparato simbolico e culturale che l'arte contribuisce a ridefinire: il Grande Altro del potere, di ogni potere, che è all'origine una semplice legislazione del dire e del significare, una macchina mitologica con le pale ancora impastate di sogno e d'argilla.
Se l'artista dunque mette, pone, reintegra e definisce criticamente, in questo simile al vasaio, il maestro spirituale toglie, alleggerisce, smantella come lo scultore. E ciò anche quando formalmente sia impegnato a trasmettere un insegnamento codificato, ossia ad "educare insegnando". La dimensione dell'autentico più volte richiamata nel volume, starebbe dunque nell'autenticità del possibile, inteso come uno spazio vuoto da ricolmare con un'intenzione spogliata da ogni incrostazione spuria.
Vengono alla mente i potentissimi versi contenuti in una poesia di Milo de Angelis, che riferendosi a un gruppo di medici chirurghi incrociati in un corridoio d'ospedale, tra lo scalpicciare degli zoccoli e l'odore penetrante dell'alcol tra le bende, mescolato alle risate e al cazzeggio di chi ancora una volta l'ha fatta franca nella partita con quel diverso Grande Altro che è la morte, conclude con queste disarmate parole: “... se ti togliamo quel che non è tuo \ non ti rimane niente”.
Ecco, il niente, per un artista, è inconcepibile! L'arte rifiuta la morte, intesa come annichilimento, come morte che immortala, bloccandole, le possibilità drammaturgiche di una storia, e afferma la vita come necessità della forma di forgiarsi in altre forme. E ciò anche al prezzo di modellare una materia che in effetti "non è tua", che non sei tu ma il riflesso che il mondo, l'Altro, il differente, ha su di te. Con l'unica eccezione della poesia, non a caso spesso accostata, anche nel tuo bellissimo libro, al magistero spirituale. La fiducia del narratore nell'epos sociale, nelle possibilità espressive e semantiche di una lingua e di un apparato di segni condiviso, lo portano invece al bisogno di uno scambio, anche conflittuale, appunto, come abbiamo visto, con le strutture significanti del potere. Ma mai a mettere in discussione che ci sia un potere – un potere Altro – e che questo Altro abbia una qualche funzione determinante le vite individuali. L'artista crede insomma in una polis, in una civitas e soprattutto in una lex, anche quando apparentemente vi irride posando in una gestualità eccentrica e autoriferita.
Al contrario un maestro esercita il suo magistero più prezioso nel momento in cui ricorda che, se ti togliamo quel che non è tuo, non ti rimane niente. Perché è proprio sulle fondazioni di quel niente che la pratica avviene, e che l'allievo diventa finalmente quello che è.



4 commenti:

  1. ottimo...
    (appena posso e lo desidero posto altre parole)

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  2. grazie... (anche io lo desidero, chiunque tu sia, attendo le tue parole)

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  3. sarà l'ora o il mio basso livello intelettuale ma non sono riuscita a finirlo....

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  4. in quei pesantissimi libri - pesanti in senso proprio, pare che arrivino anche a 6 o 7 chili - di una soporifera disciplina che chiamano semiotica, usano questa espressione: "lettore implicito". mi dispiace, dunque, se tu caro lettore, o lettrice, non sei riuscito ad arrivare fino in fondo. ma forse, proviamo a vederla a questo modo, forse non eri semplicemente il lettore implicito del mio testo; che infatti era indirizzato a Beppe Sebaste. se dunque tu fossi Beppe Sebaste, ecco, sì, allora avrei fallito per davvero! (per il resto c'è mica niente di male, dai: io ad esempio ho capito di non essere il lettore implicito di vittorio feltri, che capisco e disprezzo, e di heidegger che non capisco e continuo a disprezzare, proprio per questo...)

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