lunedì 13 dicembre 2010

Destra e Sinistra, o sul ventre cavo dei gazometri


Destra, sinistra, accidenti... A furia di girarli e rigirarli come una matita in attesa di una buona idea, i concetti geometrico-spaziali sembrano frantumarsi tra le dita, esplosi e decomposti in tante minuscole schegge di legno e grafite. O forse sono i concetti tout court, a rivelarsi inadeguati a illuminare la nuova scena politica. E' come se all'occhio dell'osservatore si presentassero ormai solo immagini decomposte, frante, e il suo compito quello di ricomporle dentro il puzzle di un quadro astratto. Un Lego, meglio, un meccano, dove dagli stessi materiali si può pervenire a infinite forme.
Esperienza che ha nella narrativa, in quanto gesto discrezionale nello stabilire rapporti significativi tra le cose, il suo riferimento più immediato. Non più la Storia, con i suoi legami certi di causa ed effetto, o la scienza politica, ma politica come arte, come costruzione del caso e della sensibilità. E sono allora le storie, a occupare la piazza deserta della polis.
In fondo ciò che si cerca da una buona politica è l'applicazione concreta, all'interno della vita di una comunità più o meno strutturata, di categorie come bello, buono e soprattutto giusto. Nozioni anch'esse sgretolate dal rullo compressore della decostruzione novecentesca. Lasciando al suolo solo macerie, frammenti di un racconto possibile, eventuale o addirittura fantastico, impossibile. Scriveva Lacan: “l'impossibile a volte accade”.
Provo allora a chinarmi sulle mie, di macerie, e a cavarne qualcosa come una minima storia politica, forse un apologo.
Io abito in un quartiere della periferia nord di Milano. Si chiama Bovisa, il mio quartiere. In tempi lontani ha preso il suo nome dall'attività agricola e di allevamento bovino che vi si svolgeva. Una zona poco edificata e molto nebbiosa, qualche prospera cascina, pascoli verdi e saporiti. Poi, nei primi anni del secolo scorso e con più forza nel secondo dopoguerra, Bovisa si è trasformata in area artigianale e di piccola e media industria; con una forte prevalenza del settore chimico. Ha dunque profondamente risentito, a partire dai primi anni settanta, della crisi industriale ed energetica, che ha portato alla ristrutturazione e alla Milano da bere degli anni ottanta.
Un quartiere bovino senza più buoi, ecco cosa rimaneva della Bovisa. Ma anche senza più fabbriche, e con laboratori artigianali che preferivano ingrandirsi nella più accogliente Brianza. Lo scheletro scintillante e vuoto dell'impianto di refrigerazione dei gazometri è forse l'emblema di tutto ciò. Come l'enorme colonna vertebrale di un Tirannossaurus rex, a ricordarci che è esistito un tempo diverso e remoto. Non necessariamente migliore.
Infine l'arrivo del Politecnico, una scommessa urbanistica coraggiosa e dall'esito incerto, con i muscolosi dipartimenti di ingegneria, architettura e design, che istallandosi nei vecchi opifici abbandonati hanno saputo risollevare la schiena del vecchio sauro, riconnotando il quartiere in funzione studentesca e di piccola borghesia; una zona dove fare buoni affari, per gli immobiliaristi che vi scorrazzano con scarpe lustre dalla punta rettangolare. C'è chi addirittura parla di futura silicon valley milanese.
Non so se cedendo alla lusinga di quelle scarpe ortogonali e imbarazzanti o a una periferia ruvida e confusa, che non ha ancora deciso cosa fare\diventare da grande, eccomi dunque a Bovisa, pure io. Con il mio appartamento da ricco e il mio portafoglio cronicamente vuoto, tale quale al ventre cavo dei gazometri.
Per mangiare, a mezzogiorno, funziona così. Più ti avvicini a uno dei numerosi edifici dell'università, più aumenta, proporzionalmente, anche l'incidenza di piccoli bar, trattorie, tavole calde dove pranzare con pochi spiccioli. Il mio preferito si chiama Speranza, chiaramente per il nome. Ma anche per il magnifico minestrone, nella doppia versione con o senza riso, cucinato dall'anziana madre di Paolino, il titolare del locale. Primo, secondo e contorno fanno sette euro e cinquanta. Che diventano nove se ordini anche una caraffetta di vino rosso. Io per me lo prendo, voi fate come vi pare.
Un altro posto dove vado spesso è la Montagnetta bis, da cui si deduce una primogenitura disseminata da qualche altra parte, sorta di archetipo platonico a cui tutte le Montagnette seguenti possano ispirarsi. Agli originali io ho comunque sempre preferito le copie, come per i Rolex o gli Adriani Celentani, di cui ogni bar Sport contempla una versione da esportare ai concorsi estivi per imitatori. Insomma, vado alla Montagnetta bis. Dove una volta ho mangiato: un piatto di spaghetti alle cozze seguito da pesce spada alla piastra con contorno di patate al forno al rosmarino; ma anche una porzione di spinaci saltati con aglio, olio e peperoncino, quale doppio contorno a cui avevo “diritto”; il tutto condito dal solito quartino di vino rosso; caffè; correzione di grappa. Quando sono andato alla cassa per pagare, sul mio scontrino ci stava scritto nell'angolino in basso a destra: otto euro.
Con otto euro, giuro, se io faccio la spesa riesco a comprarmi al massimo quattro budini di soya all'aroma di vaniglia; forse perché vado in posti dove vendono quei cibi da stronzi tipo budino di soya alla vaniglia, per ipocondriaci alimentari e gente priva di immaginazione gastronomica come me. In ogni caso: pesce spada, cozze, otto euro... Mica l'ho ancora capito come fanno.
Per penetrare dentro i segreti della loro economia domestica, ho così iniziato a fargli qualche domanda, dilazionata nel tempo e quando non stanno sparecchiando o servendo ai tavoli dove si accalcano gli studenti del Politecnico. Non che siamo proprio amici ma si è creato un buon rapporto, tra me e quelli della Montagnetta (la Montagnetta bis, sia chiaro!).
Sono quasi tutti egiziani e imparentati tra di loro, i montanardi. Il più anziano, come sempre succede, è arrivato per primo una quindicina di anni fa, e risalendo la scala dei lavori più umili deve essere riuscito ad aprire la Montagnetta; parlo di quella originale, l'archetipo gastronomico. Quindi sono arrivati tutti gli altri, che con il parente iniziale – “l'archetipo antropologico”, diciamo così per estensione – condividono poche certezze. La prima è il tifo incondizionato per la squadra del Milan. Il secondo, la passione politica per Berlusconi. E pur intuendo un nesso tra le due cose, non ho ancora capito quale viene prima e quale dopo, la causa e l'effetto. Per la costruzione della mia storia bastano però questi soli dettagli, di cui prendo atto e me li segno da qualche parte: otto euro; immigrati egiziani; Berlusconi; Milan. Prima o poi, vedrete, ci torneranno utili.
Quindi faccio un'ellisse spaziale e temporale, raggiungendo un altro locale presente nella zona. Si chiama Scighera, equivalente milanese per nebbia, ed è un circolo Arci piuttosto noto e attivo da queste parti, distinguendosi nell'organizzazione di numerose e belle iniziative serali. Si tratta perlopiù di concerti, ma anche teatro, conferenze, presentazioni letterarie o serate a tema di gastronomia regionale; oltre che il consueto menu diurno per studenti e lavoratori.
Una volta ci sono andato anche io, per pranzare alla Scighera. Ma osservando la lavagnetta in cui è esposta la lista dei piatti del giorno con i relativi costi, mi sono accorto che se mi fossi fermato a mangiare non me la sarei cavata con meno di quindici euro; anche più di venti, per un trancio di pesce spada e tutto il ben di dio che ti danno gli egiziani. Così sono tornato indietro e sono andato da Montagnetta bis, o da Speranza, ora non ricordo.
Con l'andar dei giorni si è però creato un rapporto di cordialità e simpatia anche con il personale della Scighera, che immagino ovviamente di sinistra; insomma, non so per quale squadra tifino, ma di certo non votano Berlusconi. Dovendo organizzare una serie di seminari sullo studio comparato delle principali religioni e tradizioni spirituali – sarebbe forse più giusto parlare di “fenomenologia del sacro”, ma non facciamola troppo lunga – ed essendo venuta meno la sala in cui il filosofo Gianfranco Bertagni avrebbe dovuto tenere le lezioni, mi è venuto in mente di domandare a quello che a me appariva come il capo della baracca se mi affittava, per un paio di domeniche o poco più, l'ampia sala che si allunga dietro una piccola porta alla Scighera.
La sua risposta è stata: “Da noi, religioni... Stai scherzando, vero?”
“In che senso?”, ribatto io come quando tutti ridono dopo una barzelletta, di cui tu non hai capito il finale.
“Guarda, se vuoi posso darti una mano a trovare un locale dove tenere i tuoi corsi”, risponde questo uomo alto e con la barba, gli occhi rapidi e svegli dietro la montatura spessa degli occhiali; un uomo o forse un ragazzo che come me dimostra probabilmente più anni di quelli che ha; una quarantina forse appena scavallata, così a naso. “Ecco, prova al circolino nella parallela a via Candiani”, continua lui, “forse loro possono affittarti la sala. Ma noi, religioni, proprio non se ne parla. Mi dispiace”.
E così, negli appunti per la mia storia, io mi segno: circolo Arci; sinistra; religioni; “proprio non se ne parla”. Ma anche: primo, secondo, contorno: euro sedici. Il doppio esatto della Montagnetta bis. Ma in fondo anche “mi dispiace”, perché era un uomo o forse un ragazzo gentile.
Provando ora a tirare qualche somma (narrativa) da questi eventi completamente slegati tra loro, con una certa sorpresa mi accorgo che un soggetto, per quanto ricreativo e non direttamente politico, ma che comunque si richiama ai valori e alla storia della sinistra, si rivolge a una clientela che non è ciò che un tempo si sarebbe chiamata “base popolare”. Io, ad esempio, che pure possiedo una casa da ricco e ingurgito cibi da stronzi come il budino di soya alla vaniglia, non posso permettermi di pranzare alla Scighera, che ha prezzi doppi a quelli che si possono trovare in quasi tutte le trattorie che trapuntano il quartiere.
Eppure il circolo Arci della Scighera è effettivamente di sinistra, e me ne accorgo osservando con quale impeto viene difeso un tema che, fino a pochi attimi prima, io avrei giudicato anacronistico e del tutto estraneo alla scena politica odierna, quale è appunto l'idiosincrasia curiale che deriva da una convinzione di assoluta laicità (ma sarebbe forse più giusto dire "casualità") della condizione umana; che, tra parentesi, è cosa diversa dall'indipendenza religiosa a cui sono tenute le istituzioni democratiche. Una posizione che nella storia dei movimenti di ispirazione anarchica o marxista ha portato a una viscerale idiosincrasia per qualsiasi riflessione si insinui sopra a tale apodittica certezza: oppio di popoli, le religioni. Punto e a capo e non se ne parli più.
Ma se seguiamo il filo logico dei pensieri, è ugualmente doveroso riconoscere che anche gli egiziani della Montagnetta bis sono effettivamente di destra – votano a destra, hanno sogni e aspirazioni di destra, alle pareti stanno aggrappati televisori che inondano la sala di programmi e telegiornali di destra – nonostante i prezzi popolari della loro cucina, e le pezze al culo con cui probabilmente sono arrivati alla rincorsa della loro legittima fettina di modernità.
Ed è così che la nostra storia è tenuta a una svolta, un'agnizione. Non è vero, non lo è più, almeno, che i termini destra e sinistra qualificano dei comportamenti, una prassi non necessariamente morale ma comunque effettiva – che ha ricadute in ciò che chiamiamo realtà – quanto a me pare un'estetica, uno stile. Esiste cioè qualcosa come una coniugazione solo apparentemente contrapposta del gusto, o se vogliamo precisare psicologicamente il concetto io direi che si tratta del "principio di piacere". Tanto che questa cosa, questo piacere, può essere di destra in base a un semplice accordo, perlopiù implicito, attorno a una figurazione aggiornata del “godimento”, come direbbe ancora Lacan. O come sua alternativa, un godimento e un piacere formalmente di sinistra (ma visto che la sinistra possiede questa tendenza a dividersi e disperdersi, ne ricaviamo più godimenti, più tribù del gusto).
Potremmo perfino definirla una “moda”. La moda di sinistra è incompatibile con l'estetica religiosa, gli incensi, l'iconografia storica del sacro per il semplice fatto che siamo abituati a vederci allo specchio in questo modo, ereditato dalle fotografie seppiate di vecchi anarchici mangiapreti. Stiamo insomma facendo una citazione, come Giorgio Armani quando citava il taglio delle giacche dei gangster degli anni venti. Gli eventuali contenuti religiosi o spirituali prescindono totalmente da questo giudizio di superficie, ma non necessariamente superficiale. Essere al mondo, nel mondo, significa infatti e prima di tutto assumere una forma, una postura estetica. E i termini destra e sinistra fotografano ormai unicamente tale forma.
E' come se la trivella dell'esperienza si fosse arrestata alla scorza degli eventi, che vengono riconfigurati nel linguaggio non per i loro effetti, la loro presa sul reale e sulla storia, ma incisi sopra la tavolozza di una meta-storia che coincide perfettamente con i codici della narrazione: una sorta di tautologia simbolica, di ornamento lessicale. Se togliamo così dall'orizzonte della sinistra radicale i suoi oggetti concreti di rifermento – il popolo, la rivoluzione proletaria e la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio – otteniamo un'impressionante implosione semantica, che viene colmata attraverso l'estetizzazione della propria vicenda politica. Non c'è nemmeno più bisogno di un Andy Warhol, per rendere del tutto afasica l'icona di Che Guevara che occhieggia dalla t-shirt stropicciata in un centro sociale. Pura moda.
Ma la stessa cosa, certamente, vale anche per la destra. Attraverso quella singolare novità testuale costituita dal berlusconismo, la destra si è trasformata in una schiumetta a pelo d'acqua allettante la sensibilità con i soli codici del piacere sensoriale: il sesso, il cibo, l'avvenenza esteriore e di status. E ovviamente e ancora la moda, di cui ha spostato i codici espressivi fatti di vincoli non causali, azzeramento delle gerarchie (cronologiche, significative, di valore) e centralità mistica del corpo, mentre la ritualità con cui si manifesta è al netto di una mitologia sottostante. Richiamandosi infine a una tradizione, il liberalismo, del tutto reinventata nella sovrapposizione di riferimenti politici del tutto incongrui.
Ma cos'è una tradizione che ha interamente perso ogni aderenza con la realtà vissuta che l'ha originata, se non folclore? Folclore di destra e folclore di sinistra, naturalmente. Comunque folclore.
Eppure, oltre al folclore e ai codici della moda a cui tacitamente si richiama, altri termini potremmo scovare dentro i nostri vocabolari quotidiani sempre più sfiniti. Termini antitetici, che dunque implicano il principio di responsabilità e una libera scelta, quali buono o cattivo, giusto o sbagliato, bello o brutto, vero o falso... Li abbiamo già incontrati, sì, nel nostro quasi racconto. Sembravano inservibili reliquie da un altro evo linguistico, e invece si dimostrano più che mai necessari. Perché è sopra a tali termini che diventa ora importante misurare le ricadute dei comportamenti individuali, l'aspirazione a un linguaggio che faccia nuovamente perno sulle cose. Le appartenenze politiche sono ormai dei semplici guardaroba, di nuovo come lo scheletro cavo dei gazometri: simulacro di ferro e bulloni, tralicci sospesi sul nulla che vedo sfilare all'orizzonte mentre rientro al mio appartamento da ricco alla Bovisa, con le tasche vuote.
Si può essere buoni e di destra, penso allora mentre estraggo dal frigor un budino di soya alla vaniglia, cattivi e di sinistra, giusti o veri o belli e di centro... E' solo nel sistema della moda che esiste questa ossessione del fare pendant, gli accostamenti suggestivi. Nell'etica individuale e politica contano molto più le ricadute delle azioni, non la coerenza espressiva ma quella tra propositi e risultati, tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, come suggeriva qualcuno.
Quanto a destra e sinistra, ognuno si tenga pure la moda e i gusti che preferisce. Io, per dire, io preferisco il minestrone che prepara la vecchia mamma di Paolino, quando plana fumante sul mio tavolo apparecchiato alla Speranza.

(ps - Ah, per la cronaca: i seminari sulle tradizioni spirituali sono stati organizzati per davvero. Chi fosse interessato può cliccare qui per informazioni, o scrivere o telefonare direttamente a me per adesioni o dubbi. Al link appena lasciato - di nuovo qui - trovate in ogni caso tutti gli estremi.)

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