sabato 31 agosto 2024

Poi non lamentiamoci...

In una sorta di proto social creato da Alice oltre vent'anni fa, mi iscrissi con tre diversi nomignoli, e dopo averli fatti entrare in scena con tempi leggermente dilazionati, li feci litigare violentemente tra loro. Nella mia intenzione era un innocuo esperimento sociale, per quanto in abiti carnevaleschi e un po' bricconi. Bastò agganciare il tema del giorno, qualche convenevolo per prendere confidenza col gruppo, quindi ognuno cominciò a esprimere opinioni diverse, inconciliabili e perlopiù frutto dei più vieti stereotipi, tipo quelle barzellette dove c'è un italiano, un francese e un inglese. Gli sparuti membri della comunità – eravamo talmente pochi che, di fatto, si trattava di un forum – prendevano parte ora per uno ora per l'altro, a volte cercavano di placare gli animi oppure contribuivano a montare la tigna. In quest'ultimo caso, la consonanza con il personaggio sostenuto era emotiva, e ovviamente illusoria quanto l'astio verso gli altri due. Intanto il dibattito trascendeva, i messaggi si facevano digrignanti e minacciosi, guelfi contro ghibellini, la Curva Sud intona cori sguaiati contro la Nord (che non è da meno), il tutto a partire da un lievito di pura fiction: cuocendo aveva fatto gonfiare la torta, rendendola avvelenata. Ricordo che a uno dei tre affibbiai un tormentone, "poi non lamentiamoci se ci sbattono fuori dall’Europa" ripeteva a pappagallo, uno spauracchio politico ricalcato dai talk show del periodo. Qualsiasi cosa dicessero gli altri, e cioè sempre io, metti si stesse parlando di come erano belli i tempi in cui il nonno ti accompagnava al circo e all'uscita prendeva lo zucchero filato, lui scattava, metodico, implacabile: "Lo zucchero filato, bravi bravi... magari pure la foto col leoncino… poi non lamentiamoci se ci sbattono fuori dall’Europa!"

È bello

È bello conoscere persone sul web, scoprire che amiamo gli stessi autori – Martin Amis, Cechov, Hebe Uhart; con quest’ultima si fa un po' più di fatica a trovare riscontro, ma si può sempre bluffare – o gli stessi film, serie tivù. Per non dire di chi pubblica il collegamento YouTube a Perfect Day: mica puoi essere così sparagnino da non buttare lì un like a Lou Reed? È come quando, negli anni Settanta, viaggiavi sul sedile posteriore dell’auto con mamma e papà, e oltrepassata Napoli venivi superato (con una roulotte al seguito non accadeva mai il contrario, per quanto ho sempre considerato un insulto mettere la zavorra a una 128 Rally, rossa per giunta) superato da un’automobile che aveva la targa della tua stessa provincia; noi valtellinesi già eravamo pochi, dopo Napoli una vera rarità. I due conducenti cominciavano allora a suonare il clacson, io e mamma ci sbracciavamo, CIAO CIAO! e gli altri rispondevano con uguali ampi gesti della mano, prima di scomparire all’orizzonte seguendo la linea tratteggiata dell’autostrada. È bello credere, per un istante, di essere amici per davvero, prima di scomparire seguendo una linea invisibile ugualmente tratteggiata: i cuoricini si trasformano in like, poi si diradano anche quelli, mentre qualcuno, zitto zitto, ti ha già stralciato dai contatti; o magari sei tu a stufarti dell’immagine del loro cucciolo di Labrador, le orecchie aggrottate, la prima visita dal veterinario: anche basta; l'occhio cade poi su certi selfie che sembrano fatti apposta per sottolineare la piega di demarcazione tra i seni, due o tre bottoncini della camicetta lasciati schiusi con finta casualità. Per tanto così, pensi, vado in soffitta a recuperare le vecchie copie di Playboy, con Minnie Minoprio e Sabina Ciuffini. In ogni caso, il sotto testo di quei saluti era: il primo che rientra nella nostra Itaca di pizzoccheri e banche, saluta Sondrio!

venerdì 30 agosto 2024

Futuro

Nell'estate del 1974 andammo in vacanza a Rossano Calabro. Durante il viaggio, la radiolina appesa allo specchietto retrovisore oscillava come gli orsetti con la blusa delle squadre di calcio, il padre del mio amico Stefano, sulla sua Giulia coupé, ne aveva uno con la maglia del Milan. Al suono badavo poco, si trattava più che altro di telegiornali, avvisi sulla viabilità, da Gennaro a Sabrina Anima mia co’ nu vaso grande; seguivano E tu di Claudio Baglioni e Waterloo degli Abba, altre canzoni non ne ricordo; ma di notte dormivo allungato sul sedile posteriore della 128 Rally, non posso metterci la mano sul fuoco. Prima di chiudere gli occhi, osservavo il cielo dal lunotto nella speranza di scorgere un UFO; era stato sempre Stefano a dirmi che non siamo soli nell'universo, e da figlio unico l'idea di una compagnia galattica non mi dispiaceva.

Avevamo affittato l'appartamento di un parrucchiere molto grasso e molto bravo, ogni volta che mia mamma andava da lui tornava con un taglio di capelli che ricordava le annunciatrici della televisione, l'unica differenza è che la mamma non era in bianco e nero. Il parrucchiere grasso era nato a Rossano, una buona ragione per acquistare un appartamento proprio lì, se non fosse che ci andava solamente nel mese di agosto, il resto del tempo lo passava a Sondrio dove aveva aperto un salone pour dames, scritto in francese suonava meglio. Così, tra un colpo di forbici e uno di phon, con la mamma si accordarono per il mese di luglio; un bell'appartamento luminoso appena costruito, non mancava nulla tranne la televisione. Peccato, perché in quel periodo davano le repliche dell'Odissea che non avevo ancora visto.

Tutte le domeniche sera andavamo a mangiare nello stesso ristorante, si chiamava Scarface, come il film con Al Pacino che però si pronuncia scarfeis, invece Scarface si pronuncia scarface, uguale uguale. Io ordinavo mozzarella con prosciutto crudo e pomodori. Avevo capito che era un piatto in pronta consegna, le cozze alla tarantina di papà arrivavano dopo minimo mezz'ora, e appena terminato mi mettevo davanti al televisore sempre acceso nel locale, dove la domenica (per questo andavamo di domenica) veniva trasmessa una puntata dello sceneggiato televisivo con Bekim Fehmiu, nato per essere un giorno Ulisse come Maradona per giocare a calcio, e la bellissima Irene Papas ad attenderlo tessendo e disfacendo la tela, anticipata da un'annunciatrice che forse andava dallo stesso parrucchiere della mamma.

Ecco, volevo dire solo questa cosa qui. L'Odissea la conoscete, non ne riassumo la trama, e il film con Al Pacino, nel ruolo di Tony Montana, sarebbe stato girato da Brian De Palma otto anni dopo. Volevo dire che tutti quei lunedì a Rossano Calabro, a cui sarebbe seguito un martedì, un mercoledì, poi giovedì, venerdì e soprattutto un sabato, tutti quei giorni in cui dalla radiolina a transistor continuavano a uscire gli acuti dei Cugini di Campagna – ogni tanto anche la voce striata di Baglioni e i coretti degli Abba, per essere onesti –, i minuti perfino in attesa della fatidica domenica sera, ma c'erano ancora da sbrigare le formalità alimentari da Scarface, e subito dopo un cameriere che, nella memoria sbiadita, mi sembra corrispondere all'idea platonica di cameriere (giacca e camicia bianche, farfallino nero, capelli e baffetti e scarpe dello stesso colore), appena vedeva scintillare la ceramica del piatto che avevo davanti, ripulita dalla voracità dei miei otto anni e tre mesi, accorreva per spostare la pesante seggiola in legno e posizionarla davanti a un piccolo televisore Grundig, così potevo vedere meglio la nuova puntata dell'Odissea, il sorbetto di fragola con la panna lo mangiavo appoggiando la coppa di vetro sulle ginocchia, tutto questo lungo rituale di tempo è quanto di più vicino al concetto di futuro che io riesca a formulare, e a desiderare. Infine raggiungere con un sentimento che non saprei chiamare in altro modo che felicità.

Adesso vado su Netflix e posso scegliere di vedere ciò che voglio. Sì, bello, ma è come se mancasse un pezzo, l'orsetto del padre di Stefano denudato della maglia del Milan. E temo che quel pezzo si chiami proprio futuro. Non ho più un'Itaca a cui tornare la domenica successiva, né un'annunciatrice, con i capelli come la mamma, che ne certifichi l'esistenza. Quanto agli UFO, li sto ancora aspettando.

giovedì 29 agosto 2024

Così eravamo noi, così eravamo noi...

 

Una mattina, mi sono svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao… Mi piace cominciare da qui, la mia idea di identità nazionale parte da questa canzone, non da mille giubbe rosse salpate da Quarto, alla volta di Marsala, su barconi simili a quelli che ora arrancano dalla Libia; nemmeno i gabbiani li seguono più, sapendo non esserci avanzi per loro. Ancora prima vennero i canti del lavoro, in altri si intonava la grama vita di montagna o il fervore politico nelle sue diverse sensibilità: Faccetta nera, Figli dell'officina, L'InternazionaleAddio Lugano bella "o dolce terra pia, cacciati senza colpa gli anarchici van via".

La canzone napoletana era popolare solo per finta — i testi scritti dai migliori poeti della città e musicati da compositori che avevano frequentato il Conservatorio di San Pietro a Majella, ma il popolo si riconosceva comunque —, per arrivare con un arrischiato balzo al dopoguerra, dove le canzoni contribuiscono a fondare un nuovo senso di individualità: Nel blu dipinto di blu e Io che amo solo te e Insieme a te non ci sto più, Azzurro; o, a un livello più spensierato, Sapore di sale, Il ballo del mattone, Abbronzatissima, Tintarella di luna. Più tardi gli anni della contestazione politica, dove il ritratto canoro torna a essere collettivo; Contessa di Paolo Pietrangeli quale equivalente italiano, più incazzato ma meno ispirato, di Blowin' In The Wind, i Rockes si guardano allo specchio chiedendosi: ma che colpa abbiamo noi?

Altre foto di classe in musica: Piccola città di Guccini – “vecchie suore nere che con fede \ in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione” – o la borghesia odiata ma in fondo rimpianta da Claudio Lolli, il liceo Giulio Cesare cantato da Venditti, i cieli sempre più blu di Rino Gaetano, dove c’è “chi vive in baracca, chi suda il salario, chi ama l'amore e i sogni di gloria”. Intanto, De André comincia a comporre un suo diorama poetico quasi avulso, gli italiani che acquistavano il frigorifero a rate non entravano nella città vecchia. Fino ad arrivare a Vasco, De Gregori, Battiato, Dalla, Baglioni con quella sua maglietta fina da cui si immaginava tutto. Ma nei juke-box continuava a tenere banco Tu di Umberto Tozzi, "dimmi che non sei tu un miraggio ma sei tu, tabadam tabadam tabadam."

Alla musica popolare non sono richiesti i virtuosismi della musica colta, basta che abbia una melodia gradevole su cui innestare parole che diano riflesso a un preciso tempo storico, e in particolare a una generazione. Se penso a quella di mio padre vedo i ragazzi scimmia del jazz della canzone di Paolo Conte (“così eravamo noi, così eravamo noi”), la Genova con il suo mare scuro che si muove anche di notte, a un tempo richiama e respinge, rende le facce un po' così, o ancora il naso triste come una salita di Bartali, i suoi occhi allegri da italiano in gita vengono attesi seduti in cima a un paracarro, “tra una moto e l'altra c'è un silenzio che descriverti non saprei…”

Paolo Conte è il cantore della provincia italiana che si fa mondo, mentre le grandi città sono già sotto l'ipoteca di ciò che Pasolini chiamerà mutazione antropologica; a parte i drop-out felicemente tratteggiati da Jannacci (Giovanni telegrafista, il palo della banda dell'ortica, Mario) si inizia, nei testi di Gaber e Buscaglione, a intravedere quella nuova umanità colonizzata dall’immaginario vagamente malavitoso delle pellicole noir, Hollywood già dettava la linea; troppo nostrano il nome Cerutti Gino, per gli amici del bar del Giambellino molto meglio chiamarlo Drago, “dicevan che era un mago”. Ancora più esplicito Carosone: “tu vo' fa' l'americano, ma se bevi, whisky and soda, po' te siente 'e disturbà.”

Ci sono voluti decenni per accorgermi che le canzoni a cui appartengo, prima ancora di appartenermi, non coincidono con la musica allora ascoltata; per lo più proveniva da Inghilterra e Stati Uniti, Talking Heads, Bruce Springsteen, Genesis, roba così. Se dovessi scegliere due canzoni emblema di ciò che siamo stati come cuccioli in un'epoca di soglia, in cui la società affluente ancora pompava latte e Nesquik nei nostri biberon, direi senz'altro Sabato italiano di Sergio Caputo, ma soprattutto Gli anni degli 883. Quando, da Sondrio, mi trasferii a Pavia nel 1986 per iniziare gli studi universitari, mi capitava spesso di incrociare Max Pezzali al Celebrità, una discoteca citata anche in una sua canzone poco memorabile, La regina del Celebrità. Ma a riascoltarla adesso, Gli anni davvero ti sfonda:

Gli anni d'oro del grande Real

Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph

Gli anni delle immense compagnie

Gli anni in motorino, sempre in due

Gli anni di "Che belli erano i film"

Gli anni dei Roy Roger's come jeans

Gli anni di "Qualsiasi cosa fai"

Gli anni del "Tranquillo, siam qui noi, siamo qui noi.

Niente di cui essere particolarmente orgogliosi, intendiamoci. Solo nostalgia. Come per i ragazzi scimmia del Jazz di Paolo Conte, così eravamo noi, così eravamo noi. Ci potevi trovare tutti i giovedì sera al bancone del Celebrità (al mercoledì si andava al Mulino della Frega) con un Gin Fizz in una mano e nell’altra una Merit. Che poi non sono nemmeno sicuro si trattasse di Max Pezzali, di certo gli somigliava parecchio. Un ventenne come me, ovviamente non era ancora famoso e con tutti i suoi capelli castani in testa, ci siamo sfiorati decine di volte a bordo dei riquadri stroboscopici della pista, ma mai rivolti la parola; i pavesi non legavano volentieri con gli studenti, e viceversa. Eravamo entrambi saturi di film che ci sembravano tutti belli, telefilm, timidezze con le ragazze mascherate da marchi di abbigliamento, su cui spiccavano le tasche a cerniera dei Roy Roger's come jeans, circondati da un muro fitto di coetanei con la stessa identica divisa d'ordinanza. Che metti caso qualcuno ti urtava mentre stavi ballando, tranquillo, siam qui noi. Siamo qui noi.

mercoledì 28 agosto 2024

Quasi tutti

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. È da anni che mi risuona questa frase – il vuoto lasciato dall’uomo è grande, a noi rimane lo scrittore. L'abilità di sintesi ne conferma la maestria, basterebbe il commiato: è difficile ottenere una resa estetica migliore, il botto finale dei fuochi d’artificio che lascia i bimbi con la bocca spalancata, o il coniglio bianco nel preciso momento in cui esce dal cilindro. Ma quando c’è un mago abbiamo imparato esserci anche un trucco. Forse l’inghippo sta nel doppio complemento: tutti. Come si fa a perdonare tutti, tutti tutti dico, ci sarà pure qualcuno che te l’ha fatta grossa, e non riesci a mandare giù?

La storia linguistica del termine sembra confermare i sospetti, accoppiando la particella intensiva per con il verbo donare, qui sostantivizzato. E se qualcuno non provasse interesse al mio dono, mi chiedo, come quando regaliamo una pipa a chi ha smesso di fumare? C’è inoltre una disposizione asimmetrica nel perdono, concessiva – un SUV ti tampona, tu scendi e rivolto al conducente: “Oh tapino, va’ va’… ti perdono!” Se alla guida trovi Ibrahimovic, due schiaffoni non te li leva nessuno.

L’asimmetria viene ribaltata di prospettiva nella domanda di perdono: chi lo richiede (una richiesta che spesso prende il nome di supplica) viene immaginato a un livello più basso, siamo totalmente ipotecati dal dono che l’altro ha da offrirci – se vuole sarà lui, o lei, ad alzare il pollice alla maniera degli imperatori romani; la richiesta è arrischiata, il dito potrebbe anche volgere verso il basso. Non è questo il caso di Pavese, lo scrittore di Santo Stefano Belbo offre e, a un tempo, si dispone a ricevere il suo perdono già dall’altrove dei morti, dove non è presente alcuna geometria spaziale: si è finalmente fatti a immagine e somiglianza del Padre.

Eppure, anche il Dio di Abramo, quando questi prova contrattare il numero di giusti presenti nella città di Sodoma – si inizia con cinquanta, poi si scende a quarantacinque, quaranta, trenta, venti… – alla fine si ferma a dieci, dieci giusti. Altrimenti spacco tutto, come in effetti poi fa. Il suo non è dunque un perdono incondizionato, non facciamoci fregare dal titolo di un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill: Dio perdona, io no. Dio perdona quasi tutti, non tutti. E così qualche sassolino dalla scarpa possiamo levarcelo pure noi.

Letteratura selvatica

In un testo di Tullio De Mauro, ne ho purtroppo scordato i riferimenti, veniva suggerito che fossero le persone meno colte (lui le chiama "sub parlanti") a fare un maggior uso figurale della lingua, e ciò per via del fatto che non dispongono dell'esattezza denotativa dei linguaggi tecnici. Connotano così i loro discorsi attraverso metafore, metonimie, sineddochi e insomma tutto l'arsenale retorico con cui i letterati plasmano le storie, allo stesso modo di bambini che erigono castelli di sabbia in riva al mare. Alla fine ti dicono: è mio. E hanno ragione ma anche torto. Perché se le mani erano le loro, il mare con cui impastare la sabbia è di tutti.

Come il mare, la letteratura è un'esperienza che non si arresta agli angusti confini della pagina, dilaga nel parlare comune, monta in ondate di insulti e schiuma di bestemmie, scroscia tra i calici del Bar Piero, zampilla tra una sforbiciata e l'altra di Gino, il barbiere che ha ancora il cavalluccio per i più piccoli, e nei proverbi di anziane zie che ora hanno finalmente guadagnato lo status di nubili, se non di single — mai più zitelle.

Di certo si è guadagnato in correttezza politica, ma a questo modo si è forse perso qualcosa in espressività: il linguaggio si fa asettico, da protocollo anagrafico, oppure anglofono e pretenzioso, facendo dell'autonomia affettiva una virtù gelidamente referenziale, in sostituzione della malandrina ironia contenuta in un'antifrasi letteraria. Zitella deriva infatti da zitta, in siciliano ragazzina, dove il senso è qui chiaramente ribaltato.

Nel leggere De Mauro, ricordo di aver pensato: oh cazzo, ma allora sono un sub parlante, non riesco a esprimere un concetto se non menando il can per l'aia (metafora). Ma poi mi resi conto di essere in buona compagnia. Muhammad Ali, ad esempio, che da studente aveva livelli di rendimento scolastici molto al di sotto della media, prima dell'incontro del 1974 in cui sconfisse George Foreman a Kinshasa, improvvisò con i giornalisti un discorso di cui riporto uno stralcio. Io lo considero a tutti gli effetti letteratura, letteratura selvatica sfuggita allo zoo editoriale in cui si vorrebbe contenerla, e anche di buon livello:

"Ho lottato con un alligatore, ho lottato con una balena, ho ammanettato il lampo, ho messo il tuono in prigione! Solo la settimana scorsa ho ucciso una roccia, ferito una pietra, ospedalizzato un mattone! Sono così cattivo che faccio ammalare la medicina! Sono veloce! La scorsa notte ho spento la luce nella mia camera da letto, ho colpito l’interruttore e sono stato a letto prima che la stanza fosse buia..." 

Muhammad Ali

martedì 27 agosto 2024

Forse dovrei farmi vedere da qualcuno...

Ho provato grande tenerezza per quanto ha combinato Antonello Venditti nei giorni scorsi. Durante un concerto a Barletta, senza rendersi conto ha offeso una ragazza con gravi problemi di disabilità. La ragione, ammesso che così possa essere chiamata, è che attraverso la confusa emissione di suoni dalla bocca (forse a testimonianza del piacere di essere lì) ne disturbava il monologo tra una canzone e l'altra. Qualcuno tra il pubblico gli ha fatto notare che era una "ragazza speciale". "E ho capito" ha ribattuto non avendo ancora compreso, "na ragazza speciale che però ha da 'mparà l'educazione."

Ovviamente si è trattato di una grave gaffe, di cui il cantante romano si è più volte scusato con imbarazzo, mortificazione che mi è apparsa sincera. Questo suo disagio corrisponde a una condizione diffusa: noi dell'altro sappiamo sempre meno (la ragazza disabile si trovava assiepata ai piedi del palco, confusa tra altre centinaia di ragazzi, le luci di scena tutte rivolte sull'artista), mentre le interazioni tra persone si fanno mediate e virtuali. Venditti ha così interpretato la situazione secondo parametri di pura fiction, legati a un copione narrativo ricavato da sue precedenti esperienze, non a ciò che stava effettivamente accadendo.

Il web rappresenta il correlativo dell'episodio in scala aumentata, culmine di un processo di smaterializzazione cominciato molto prima: le guerre non più combattute tra corpi – Ettore e Achille che si affrontano nella polvere davanti alle alte mura di Troia –, sostituiti da armi a lunga gittata, droni si insinuano e deflagrano nella vita reale. Ma in fondo, già l'utilizzo dell'automobile rappresenta un punto di discrimine tra prima e poi – come non ricordare l'episodio contenuto nei Mostri di Dino Risi, con Gassman, cittadino integerrimo, che appena sale alle guida della sua Fiat 600 si trasforma in un pericoloso pirata della strada. Ed eravamo nel 1963, Venditti frequentava il primo anno di ginnasio al Giulio Cesare.

La progressiva opacità degli interlocutori può essere superata attraverso una restituzione immaginaria e benevola, per evitare di essere perennemente incazzati. Potremmo, ad esempio, ipotizzare che il proliferare di odiatori seriali sia costituito da disabili, come nel caso del concerto. Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno. Oppure sospendere il giudizio, in una sorta di epochè postmoderna: io non lo so mica perché oggi mi sembrate strani, e a dirla tutta pure io non mi sento tanto a posto. Quelle orecchie pelose che mi stanno crescendo... gli zoccoli... la proboscide...

Forse dovrei farmi vedere da qualcuno, ma da uno bravo!

domenica 25 agosto 2024

Amici del popolo israeliano, o sulla mania delle liste

Da qualche giorno sta girando sul web una sottoscrizione di amicizia verso il popolo di Israele. Pare che rappresenti la risposta a una sottoscrizione di segno uguale e contrario da parte di Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, subito accolta dal Nuovo Partito Comunista Italiano. Il fervido produttore di omelette e complotti politici, afferma la presenza in Italia di società e agenti sionisti – cosa che, per essere onesti, non possiamo neppure escludere – di cui pubblica una lista di proscrizione. E il fatto che un cuoco sia depositario di tali informazioni proprie dei servizi segreti, è già più dubitabile.

Un atto grave prima ancora che stupido, diciamolo subito senza indugi. Ma anche questa lista degli amici, come se fosse una partita a pelota a chi la spara più grossa... A me ha fatto venire in mente quanto scrisse il commediografo romano Publio Terenzio Afro: "homo sum, humani nihil a me alienum puto". La frase, celeberrima, è inclusa nella commedia Heautontimorumenos, e possiamo tradurla con "sono un essere umano, e niente di ciò che è umano mi è estraneo".

Ecco, forse si dovrebbe ripartire da qui e fare lo stesso con l'amicizia: essere amici del popolo israeliano, sì, certo, ma anche di quello palestinese, curdo, armeno; e poi i sinti con le loro roulotte Tabbert, i maori neozelandesi che danzano prima delle partite di rugby, gli abitanti dell'isola di Pasqua etc. Tutti amici, in quanto umani. Ma quando un amico si accanisce contro un altro amico, magari si potrebbe anche prenderlo in disparte e dirgli dai, non fare il cretino, ti avrà anche fatto un brutto tiro, ma adesso stai esagerando.

PS - ho espresso un simile commento a seguito di una di queste liste di amicizia per il popolo israeliano. Mi è stato risposto: "Se pensi che il 7 ottobre possa essere definito un brutto tiro allargo le braccia." Beh, anche io allargo le braccia quando incontro persone che non sanno riconoscere una metafora, o, per la precisione, un eufemismo. Se vogliamo essere linguisticamente precisi, i governanti (democraticamente eletti) del popolo israeliano non si stanno dimostrando cretini, ma criminali.

Commercio, in memoria di Federico

Sono tornato sotto casa di Federico

con una cassetta in legno per le arance:

Scendi, dai, che andiamo a vendere i fumetti

(mi raccomando, porta gli albo di Tex,

Zagor lo spirito con la scure,

Topolino, Nonna Abelarda, Diabolik),

tutti quelli che abbiamo letto

e poi scambiato sotto ai banchi

di formica verdina, con un foro

per l’inchiostro che già non si usava più.

Di oro purissimo il colore

della tua Saltafoss, una bicicletta

dal sedile lungo come le moto –

si può viaggiare in due

e chi è dietro spara agli indiani: 

non bum bum, ma un sibilo di vipera

dall'Oklahoma caricata a salve

– mille indiani in doppiopetto grigio

cascano da cavallo con un ugh –

tra tiepidi spifferi di portici

eccoci arrivati in via Dante,

il posto giusto per aprire bottega

(Comandante Mark, Hulk, Capitan America),

se la copertina è macchiata 

una biglia di vetro e venti lire

di sconto. Sono tornato

con una cassetta senza arance,

solo la struttura di pino

a fare da bancone.

Sono tornato, Federico.

L'unico modo che conosco

per ritrovare intatti i miei morti,

nel sussurrato commercio

che precede la sera.

sabato 24 agosto 2024

Poeti e colonnelli

L'autunno meteorologico inizia il primo settembre, ce lo assicurano i colonnelli. I colonnelli – a parte lucidare le medaglie che poi si appuntano sulla divisa – si occupano di due cose: i golpe, e le previsioni del tempo. Non l’ho mica mai capito cosa c’entrino i golpe con le previsioni del tempo… ma andiamo avanti, anche perché in Italia ha fortunatamente prevalso la seconda vocazione. Sono sempre i colonnelli a dirci che a Firenze, nella giornata in cui l'autunno meteorologico fa il suo esordio (a regola si dovrebbe andare i soffitta a recuperare la padella forata per le caldarroste), sono previsti 39 gradi, la temperatura di una persona con una febbre da cavallo. Per dire che faceva molto caldo, negli anni Ottanta si diceva 30 gradi, massimo massimo 32 al culmine della canicola estiva di fine luglio, e la persona a cui lo dicevi ti rispondeva minchia 32 gradi, questa notte non si dorme! Nico Orengo ha scritto la poesia che segue nei primi anni Ottanta. Nico Orengo di lavoro non faceva il colonnello, ma lo scrittore, il poeta e il giornalista. Se ne ricava che l'arte a volte prevede le cose in anticipo sui colonnelli, e come loro realizza dei golpe. Con la differenza che non utilizza schioppi, niente polvere da sparo, nemmeno fiori da mettere nei vostri cannoni. Piuttosto inchiostro. Così, guardando la macchia, non potremo dire che non ci avevano avvertiti...

L’ha detto la televisione
abbiamo squarciato il telone
d’ozono. I raggi violetti
ci cuoceranno i barletti.
Moriremo, finalmente chiedendo
perdono per non aver capito
che eravamo in prestito
e non in dono.

Nico Orengo

lunedì 19 agosto 2024

Di chi sono figli i figli? O sul caso di Ari Boulogne

Di tutta la bagarre degli ultimi giorni sulla morte del grande attore, il più bello di sempre – più bello anche di Alcibiade, di Adone? – viene stabilito all'unanimità, a me interessa solo una cosa: di chi sono figli i figli, quando “mater semper certa est, pater numquam”?

I latini avevano saputo trarre conseguenze pratiche dal loro motto, distinguendo tra paternità biologica e paternità astratta, simbolica – figlio è chi mi succede dentro i codici umani e certi della civitas, prima che nell’incerta confusività di natura. Per questo Cesare può pronunciare (ammesso che l’abbia davvero pronunciata) la celebre frase “anche tu, Bruto, figlio mio!”, quando il congiurato era nato dall'unione di Servilia e Marco Giulio Bruto.

Per istituire tale vincolo civile esisteva un rituale: afferrare con mani salde il fanciullo sui fianchi e innalzarlo verso il cielo, dove i numi tutelari della città avrebbero sigillato il rapporto. Il problema non è dunque stabilire di chi fosse figlio biologico Ari Boulogne: i genitori erano Christa Päffgen in arte Nico, la cantante tedesca dalla voce roca dei Velvet Underground, e Alain Fabien Maurice Marcel Delon, per gli amici detto solamente Alain, Alain Delon. Punto.

Potete diversamente immaginare la madre dell’attore che, trovandosi per caso accanto il giovane negli Stati Uniti, dice al nuovo compagno: "Ma guarda quanto è carino, somiglia tanto al mio Alain da piccolo, me lo prendi?" "E va be', se proprio ci tieni..." E così dopo essere passati dalla cassa, come all’Ikea, se lo portano nella banlieue parigina dove lo crescono, cosa che in effetti è avvenuta. No, la questione è un’altra, e riguarda le ragioni per cui Alain Delon non abbia mai voluto alzare al cielo il proprio figlio naturale.

Provo a rispondere nel modo più brusco: io penso fossero fatti suoi. Sembra cinico a dirsi, ma nessun sentimento può essere imposto per legge, a maggior ragione l'amore, un verbo che non regge il modo imperativo. E così quel particolare amore che è l'amore paterno: può soltanto essere vissuto. Ci sono semmai i doveri economici, gli assegni familiari, scopare è un gesto che talvolta produce degli effetti, di cui si è giustamente responsabili. Ma questa è un’altra storia.

Certo, può non piacere che gli umani mettano al mondo figli come gatti, riprendendo in seguito la propria vita randagia. In fondo cosa chiedeva Ari, l’ha supplicato per tutta una vita di sventure, conclusa nel 2023 per overdose di eroina? Solo vedere sventolare il cognome di quell’uomo con gli occhi di ghiaccio, i suoi stessi occhi, quando la fragilità nervosa l’aveva invece presa dalla madre, sventolare accanto al proprio nome di battesimo: Ari Delon, suona anche bene.

Lacan suggeriva che ciò che amiamo nell'altro è l'unicità comunicata dal nome. Dovette accontentarsi del cognome del compagno della nonna, l'unico maschio ad alzare il suo corpo in direzione degli dei. E magari, dal padre vagheggiato (lo vedeva giganteggiare sui manifesti cinematografici), ricevere anche qualche buffetto ogni tanto, a Natale il pranzo in famiglia con la cerimonia dei regali da scartare. Come non sentire questi sentimenti come nostri?

Più difficile intercettare, e riconoscersi, nei sentimenti di chi non ha voluto concedere gli elementi minimi di una relazione genealogica tra prima e poi, provando empatia per un rifiuto; il rifiuto di un rifiutato, a suo tempo, dal proprio padre, se vogliamo essere precisi. Eppure non è ciò che ci è richiesto, ma solo il rispetto per una scelta che avvertiamo come distante, addirittura disumana. Ma non possiamo imporre il nostro sentire a chi ne ha uno tanto diverso. Anche se si chiama Alain Delon.

domenica 18 agosto 2024

Stronzi? No grazie

Trovo esemplare questa immagine che gira sul web. A parte l'intima grettezza del suo contenuto, è utile per comprendere la nozione sfuggente di capzioso, che ha fatto retrocedere il vocabolo all'interno di una sorta di hit parade linguistica – comunque ha sempre occupato posizioni di seconda fila, per essere onesti. Mentre è cresciuta molto la ricorrenza del sostantivo buonismo, specie nella sua variante aggettivale, buonista, con funzione di insulto. Qui l'utilizzo è a totale sproposito: buonismo, e cosa cavolo c'azzecca?

Soffrire per una sconfitta, come dichiara con orgoglio la campionessa di scherma Elisa Di Francisca, o viceversa godere del bicchiere mezzo pieno come fa la brava nuotatrice Benedetta Pilato (la quale si era rallegrata per il quarto posto ottenuto alle Olimpiadi), non sono comportamenti misurabili su un'ideale scala etica graduata, con indici di bontà a scandirne i livelli. Perciò la comunicazione è capziosa, l'inganno consiste nel mescolare piani totalmente distinti.

La bontà è un sentire che porta a un fare, ossia a comportamenti volti al bene dell'altro. Mentre in questo caso abbiamo disposizioni psicologiche diverse, che danno luogo a diverse emozioni: la serenità di chi ha comunque fatto del suo meglio, non sfigurando affatto per quanto a un passo dal podio, e la rosicatura, il tarlo, infine la sofferenza rivendicata quale atteggiamento agonistico da parte di Di Francisca, tipiche di chi non riesce più a distinguere la propria vita dalla condizione darwiniana da cui è ricalcato ogni sport, dove il più adatto è colui (o colei) che prevale sugli altri.

Ma brutto, e cioè non etico, ingannevole, capzioso, è giudicare le emozioni degli altri, squalificandole con il termine denigratorio di buonismo quando non in linea con ciò che sentiamo. Perciò è utile prestare attenzione a questi minimi segnali di cedimento alle mode linguistiche. Dietro, il più delle volte, si cela non solo una disposizione spensierata e corriva, ma una precisa ideologia. Che non è solo come abbiamo visto capziosa, ma parecchio stronza.

(PS - Suggerisco anche un confronto fisiognomico tra i due volti: quello della nuotatrice soddisfatta, se non proprio felice, per il suo quarto posto, e della schermitrice che gli dà della buonista – da quale delle due acquistereste un'auto usata?)

sabato 17 agosto 2024

Empatia o bontà?

 

"Buonismo è il nome che danno all'empatia quelli che ne hanno poca.”

Paolo Zardi, scrittore, ingegnere e soprattutto amico

"Empatia è il nome che danno alla bontà quelli che non ti prestavano mai la bicicletta. Mio papà ha detto che non posso, rispondevano se gli chiedevi di fare un giro."

Guido Hauser, che poi sarei io, dottore in Niente

Chi ha ragione?

Potete anche dire entrambi. O suggerire ipotesi alternative. La questione è aperta...

Esticazzi, o sulla sinistra al tempo di Elodie

Torno sul caso di Elodie, per allargare il quadro. Ma prima una premessa. Io da quando ho memoria politica mi sono sempre sentito antifascista, le volte in cui ho votato – adesso ho smesso – l’ho sempre fatto per partiti collocati nella parte sinistra dell'emiciclo parlamentare, e soprattutto credo nei valori rivoluzionari: libertà, uguaglianza e fraternità; dove la distinzione con la destra sta forse nell’estensione geografica del concetto di fraternità, prima ancora del maggior peso da dare all’uguaglianza rispetto alla libertà. Su questo possiamo anche riparlarne, e trovare un punto di equilibrio.

Ma torniamo a Elodie. Non è che ogni volta che qualcuno con un minimo di notorietà si dichiara di sinistra, noi si debba correre in suo soccorso, fare muro, branco, capannello. Questo è un atteggiamento che sa piuttosto di destra squadrista, ma di cui la sinistra si è appropriata – grazie a dio senza olio di ricino e manganello – negli ultimi anni. Ad esempio con la vischiosa e acefala solidarietà verso Fedez e Ferragni, e ciò per il solo fatto che si dichiarassero, di nuovo, anche loro, di sinistra. Poi da un giorno con l’altro puff, spariti, è arrivata una nuova icona politica: Elodie.

Elodie va difesa dagli strali di Giorgia Meloni, ti dicono, Elodie rinnova il culto dell’antico matriarcato nel mostrare il suo corpo senza l'ipoteca del maschio padrone, Elodie di qui, Elodie di là... Ma chi è Elodie? Le avete mai sentito articolare un discorso politico che superasse soggetto verbo predicato, entrando con seria volontà di comprendere – e cioè con strumenti di analisi, non importa attinti da quale campo del sapere – nella complessità del reale? Macché, siamo al Meloni mmerda, e sei un fascio se non le tieni bordone.

Lo dico: negli ultimi anni c’è molta più onestà intellettuale nelle pochissime teste pensanti che ci sono a destra. La rivalutazione di Gramsci da parte di Alessandro Giuli, ad esempio, non era affatto di maniera, ma segno di un processo di trasformazione che sta avvenendo in un'area politica che si pensava stazionaria e pregiudizievole – certo, non nei cori della curva sud della Lazio, ma quella è destra antropologica, così come è sinistra antropologica quella dei centri sociali.

Ancora prima, non era strumentale l’interesse dei cultori, anche estremi, della Tradizione nei confronti di Pasolini, nel cui pensiero sono obiettivamente presenti degli elementi nostalgici, antimoderni e localistici, che trovano punti di convergenza con il sentire reazionario. Mentre quanta timidezza nella sinistra nel dire infine e dopo troppi anni: va be’, se proprio ci tenete… Nietzsche potete pure leggerlo, ma con discrezione. Quanto ai discorsi radiofonici di Ezra Pound contro la struttura plutocratica dell’Occidente moderno, che, al netto dello sciagurato antisionismo del poeta dei Cantos, anticipano di un secolo le attuali analisi di Noam Chomsky, non ancora pervenuti.

Molto meglio le canzoni di Elodie, quelle possono essere cantate a squarciagola al Gay Pride o alle feste del PD, la cui simbolica tende sempre più a sovrapporsi. Perché Elodie è di sinistra, Elodie è contro Giorgia Meloni, Elodie è una di noi! E un esticazzi finale non vogliamo mettercelo?

Stereotipi

Michel Houellebecq ha confessato di lanciare un urlo di goduria, SIII!, o più verosimilmente OUIII!, ogni volta che vede confermato uno stereotipo. Ricordo che ai tempi dell'università andai con un amico a via Festa del Perdono, Milano; era una mattina di novembre un po' nebbiosa, le radio private passavano It's a Sin dei Pet Shop Boys e Who's that Girl di Madonna.

Sul breve tratto di strada in cui ci eravamo fermati con la schiena appoggiata alla parete di un palazzo umbertino, guardavamo sfilare i nostri coetanei diretti, in alcuni casi, ad Architettura, e in altri a Ingegneria. Solo che fino all'ultimo momento non potevamo saperlo, i due atenei erano prospicienti.

Iniziammo così, quasi per caso, a fare scommesse: io dico che questo è un architetto, quest'altro ingegnere, architetto, ingegnere, architetta (le donne, specie quelle belle, quasi tutte ad Architettura), ingegnere, ingegnere e così via.

Beh, in nove casi su dieci ci prendevamo, alcuni tratti del loro involucro ne confermavano la destinazione: bretelle indossate sotto a giacche di velluto a coste, con le toppe sui gomiti, per gli architetti, di contro ad abbigliamento acquistato alla Upim per gli ingegneri. E poi la polpa: architetti fisico tonico e zazzera, erano gli anni Ottanta, i Duran Duran dettavano la linea, pancetta e capelli monastici gli ingegneri, già incipiente la tonsura della calvizie. Stereotipi, appunto.

Più tardi, con lo stesso amico, finimmo con l'estendere il gioco degli stereotipi a tutte le facoltà, introducendo una variabile di genere. Arrivammo così alla conclusione che esistevano facoltà dove uomini e donne davano il meglio, e in altre il peggio. Ma erano diverse.

Molto modesti, ad esempio, i maschi iscritti a Legge e Scienze Politiche, ma non le femmine. Se c'era una ragazza un po' scemina – non siamo più alle percentuali bulgare di architetti e ingegneri, diciamo a spanne un 70% – si iscriveva a Lingue e soprattutto a Psicologia. Ma invece intelligentissime le studentesse di Filosofia, a differenza dei maschi, e io ero tra questi, che frequentavano la medesima Facoltà. Dei veri e propri sotuttoio, con l'Unità infilata nel tascone del giubbotto e una raccolta di aforismi di Cioran da portare a spasso.

Insomma, il gioco l'avete capito. Ora, se vi va, potete provare a fare lo stesso con i social. L'impressione è che anche qui ci siano categorie in cui uomini e donne si distinguono. Personalmente, nutro diffidenza verso politici e giornalisti di sesso maschile, le donne body builder, brrr che paura quando postano i selfie, quindi verso i maschi che si dichiarano esperti di geopolitica, le poetesse (ma non i poeti, anche perché maggiore è il numero di donne orgogliosamente poetesse, lo scrivono in prima battuta come il gruppo sanguigno sulla targhetta dei soldati), e ancora i tuttologi con il pizzetto a cui fa schifo qualsiasi cosa, le attrici, ah le attrici... e infine verso gli scrittori di entrambi i generi.

In quest'ultimo caso non mi sembrano propriamente scemi, ma l'intelligenza che di certo non gli difetta – non sempre, almeno – non è sufficiente a fargli cogliere il ruolo sociale del loro gesto, che ha raggiunto una marginalità da giocatori di ping pong. Complice la bolla che fa da specchio di Grimilde, percepiscono però il loro status come prestigioso, la stessa asimmetrica disposizione di un Vasco Rossi con milioni di follower. Chissà, forse, negli anni Ottanta, anche loro erano iscritti a Filosofia...

PS - Se leggendo vi siete riconosciuti in una categoria bistrattata, appartenente di sicuro al 30% virtuoso. Nessuna polemica, per piacere. E solo un giochino, anche questo un po' scemo, da ombrellone. E se trovate la quadra, come Houllebecq potete strillare OUIII!

giovedì 15 agosto 2024

Bracco italiano

Confesso di chiedere più volentieri l'amicizia, sui social, a uomini o a donne nel cui profilo sta scritto impegnata, con accanto l'icona di un cuore grigiastro. Le sposate sono ancora meglio. Se invio la richiesta a una donna senza un compagno, o, peggio, a chi si dichiara in una relazione complicata, come se le relazioni fossero punti all’uncinetto, penserà che lo faccio solo perché ho delle mire su di lei. Le donne ogni tanto si fanno strane idee, ne gratificano l'autostima. Il fatto è che in nove casi su dieci hanno ragione, almeno in questa appendice mediterranea half tropical, come definiva l’Italia una mia ex fidanzata svedese. E i maschi svedesi? una volta le chiesi. Tra un'uscita con miss Helsingborg e una partita di hockey, magari il derby tra le squadre locali da vedere con gli amici in tivù, a piedi rigorosamente scalzi (nelle abitazioni scandinave non si indossano scarpe e ciabatte), molto meglio la seconda opzione. Poco male se tutti si presentano con una bottiglia di vodka, in un modo o nell'altro i vuoti finiranno nella raccolta differenziata. Ma io non sono svedese, e probabilmente non faccio eccezione: “Parli sempre di questo Pisolini, Pasoloni... sì insomma dici che tuo Paese non piace come a lui. Ma dal modo che muovi mani io capisco tu essere italiano.” Probabilmente aveva ragione. Dopo pizza, mandolino e mamma mia, cuccare è una delle prime parole che insegniamo agli stranieri. Mi manca solo un vecchio olmo, tutto intorno un nulla di cicale e sterpaglie bruciate dal sole, dove arrampicarmi e gridare voooglio una dooonna, solamente una suora nana potrebbe impormi la discesa. Arrivato in cima rimarrei però con la bocca ben chiusa, una vedetta appollaiata nella coffa, si guarda attorno in attesa di scorgere all’orizzonte una terra da strillare alla ciurma. Ma quale terra? Quale la rotta del vascello nel grande mare in bonaccia, le vele flosce, lo scorbuto si diffonde tra i marinai, il sangue cola lento dalle gengive tumefatte? Perciò richiedo l'amicizia solo a uomini e a donne impegnate: sono troppo orgoglioso per riconoscere a me stesso che mi sono perso, e mi sento solo come un cane abbandonato a Ferragosto in autostrada. Avrei bisogno di una carezza sul coppino, una carezza da una mano femminile, scorre leggera tra i capelli rimasti, non voglio farti niente di male mi sussurra all’orecchio, non mordo mica rispondo muovendo piano la coda. Un bracco italiano, per la precisione.

mercoledì 14 agosto 2024

Idoli di sinistra

Ecco, magari non facciamo con Elodie lo stesso errore che con Fedez e Ferragni. Lei libera di fare i calendari Pirelli, di mostrare il suo corpo che è certo gradevole (quindi lo apprezzeremo quando andremo dall’elettrauto per mettere in fase lo spinterogeno) e cantare canzoni ugualmente gradevoli – ho detto gradevoli, non belle. Ma in tutto ciò non c’è nulla di politico, è la sua vita e la pagano bene per ciò che fa. Semplicemente non le piace Giorgia Meloni, nemmeno a me piace, l'unica differenza è che io lo dico al Bar Piero mentre lei a giornali e tivù, che la stanno trasformando nella nuova icona della sinistra italiana. Non abbochiamo, per piacere, non partecipiamo all'ennesimo giochino estivo: facciamo due squadre, una con la maglia rossa e una con la maglia nera. Se vogliamo cercare la sinistra, questa sfuggente ipotesi geometrica, nel mondo dell’arte, affiniamo lo sguardo e indirizziamolo altrove. Ken Loach ha ottantotto anni ma non è ancora morto, per dire. Due anni in più per Gino Paoli, sempre stato anche lui di sinistra. Il quale, a tal proposito, da vero genovese, l’ha fatta breve: “Ieri avevamo Mina e la Vanoni. Oggi emergono le cantanti che mostrano il c**o.”

Grasso e magro, o sulla legge del pendolo

La mia cara amica Agave Spinosa – è ovviamente uno pseudonimo – su Facebook, dove così si firma, fa delle interessanti considerazioni sul tema dell’aspetto fisico femminile, sospettando che molti uomini la sfuggano nel timore di essere contagiati dalla sua grassezza, o più precisamente dall’elemento insano e minaccioso che ciò comunica.

A parte che non è affatto vero che lei sia grassa, ma nelle fotografie presenti sul suo profilo non è neppure magra, e seguendo l'oscillazione culturale di questi termini è possibile avventurarsi per qualche considerazione ulteriore. Intanto, a differenza di quanto scrive, non credo che l’accumulo di adipe induca fantasie ospedaliere, addirittura epidemiche, una sorta di Covid ante litteram, il grasso come untore. Tradizionalmente, è piuttosto alla magrezza che viene associata una cattiva salute.

Esistono ragioni storiche fondate: i poveri erano malnutriti e morivano prima dei ricchi; inoltre, chi ha malattie terminali tende a dimagrire, si consuma come una candela; un’altra metafora spesso chiamata a rendere manifesto il pensiero, con la cera che scioglie e dilegua allo stesso modo dell’adipe. Solo molto dopo sono apparsi i grandi obesi americani, ad alto rischio di qualsiasi cosa, ma si sa che l'immaginario hai suoi tempi di assimilazione.

C'è però un immaginario parallelo, quello erotico, che su magrezza e grassezza è da sempre altalenante. Temo valga solo per le donne, per gli uomini non si avvertono particolari scarti. Nel solo Novecento abbiamo continui mutamenti di percezione. Si inizia con il culto per le donne filiformi dei primi decenni del secolo, per passare alla pancetta, orgogliosamente esibita, dopo il secondo conflitto mondiale; le chiamavano maggiorate, o ben carrozzate. D'altronde dopo cinque anni di orti di guerra e tessere annonarie, rientra nel principio di compensazione.

Bisogna attendere i tardi anni Sessanta per ritrovare la magrezza di Twiggy e Veruschka, quindi l'androginia di Grace Jones, l'ambiguità di Amanda Lear che, nel 1978, sussurrava con voce roca: “Voulez vous, a rendez vous tomorrow?” E sembra di udirlo il coro dei maschi: “Sì sì, vogliamo un rendez vous: tomorrow, dopo domani, quando te pare – ma vedemose!”

Trascorrono due soli anni e si arriva agli anni Ottanta, con il pendolo estetico che oscilla di nuovo dalla parte opposta; non siamo ai livelli espansi degli anni Cinquanta, Cindy Crawford diviene il nuovo paradigma: coscia tonica ma tette che reclamano una terza abbondante, se non una quarta. E infine puff, a cavallo del nuovo millennio si sgonfia tutto, per essere bella si impone la dieta del conte Ugolino, quasi anoressiche le ragazze ritratte sulle riviste di moda, emaciate e loro sì davvero insane – eppure proprio per questo desiderabili.

Dell’estetica recente fa fede una battutaccia di Berlusconi, riferibile solo con molti asterischi. Parlando al telefono di Angela Merkel gli sfugge un'espressione sconciamente epigrammatica, in cui i nuovi tempi trovano preciso riflesso: "c*lona inch**vabile" la definisce. Ma per Trump le c*lone sono tornate a essere ch**vabili. E, dunque, la partita è di nuovo aperta.

martedì 13 agosto 2024

HANNO, non abbiamo

Quando leggo "abbiamo vinto 40 medaglie", penso al contributo offerto a questo cospicuo paniere... Qualcosa devo pure avere fatto per essermi guadagnato l'inclusione nella prima persona plurale del verbo. Ecco, forse ho trovato: tenere il televisore accesso e sintonizzato sulle Olimpiadi 2024, mica sempre ma ogni tanto un occhio ci cascava, la trasmissione è interrotta dagli spot pubblicitari, il denaro di quegli spot a cui la mia audience partecipa – dopo avere pagato i diritti televisivi ai francesi, nessuno ti regala niente – tramite la Rai che, forse, è ancora un servizio pubblico, viene in parte devoluto allo Stato italiano, il quale a sua volta ne tratterrà una significativa porzione (ad esempio per erogare la pensione di mia mamma, che con quei soldi deve andare al bar Meetic) ma una quota comunque rimane, e di quella quota un'ulteriore sotto-quota, una frazione, un nonnulla finirà al Dipartimento per lo Sport di Andrea Bodi, che da bravo ragazzo qual è costruirà infrastrutture, palazzetti, piscine in cui si formeranno i nuovi campioni, magari qualche spicciolo servirà a pagare i film porno sulle piattaforme di streaming, sono stati noleggiati dai funzionari dello stesso Dipartimento negli alberghi in cui alloggiano per lavoro, e va be’, pace, in ogni caso eccomi qui, con le mie più che meritate quaranta medaglie al collo! Ma davvero vogliamo credere a 'ste minchiate, che fanno il paio con lo ius soli sportivo, a renderci titolari del sudore e lo sforzo di altri esseri umani? E allora diciamolo una buona volta: HANNO vinto. Non abbiamo.

lunedì 12 agosto 2024

Madri atermiche

Mia madre, anche questa mattina, si è fatta tre ore di bar Meetic; i trentacinque gradi all’ombra non erano ancora stati raggiunti, ma poco ci mancava. Oltretutto si era rotto l'ombrellone con la scritta Sammontana. Del gruppo di pensionati di cui fa parte – circa una quindicina – ormai sono rimasti in quattro, tutti ampiamente oltre gli ottant’anni. Gli altri o sono morti di calura o hanno mollato per sfinimento. Perfino i cani nel vicino giardinetto di via Parolo, dopo aver cacato corrono subito verso il padrone, puntano con il tartufo alla strada del ritorno, dove il attende un condizionatore a palla. Lei però resiste, un caffè con tre bustine di zucchero, grazie; due poi le porta a casa e le versa nella zuccheriera. Credo che il suo obiettivo sia rimanere l’unica superstite. Come all’Isola dei famosi.

Bevilo bevilo bevilo!

Ha fatto scalpore la condizione dei cestisti serbi nel presentarsi al podio olimpico, dove gli è stata infilata al collo una più che dignitosa medaglia di bronzo. Diciamolo pure senza giri di parole: erano ciuchi persi, in particolare Nikola Jokic. Possiamo immaginare, prima della premiazione, una di quelle adunate goliardiche in stile addio al celibato, dove di fronte a un bicchiere di rakija tutti gridano: Bevilo bevilo bevilo, bevilo bevilo bevilo… E gluc, Jokic ingolla in un’unica sorsata.

Il basket è l'unico sport che ho praticato a livello agonistico, e di solito chi vi si dedica – non mi chiamo certo fuori – appartiene al genere maschile tu vo' fa' l'americano (fatto salvo Dennis Rodman, ovviamente, che oltre a essere americano per davvero sfugge a ogni categorizzazione). Dimenticate le vite epiche e disperate dei pugili, la flemma milionaria dei giocatori di golf, puzzetta sotto il naso e culo a sbalzo, o la burbera ma in fondo leale irruenza dei rugbisti. I cestisti sono eterni adolescenti in braghette al ginocchio e andatura dinoccolata, dammi il cinque fratello. Adolescenti che se non avessero giocato a basket sarebbero divenuti dei nerd.

Perciò anche io, come molti, ho avuto un sussulto nel vedere l'incedere barcollante dei serbi alla premiazione, quel particolare genere di allegro stupore nel trovare un soldino là dove avevi lasciato un dente. O come se un testimone di Geova ti suonasse il campanello in fuseaux fosforescenti e giaccone con le frange alla Easy Rider. Va', aggiungiamoci anche la chioma di Sid Vicious.

La e il

Se domandissimo a qualcuno quali sono le sue cantanti preferite, potremmo ricevere risposte del tipo: la Bertè, la Vanoni, la Oxa, la Mannoia, la Pausini etc. Ma non, continuiamo per ipotesi, la Mina, la Giorgia, la Nada. Come mai?

Non credo esista una ragione, si va a orecchio. La Mina suona male, la Vanoni bene. D’altronde anche Gino Paoli, che con entrambe ha una conoscenza di lunga data, si è espresso a questo modo in una frase che ha suscitato polemica: “Ieri avevamo Mina e la Vanoni. Oggi emergono le cantanti che mostrano il c**o.”

Ora lasciamo perdere la polemica sul c**o, e passiamo a quella sull’articolo determinativo di fronte ai cognomi femminili. Scrivo dell’argomento perché, giusto ieri, sono stato bacchettato per avere anteposto l’articolo davanti al cognome di Michela Murgia, dopo averne in prima battuta scritto nome e cognome per esteso. Il tutto all’interno di un testo elogiativo nei suoi confronti.

Ma dovevo immaginarlo, quando si tocca Murgia (ecco, contenti?) compare sempre qualcuno più realista della regina defunta, pronto a impallinarti a ogni virgola fuori posto. Ma qual è in questo caso il posto giusto?

I linguisti non ci sono d’aiuto. Ricordo di avere parlato dell’argomento con il compianto Luca Serianni, era sei anni fa al termine di una bella conferenza a Poschiavo. Un paesino molto svizzero – gerani ai balconi, gente che si saluta tra sconosciuti  al confine con l'Italia, da cui ha preso la lingua anche se siamo nel cantone dei Grigioni. Alla mia domanda sull’articolo davanti ai cognomi personali, aveva spalancato le braccia: “Per noi linguisti va bene tutto. Fate voi…”

Io confesso di muovermi a istinto, come per le cantanti. La mia provenienza dall’estremo settentrione, dove da bambini si metteva l’articolo anche davanti ai nomi propri (il Claudio, la Giovanna, il Maurizio), mi fa forse abusare dell’articolo determinativo. Non avevo però mai pensato che questo utilizzo potesse risultare irriguardoso. In fondo ha una funzione individualizzante (se utilizzassimo l’articolo indeterminativo, una Murgia, ci sarebbe qui sì da risentirsi), oltre che disambiguante. Me l’ha fatto notare il sempre ottimo Paolo Landi, il quale riporta un gustoso aneddoto riferito ad Arbasino:

"C'era anche Romano, che chiacchierava con Natalia Ginzburg. Chi sarà stato? Escluso che fosse il divino pittore Giulio, sarà stato Prodi, il professore di Bologna? O l'eminente ambasciatore Sergio? Macché: era la Lalla."

E facciamo attenzione a come Arbasino giochi con gli articoli, con Lalla Romano che diventa la Lalla, generando una sonorità simile a una cantilena: la-lal-la. Ma si potrebbe obiettare che, allora, l’articolo determinativo lo si metta piuttosto davanti ai cognomi maschili, già lo si fa con taluni personaggi illustri: il Manzoni, il Pascoli, perfino lo Hegel come con vezzo paludato Diego Fusaro chiama il filosofo di Stoccarda.

Non escludo che ciò possa avvenire in futuro, ed è ancora Luca Serianni a ricordarci che le lingue storiche sono creature vive, in perpetuo movimento. Le vestali del culto integerrimo della Murgia (stavolta la chiamo a modo mio) hanno dunque tutto il diritto di proseguire nella loro campagna di sfoltimento degli articoli: dagli e dagli potrebbe accadere che la loro proposta prenda piede, e quando qualcuno mi chiederà di fare il nome di una cantante che amo particolarmente, risponderò senza esitazione: Vanoni!

Ma fino a quel giorno suggerisco un profilo più basso, una minore assertività censoria. O come dicevamo noi alle scuole elementari, sempre Vanoni, ma l’Ezio, di Sondrio, che non rompessero tanto i coglioni!