domenica 23 dicembre 2018

Tutti a casa di Betty, o sugli strani cortocircuiti tra politica e memoria

Per il mio decimo compleanno mi feci regalare dai miei genitori una rete da ping pong. Non un tavolo, proprio e solo una rete, con i rispettivi morsetti di metallo da fissare ai lati opposti del tavolo, che nella fattispecie apparteneva al comune di Sondrio.
Da alcuni anni era stato costruito un nuovo centro sportivo, la fortuna aveva voluto che si trovasse di fronte a casa mia, in via Parolo 10. Accanto all’ingresso della piscina, misteri dell’architettura pubblica, era stato posizionato il tavolo da ping pong, e fin qui tutto bene. Il fatto è che era di cemento.
Cemento?!
Sì, di cemento. E’ il primo e l’ultimo che ho visto composto di questo bizzarro materiale, che imprimeva alla pallina degli scarti imprevedibili, accompagnati da un rumore ovattato e tetro. Oltretutto si erano dimenticati di fornirlo di una rete. Perciò, il diciannove aprile del 1976, fui io a rimediare.

Non certo per spirito civico, intendiamoci, ma per poter giocare una buona volta sul tavolo da ping pong in cemento laccato del nuovo centro sportivo di Sondrio, che fino a quel giorno aveva ospitato le natiche di un gruppo di ragazzi, o come si diceva allora una “compagnia”. Avevano tutti due, tre, a volte anche quattro o cinque anni più di me.
Inutile dire che mi sarebbe piaciuto frequentarli, mica potevo passare la vita a leggere Asterix e impilare Lego assieme a Pierantonio. Dapprima cominciai a osservarli dal terrazzo di casa: le scarpe da pallacanestro, le vespette bianche su cui spiccavano i pullover pastello annodati in vita con nonchalace; e poi tutte quelle ragazze con cui ridevano e scherzavano, facendo girare il pacchetto delle Muratti Ambassador con la fascia rosso blu, da cui pescavano a turno come facevamo io e Pierantonio con le cicche Brooklyn.
Ma in quella vigliacca stagione della vita, i pochi anni che ci dividevano erano un abisso, una trincea invalicabile, il fossato di un castello medievale colmo di coccodrilli e altre schifose e pericolosissime bestiacce. E però con la mia nuova rete da ping pong le cose sembrarono cambiare. Mi accettarono, insomma. Nella mia testa eravamo perfino diventati amici!
A ciò deve avere contribuito il fatto che, oltre alla rete, i miei genitori mi avevano preso due racchette, di cui una era di marca Stiga. Certo, non si trattava della mitica Stiga Yasaka o della ancor più evocativa Cobra, ma era pur sempre una Stiga Europa, e i ragazzi della compagnia del centro sportivo sembrarono apprezzare.
In pratica, le cose funzionavano a questo modo. Nel primo pomeriggio io arrivavo al tavolo da ping pong. Montavo la rete con puntigliosa competenza. Quindi gli altri giocavano con le mie racchette, la mia pallina, la mia rete. Ciò che di loro mettevano era solo il divertimento. Lo deducevo dal gran numero di partite che ingaggiavano gli uni contro gli altri, con i maglioncini Benetton a sventolare come l'insegna dei Crociati. Vuoi fare una partitina anche tu, Guido, mi chiedevano alla fine, quando già barcollavano stremati. 

Ed era questa la seconda domanda che gli sentivo pronunciare. L'altra, che cascava a un punto sempre diverso della giornata, e sempre diversa era anche la persona da cui giungeva, mi risuonava nella testa come la parola d'ordine di un agente segreto: Ehi, si va a casa di Betty?
Il problema è che a me mancava la password, il codice di decodifica, appartenevo evidentemente a un esercito nemico. Mentre loro si capivano al volo. Senza proferire altro suono, seguiva quindi una lenta e placida transumanza, in cui tutto il gruppo partiva alla volta della casa di Betty, che a dire il vero non ho ancora capito chi fosse. Anche perché nella prima persona plurale io non ero incluso, e la casa di Betty, oltre che Betty stessa, resteranno per me una favolosa chimera.
Rimanevo dunque lì, la mia Stiga Europa tutta rossa, la pallina gialla nell'altra mano, a contemplare le persone che entravano e uscivano dalla piscina. Non vedendo direttamente l'ingresso, li distinguevo dal fatto che quelli che entravano avevano i capelli asciutti e quelli che uscivano bagnati. Quando il culo cominciava a indolenzirsi, scendevo dal tavolo, smontavo la rete con uguale disciplina, e tornavo a casa a giocare a Lego con Pierantonio. Vuoi una cicca Brooklyn? gli chiedevo per farmi perdonare.
Ma perché ho raccontato questa storia, per pura nostalgia?
Sì e no. In realtà credo che la memoria mi abbia ripresentato il ricordo con un intento didascalico. E infatti, quale migliore correlativo oggettivo della scena politica italiana?
Solo non mi è ancora del tutto chiaro, anche in questo caso, chi sia Betty: Berlusconi, Renzi, il Pd… E sarà Salvini oppure di Maio a rimanere con le chiappe sul cemento duro e freddo, mentre gli amici – le vespette bianche, i maglioncini pastello annodati in vita, le Muratti Ambassador – sono andati a casa di Betty a fare festa...

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