lunedì 24 dicembre 2018

Camcaminì spazzacamin, o sulla cultura e il fumo

Io ho un conoscente che pulisce i camini. Sembra uno scherzo, ma gli spazzacamino esistono ancora. Giuro!
Lo spazzacamino, quello che conosco io, ha sposato una mia cara amica di infanzia, per questo ci conosciamo. Non che ci si veda di frequente: una volta ogni due o tre anni, più o meno. Quando passa molto tempo gli anni diventano quattro, tanto che poi ci rinfacciamo scherzando 
– lui rivolto a me e io a lui  che i capelli sono sempre meno. Potrei arrivare a dire che siamo diventati amici, come con sua moglie. Quasi amici, va'.
L'unico problema nasce, quella volta ogni due o tre anni in cui ci vediamo, a volte sono anche quattro, quando lui vorrebbe capire cosa faccio. C'è una reale disposizione nella sua curiosità, dell’empatia. Cosa sono, ma concretamente, le faccende di cui mi occupo, quelle per cui lui rientra tutto nero al termine di una giornata di lavoro?
Parole.
Parole?!
E da qui parto ogni volta col mio abituale pistolotto sul valore della cultura, i libri, la funzione emancipante di letteratura e poesia. Per non parlare della psicanalisi – Freud, Lacan, non sai quanto ricordi il fumo che esce in lente volute da un camino, lo schema z di Lacan... – oppure della mia passione per la filosofia, che non è amore per il sapere ma sapere attraverso l'amore.
Il fatto è che quegli abbozzi di spiegazione rivolti formalmente allo spazzacamino, siamo diventati quasi amici, parlano in effetti a una parte profonda e diffidente di me stesso. Prima, forse, ci credeva almeno un po', ma adesso ha cominciato a fare no no con il ditino. A chi vuoi raccontarla, è come se mi rispondessi da solo. 
Voglio dire, hai fumo in casa?
Nessun problema, chiami lo spazzacamino – è mio amico, ok, quasi amico, ma se ci metto una buona parola vedrai che ti fa lo sconto – e il fumo poi sparisce. Voilà, una bella tinteggiata alla pareti e ritorna come nuova!
Ma quando hai, mettiamo, Hitler in casa, siamo sicuri che biblioteche stracolme di Goethe, Schelling, Nietzsche, Schopenhauer, Rilke, Hofmannsthal servano a qualcosa?
E’ più o meno il dubbio che venne anche a George Steiner. Un tizio che alle elementari già conversava con il padre in sette o otto lingue diverse, a seconda dell’argomento loro la cambiavano, come due che facciano zapping col telecomando; di Sofocle si parlava in greco antico, di Cicerone in latino etc. Al dubbio sui saperi della parola, lui aggiungeva la musica e le arti figurative, di cui pure avrà dibattuto con il padre con pennello e pentagramma in pugno. A cosa serve la cultura occidentale tout court, insomma? 
George Steiner si rispose infine, non so bene in quale delle sue molte lingue, che, purtroppo, la cultura non serve a molto. E non tanto perché non è serva di nessuno, come ribatteva Aristotele a chi lo stuzzicava sull'utilità della filosofia. È una vanità morale. La cultura oltre a non aver
 saputo e potuto niente contro l’ombra montante del nazismo – ed era anche quella una “cultura”, bada bene –, non aveva neppure voluto.
Lo ricavava dalla semplice costatazione che tutti i tedeschi a tutti i livelli, non solo gli intellettuali, specie quelli con padri psicopatici che ti parlano in aramaico a otto anni, nei primi decenni del secolo scorso frequentavano la cultura cosiddetta “alta” con trasporto e reale dedizione. Ma poi che ne hanno fatto? Wilhelm Meister e il suo lungo apprendistato sono finiti nello zainetto dei militari, insieme alle granate.
D'accordo, è inutile rivangare. Anzi, no, è utilissimo, ma sostituendo il sostantivo plurale tedeschi con il pronome personale io, per offrire finalmente una risposta anche al mio conoscente spazzacamino, ormai siamo diventati amici, dai.
E non vale dire: vado su Facebook, piazzo dei post arguti, rimedio un mazzolino di pollicioni blu, che gonfiano la coda del pavone. Oppure faccio cose, vedo gente, scrivo articoli e libri e poesie.
No no, cose terra terra, che non interesserebbero al padre di George Steiner, cose come il brischetin e la squareta del mio nuovo amico spazzacamino, via il quasi e non se ne parli più.
E se la risposta fosse allora proprio questa: io, con le mie parole, i miei dubbi messi in forma, sollevo il fumo con cui gli indiani si mandavano i segnali al passaggio del treno e del bisonte. Un fumo che precede e guida talvolta l'azione, o, se non altro, fa più bello e vario il cielo. Ma è lo stesso fumo che il vento o gli spazzacamino dissolveranno nuovamente, rendendo chiaro e muto l'orizzonte.
A ognuno la sua parte nel gioco, insomma. A ognuno la sua mezza verità.

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