domenica 9 dicembre 2018

Chiamami col tuo nome, o sul tempo e le albicocche

Ieri sera ho finalmente guardato l'ultimo film di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Chissà, forse non l'avevo fatto prima distratto da tutti quei discorsi sull'omosessualità della pellicola, che mi facevano temere nel solito pistolotto edificante, alla Ozpetek, o in alternativa in un'esibizione compiaciuta e algida, di quelle costruite ad arte per épater le bourgeois. Insomma, in ciò che gli stessi gay, col sarcasmo che li contraddistingue, chiamano "froceria".
Invece, nulla di tutto ciò. Allora non è un film omosessuale?
Ci penso… In effetti, a parte l'insinuarsi di una fascinazione omoerotica nell'estate padana di un tardo adolescente di nome Elio, come il dio che sorge dal mare e diventa sole, a cui segue il tramutarsi in passione dello stesso sentimento ancora confuso, poi piano piano sboccia e si precisa, fiorisce nel rapporto e infine viene reciso da quella ciclicità naturale che l'aveva scandito, con l'amante americano, Oliver, che ritorna negli Stati Uniti, a parte questo incontro/incanto molto fisico ripreso senza falsi pudori dal regista, non accade molto altro.
Ok, dunque un film omosessuale.
No, ecco, forse sto iniziando a mettere a fuoco. E il sospetto è che sia un film su di me, che ho cinquant'anni (più della somma dei due amanti) e omosessuale non lo sono stato mai. Un film su tutto quello che mi sono perso, non tanto, o non solo, nel non avere mai vissuto qualcosa di simile e bello con un altro uomo, ma mi sono perso per strada da quell’estate del 1983 in cui è ambientata le vicenda, e proprio come Elio avevo allora diciassette anni. Un mio doppio, dunque. Un mio compossibile.
Il tempo che passa, le occasioni colte oppure no, il reclamare quel che in fondo già si possiede, ma solo attraverso l’altro si è in grado di riconoscere e infine amare. Cose che già sappiamo tutti, d'accordo. Ma qui, ed è davvero raro, finalmente vediamo, di più: condividiamo. Non però con la voyeuristica immedesimazione degli esclusi dalla festa, prevalendo piuttosto la consapevolezza di averla attraversata anche noi, ognuno a suo modo, certo, quella torrida estate in cui il corpo si risveglia e comincia a protendersi verso altri corpi, ma come in sonnambula. 
Nel film, in due occasioni, si possono ascoltare i versi di una canzone di Ivano Fossati, anche se a interpretarla è qui Loredana Bertè. Un sottofondo musicale offerto all’epoca da radioline e jukebox, per cui ogni estate accordava la voce in un suo proprio e irripetibile canto. 
Quel che suggerisce la storia è però l'immagine contenuta in un successo dell’artista ligure di alcuni anni precedente, in cui la scena sonora è attraversata da un treno carico di frutta, mentre una scalcinata banda rock (ma, all’occorrenza, suona anche tutto il resto) sta aspettando di partire. Ed eravamo alla stazione ci rivela la voce roca del cantante nel refrain, "eravamo alla stazione, sì, ma dormivamo tutti”. 
Al risveglio, la passione divampata tra i due giovani dello stesso sesso, che non senza sorpresa, oltre a un malcelato imbarazzo, c'è capitato di invidiare, smette di essere poi tanto augurabile, se non in quella loro condizione ancora sospesa sull'abisso. Non lo è, ad esempio, quando compare nella casa colonica ereditata dalla madre di Elio un'anziana coppia gay, quasi una parentesi burlesca con cui il regista stempera il rigore della messa in scena, ammiccando agli eterni stereotipi di genere. E come non pensare, con affettuoso rimpianto, al Vizietto e ai suoi memorabili interpreti, Ugo Tognazzi e Michel Serrault…
Rimpianto, l'abbiamo finalmente trovata la parola giusta! Più che verso una relazione omosessuale, a rappresentare già una prima determinazione biografica, a me appare però il rimpianto verso quella pansessualità che coincide con la prima maturazione di ogni frutto, in una stagione della vita che entra in risonanza con sé stessa, senza più alcuna cornice a definire e limitare. La vita tutta.
Quel che rimane – perché qualcosa rimane sempre tra le pagine chiare e le pagine scure, ma la perfezione del libro ancora intonso non sarà mai più restituita  – è in fondo solo archeologia, carcasse che si aggirano in un presente divenuto memoria, come le statute rinvenute nel fondo del lago di Garda alla presenza dei protagonisti. Memoria, per paradosso, soprattutto di ciò che non è possibile ricordare, già che non si ha avuto il coraggio di vivere. E sono i mari più belli che non si sono navigati.
Eppure ci vuole coraggio e forza anche nel sentire la perdita, quindi riconoscerla e nominarla, come fa nelle sequenze finali il padre del ragazzo, non a caso professore di epoche remote e di perduta bellezza, a cui il giovane americano si rivolge quale mentore nei suoi studi. Specialmente quando tutt’intorno trionfa una vuoto gioco delle parti, con gli amici intellettuali a battibeccare sull’ultimo Bunuel. 
Oltre che perfetto, è dunque un film spietato. Il film spietato e perfetto a cui Rohmer ha ronzato tutta la vita intorno, senza mai riuscire a realizzare. Forse perché Guadagnino ha inteso che per catturare quella perfezione non serve la profusione verbale che accompagnava ogni film del francese, i sentimenti non vanno recensiti, ammoniva Vittorini, ma basta stare lì e aspettare, guardare, infine cogliere come si coglie un'albicocca da un ramo.
Ma solo al tempo opportuno, kairos lo chiamavano i greci su cui Oliver sta cercando di scrivere un trattato, ricordando al professore che il termine albicocca ha navigato molti mari linguistici (salpa dalle sponde latine, poi tocca le coste bizantine, per ritornare a noi passando attraverso l’arabo) prima di cristallizzare nel meraviglioso suono che conosciamo. A-l-b-i-c-o-c-c-a.
E se nel periodo a cui si riferiscono le riprese, in modo molto più convenzionale, già si rimpiangeva il tempo delle mele, ora è il turno delle albicocche. Ma sarebbe un'interpretazione nuovamente semplificata e rozza. Perché non ha nome, è innominato e confuso come i nomi che si scambiano gli amanti, il frutto che a un certo punto afferra Elio per poi deflorare sessualmente, è semplicemente la prima cosa che gli capita sottomano per estinguere la pressione del suo uzzolo. Ma, al tempo opportuno, il tempo di un presente dilatato che si può riconoscere solo a posteriori, anche questo gesto osceno ci sembra carico di purezza, perfino di grazia.
La parole verranno dopo, vengono adesso, sono quelle che state leggendo. Parole quando il meglio è ormai perduto, e rimangono solo le parole da mettere in fila sotto a un pallido sole autunnale. Albicocche disidratate.

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