venerdì 17 giugno 2016
Guido Bussoli c'est moi, anzi no, o su come sottraendo la realtà alla verità otteniamo la rappresentazione
Su Facebook io ho due profili. Uno come Guido Bussoli, il mio nome di battesimo, la sigla sonora con la quale vengo associato nel luogo dove sono nato, Sondrio, e dalle persone che incontro quotidianamente: lei è Guido Bussoli, vero, mi dice la postina allungandomi la raccomandata da firmare, ed è scritto anche sulla fattura, salatissima, che mi presenta l'assistente con l'erre moscia e le tette sode del dentista, allo stesso modo mi chiama il lattaio... (latte che ho smesso di bere da due anni, ma è questa un’altra storia). L’altro profilo è invece a nome di Guido Hauser, lo pseudonimo che, da alcuni anni, accompagna i miei testi narrativi, oltre che le pubblicazioni di questo blog.
Recentemente ho però notato che nelle relazioni su Facebook con il profilo Guido Bussoli – e cioè con le persone che conosco davvero, o, meglio, dal vero – c’è molta più distanza, distrazione, direi perfino “anti-patia” (termine che uso qui senza connotazione svalutativa, ma in semplice opposizione ad empatia) che non con quelle conosciute solo virtualmente, o partendo da una conoscenza virtuale, in cui sono celato dietro la maschera nominale di Guido Hauser.
Una constatazione che immagino lasci i più del tutto indifferenti, come è giusto che sia. Eppure, se provo a forzare il ragionamento, mi pare di scorgere nell’esperienza appena descritta un tratto più generale, se non proprio universale.
Intanto, le tiepide interazioni con i miei conoscenti reali mi stanno forse a indicare che è proprio la realtà vissuta, la cosiddetta vita vera, mia e di tutti, ad essere entrata in una sorta di affanno relazionale, se non una vera e propria crisi. Non sono insomma solamente io – scusatemi l’espressione un poco ridondante – ad aver “fallito come uomo”, ma è forse l’umanità stessa, di cui sono portatore occasionale e distratto, come il tedoforo la fiaccola, ad essere diventata difficilmente collocabile, sia nel significato che nell'utilizzo.
Cosa ce ne facciamo, ad esempio, di queste mani, quando non abbiamo più un lavoro né la speranza di trovarlo, cosa di questi piedi, con poltrone sempre più comode ad attendere i nostri svacchi, o di questa bocca, la bocca, mentre la fame si riduce ad appetito e l'appetito a vogliuzza, come nella famosa profezia di Nietzsche: "una vogliuzza oggi, una vogliuzza domani, fermo restando la salute"?
E cosa me ne faccio, anche, di eventuali titoli di studio, diplomi, competenze e saperi non solo astratti ma anche molto concreti, "procedurali", come sfruttarli in un tempo di gomma che rimbalza e scaglia in un etere rarefatto ogni sforzo dentro la realtà, per restituirlo, nella comunicazione virtuale, in narrazione smozzicata, emotivamente sovraccarica, non di rado grottesca?
Ma se, et voilà, come Ken Parker mi infilo la mantellina azzurra per trasformarmi in Guido Hauser, avviene sul web un piccolo scarto, una torsione simbolica che pare (pare, bada bene!) restituirmi una maggiore penetrazione umana, addirittura la parvenza di una presa sulla cose. Certo, non sulle cose-cose, quelle che stanno alla portata dei sensi, nello spazio tridimensionale degli oggetti, tra i fenomeni, ma in quello delle idee e della rappresentazione, il mondo libero delle storie (noumeno, lo chiamerebbe forse un vecchio professore di filosofia).
La minima esperienza di cui sono portatore fa tornare alla mente il bellissimo monologo di un film di Pedro Almodovar, protagonista un transessuale di nome Agrado. Dal palco di un teatrino in cui comunica l'assenza delle due attrici che si sarebbero dovute esibire, Agrado, per intrattenere il pubblico, mette in scena un buffo diversivo, nel quale così riassume la propria vita:
Mi chiamano Agrado, perché per tutta la vita ho sempre cercato di rendere la vita più gradevole agli altri. Oltre che gradevole, sono molto autentica: guardate che corpo! Tutto fatto su misura: occhi a mandorla 80.000, naso 200, buttate all'immondizia perché l'anno dopo me l'hanno ridotto così con un'altra bastonata. Lo so che mi dà personalità, però, se l'avessi saputo, non me lo toccavo.
Continuo. Tette, due, perché non sono mica un mostro, 70 euro ciascuna, però le ho già superammortizzate. Silicone: labbra, fronte, zigomi, fianchi e culo, un litro sta sulle 100.000, perciò fate voi il conto che io l'ho già perso. Limatura della mandibola 75.000, depilazione definitiva con il laser-perché le donne vengono dalle scimmie tanto quanto gli uomini, 60.000 a seduta, dipende da quanta barba una ha, normalmente da una a quattro sedute; però, se balli il flamenco, ce ne vogliono di più! Chiaro?
Bene. Quel che stavo dicendo è che costa molto essere autentiche, signora mia, e in questa cosa non si deve essere tirchie, perché una è più autentica quanto più assomiglia all'idea che si è fatta di se stessa.
No, non bisogna essere tirchi, signora mia, quando è in gioco l'autenticità. E non è vero che si è autentici quando si è semplicemente quel che si è, ma, per parafrasare ancora Nietzsche, quando lo si diventa, quando e quanto più si riesce ad assomigliare all'idea che uno si è fatto di se stesso.
E così se l'idea di Agrado non sta negli archivi anagrafici, non nella biografia e addirittura sfugge alla natura e alle sue leggi, ma si riesce ad acciuffare solo tramite uno sforzo della volontà, unito all’artificio tecnico per realizzare quel volere – possiamo tranquillamente chiamarla arte, già che l'arte è proprio e solo questo: volontà, e rappresentazione –, così forse in Guido Hauser, che non esiste, se non in caratteri tipografici mobili e flessuosi, c’è molta più autenticità, più verità, che non nella reale esistenza di Guido Bussoli, zavorrata dal suo corpo.
Potremmo allora concludere che la verità, sempre e ancora come l'arte, è solo un fatto di volontà e di rappresentazione, che per altro è la conclusione a cui era giunto un altro grande filosofo. In ogni caso ciò che ora sfugge non è certamente la verità, continuiamo a strillare la verità emotiva che ci stringe la gola, e ad affermare sul web i nostri pensieri più segreti e marginali, ma siamo piuttosto in debito di realtà.
E arriviamo così alla domanda delle domande: che cos'è, la realtà?
Al di là della sua sfuggente definizione linguistica, consistenza ontologica e perfino riflesso spirituale, direi che possiamo affermare con una certa ragionevole certezza che la realtà, al contrario della rappresentazione, è qualcosa che ha bisogno di confronto, di continue verifiche in una relazione vissuta tra persone. Ma verificare significa in ultima analisi limitare, limitare lo slancio creativo dentro la vischiosità del mondo.
Nel tempo di Facebook, di Twitter, di Instagram e dei videogame sparatutto, l'altro in carne e ossa finisce così con l'essere percepito quale limite al trionfo della volontà individuale, in un impeto che non è però acquisitivo come nel passato, non più rapace, ma è divenuto espressivo.
La relazione tra esseri umani, compressa in un tale infinito gioco di specchi delle mie brame, assume allora il tratto monologante di questo blog, in cui Guido Hauser ha preso il posto di Guido Bussoli. Quel che rimane è nel migliore dei casi rappresentazione, fabula. Per quanto, vi assicuro, della pasta più autentica e "vera".
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Grande Guido Hauser. Ma se non ci fosse Guido Bussoli non avremmo Hauser.
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