Ho scritto molto, nel passato, su Facebook. Perlopiù dando giudizi pessimi e trancianti.
Rileggendo alcuni di quei testi,
mi sembra ora che il tono sia eccessivamente avvinto, quasi livoroso. Ma pur
non comprendendo la ragione di tanto coinvolgimento (come quelli che
sobbollono alle decisioni di un arbitro sportivo…) nella sostanza sono ancora
d’accordo con me stesso. Mi sembra però di avere trovato almeno un motivo per
plaudere a Facebook, se non proprio per benedirlo.
Il più famoso e frequentato social network possiede l’incontestabile virtù di essere un punto di osservazione privilegiato sulla
società, quasi una sua equazione algebrica, ma sfrondata da ogni ridondanza
numerale. Semplificando all’osso le variabili antropologiche, l'impressione è che
l’umanità, così come appare denudata su Facebook, possa essere ridotta a questo
semplice schema: guardatemi,
amatemi!
Il momento ostensivo è rappresentato dai post che ciascuno può pubblicare in bacheca, mentre la remunerazione sentimentale, quando c'è, è data dai like che vengono successivamente inseriti dagli altri utenti. I like, piccoli simboli a forma di pollice sollevato, sono dunque
eventuali, come sempre eventuale, ossia incerto, è l’amore. Siamo così arrivati
allo svelamento della X, alla soluzione dell’enigma matematico che si mostra
all’altro capo dell’uguale: Facebook come correlativo oggettivo dell'amore? Secondo me non ancora, possiamo fare di meglio.
Semplificando ulteriormente, togliendo parentesi, spostando numeri e
ripianando frazioni, è possibile giungere a un grado più basilare di
conoscenza. L’amore, perlomeno quello continuamente reclamato sulle pagine web, più che il suo versante romantico ricorda la riproduzione sessuale. Attraverso un testo o una fotografia che ci rappresenti simbolicamente, abbiamo il nostro spermatozoo, l'immagine seminale da introdurre nell’utero-pupilla dei nostri “amici” virtuali, e ciò nella
speranza di fecondarne l’attenzione e generare infine un bimbo-like, ossia una forma di riconoscimento stabile e magari anche l'avvio di una nuova discussione. In
fondo è quel che fanno gli artisti, l'approccio esteticamente seduttivo che sto tentando anch’io in questo
momento.
Bisogna però aggiungere che è uno schema incontestabilmente
maschile: ingravidare il maggior
numero di femmine, divorando, quando d’intralcio, tutto quel che rappresenta un ostacolo al nostro slancio copulativo, come fanno i leoni con i cuccioli che non sono propri (l’equivalente
tecnologico dell’omofagia, sarà allora l’atto di bannare i rompicoglioni). In ogni
caso, se anche qui è in gioco la vecchia feroce lotta per la riproduzione, comprenderemo come mai i post diventano obsoleti tanto in fretta, lasciando spazio a nuovi uzzoli espressivi. Dobbiamo quindi riconoscere a Facebook un ulteriore debito conoscitivo. Quello di
raccontarci, in presa diretta, addirittura istantanea, la metamorfosi dei
generi sessuali.
Se le donne si comportano su Facebook come dei maschi al quadrato –
l’incessante e ipertrofica produzione di post, perlopiù irrilevanti, per essere amate in modo totalmente
indifferenziato, orizzontale –,
tocca riconoscere che anche noi maschi stiamo virando in direzione contraria, confondendo le carte delle distinzioni tradizionali che esistevano tra i sessi.
Distribuire i propri pollicioni alzati, commentare gli interventi degli “amici”,
in taluni casi addirittura adottandoli (adozione rappresentata dalla funzione condividi), sono gesti che
richiamano l’eterna disposizione femminile alla cura dell’altro, senza la
quale non potrebbe esserci l’ovulazione e lo sviluppo dell’immagine-seme,
inizialmente gettata nel mucchio attraverso nuovi spunti di discussione.
E poi che dire dell’esibizione, continua, assillante e soprattutto
iper-materna, delle fotografie dei figli che fanno il bagnetto, la cacca,
qualsiasi cosa purché siano i nostri figli, nipoti, consanguinei. Istantanee da
conficcare nella terra informatica di nessuno, come totem che ribadiscano alla
comunità quanto le nostre creature siano uniche e belle. Ma, per paradosso, il
messaggio che passa all'esterno è di segno opposto: ecce homo, uomo tra gli uomini e le donne di questa epoca incerta e sospesa, che ci vede uguali negli affanni, identici nel desiderio di essere riconosciuti e amati, fosse pure in contro
terzi attraverso la nostra scazzatissima progenie.
E invece no, le lancette corrono pure qui, il tempo passa anche
sotto i sofà, per citare una vecchia canzone di Paolo Conte. E dunque in ultimo,
ancora più al fondo nella nostra immersione matematica, cosa ci troviamo?
Affidarsi ai figli – non importa se in carne e ossa oppure
fatti di pensiero, parole – e quindi al testo come equivalente simbolico
della specie, in cui abbiamo la sensazione di replicarci e continuare a respirare, vivere, dire cazzate, non
rappresenterà forse il riparo estremo verso l’insinuarsi del tempo che ci continua a incalzare, e di
cui nemmeno il chiasso del web riesce a coprire un rumorino di fondo, come una
lama di falce che si arrota sulla pietra?
Massì, dai, diciamocelo: la morte...
Ma allora Facebook, il luogo astrattamente dislocato dove i morti non vengono
sepolti, con l’amico scomparso in un incidente che continua a sorriderti in bermuda, assieme al Pastore tedesco che gli offre giudizioso la zampetta,
Facebook è della morte il più recente e goffo e illusorio baluardo. Ma per
questo è anche infinitamente umano, come le scemenze che ci riversiamo.
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