martedì 21 giugno 2016

Il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e chi pensa di salire, ma comunque scende

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale. E’ l’inizio di una delle più belle poesie di Eugenio Montale dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, a quel tempo appena scomparsa:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.


Ci ripenso scendendo la scalinata del palasport di Sesto San Giovanni. Non da solo, anche io sto dando il braccio, ho offerto il mio braccio a un uomo incerto sulle gambe, un vecchio senegalese. All’interno della massiccia struttura di ferro e cemento, consacrata temporaneamente a moschea, altre centinaia, forse migliaia di senegalesi stanno ascoltando Serigne Mame Mor Mbacke, responsabile internazionale e guida spirituale della confraternita islamica dei Muridiyya, a cui aderisce l’ottanta per cento dei senegalesi presenti in Italia.

La prima volta che sono capitato a un incontro simile, il mese scorso a Pontevico, vicino a Brescia, è stato per errore. Volete venire a una festa senegalese? ci ha chiesto garrulo Modu, un conoscente senegalese che vive a Sondrio, dove vende accendini e altre cianfrusaglie cinesi. Una festa, beh, sì, si può fare, abbiamo risposto io e il mio amico Sergio. Il giorno successivo ci siamo trovati, unici visi pallidi tra migliaia di volti “abbronzati”, avrebbe detto il nostro ex presidente del consiglio, all’interno di una vecchia fabbrica di biciclette, prima acquistata e poi riconvertita in centro spirituale dalla comunità muridista italiana.

Via le scarpe, volto rivolto alla Mecca, ma dove cazzo ci hai portato Modu, non avevi detto che era una festa?! Dopo festa, dopo festa, fa spallucce lui, prima pregare… Il furbastro aveva finto che fosse una festa, per ottenere un passaggio in automobile. In realtà si trattava di una cerimonia religiosa.

Eppure ci siamo tornati. Questa volta mi sono comprato pure un caffetano, me ne sono innamorato appena l’ho visto esposto in uno dei numerosi banchetti, quasi un suk a margine della zona adibita ai discorsi e alle preghiere. E’ di un bel blu squillante, blu Klein direi così a occhio, non ho saputo resistere è l’ho già indossato, per quanto con i jeans sotto, insomma… blu Klein con ricami argentati sulla scollatura al petto. Con un abito così verrebbe voglia di pavoneggiarsi su una chaise longue, la cannuccia del mojto in bocca e un leoncino in braccio che fa le fusa. Qui invece, oltre essere vietatissimo assumere alcolici – oltretutto siamo nel mese del ramadan – agghindato a questo modo sono semplicemente uno tra i tanti, tra i tutti, pur restando una slavata eccezione.

Diversamente dall’uniformità che avverto nell’islamismo di matrice araba, o in misura minore in quello sciita di derivazione khomeynista, mi pare che in Senegal la religione non sia però riuscita a estirpare un fortissimo senso di identità personale, che nelle donne  raggiunge tratti di allegra vezzosità. Sì, gli abiti sono tradizionali, ma non ne vedo uno uguale a un altro, un cappellino annodato allo stesso modo, mentre ogni donna e, in fondo, anche ogni uomo, è come se reclamasse uno stile proprio, un colore unico dentro al grande acquarello del mondo. Mancando di una norma rigida e fissa, se non il richiamo a un generico senso di tolleranza e ospitalità – la teranga, per cui i senegalesi sono conosciuti ovunque –, il termine eccezione finisce così col perdere di significato. Eccezionale è qui sinonimo di normale, ed è il conformismo a rappresentare uno scarto malvisto.

Che sia questo il motivo per il quale io e Sergio siamo voluti tornare, dopo il primo scherzetto che ci ha tirato Modu? L’occasione per percepirci, mescolati tra molti ugualmente disposti, ma intimamente ed esteriormente diversi, anche noi come esseri particolari, e ciò indipendentemente dal colore della nostra pelle. Un lieve capogiro, quasi un paradosso. La parte che si distingue dal tutto ma, allo stesso tempo, avverte affettuoso il perimetro dell’insieme, senza il quale il singolo smetterebbe di essere l'indispensabile tassello di un puzzle.

Mancando del sostegno qui offerto dalla comunità, l'orgogliosa singolarità di cui ci facciamo vanto finisce così col somigliare, nel migliore dei casi, a una bottiglia di Coca-Cola che galleggia in mezzo al mare, mentre nella peggiore a un detrito, uno degli infiniti scarti che si addensano nelle discariche d'Occidente. Tra i variopinti murid, invece, ci si distingue senza perdersi.

E poi c’è questa scala, la scala che sto discendendo insieme al vecchio, a ogni gradino mi stringe la mano un po’ più forte, allentando la presa nelle numerose soste: un gradino, una pausa, un gradino, un’altra pausa... E’ strano, non mi era mai capitato di pensare a una scala nei termini della discesa, ma sempre solo come scale da salire, traguardi da raggiungere, vette ripide e aguzze da scalare, su cui conficcare infine una bella bandierina rossa, che stia lì a sventolare in eterno sul muso paffuto e indifferente delle nuvole.

Anche nella poesia di Montale mi sembrava ci fosse qualcosa di poco limpido, perfino di stonato. Perché il poeta scrive di scale da scendere e non invece da salire, come parrebbe ovvio? Sì, ok, “il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e c’è chi sale”, ma la metafora della vita (i poeti non si occupano forse di metafore?) è meglio restituita dall’immagine della lenta e faticosa ascesa, non in quella di una comoda discesa. E come mai, negli ultimi tre versi, Montale ci confessa di non conoscere la direzione, milioni di gradini senza sapere dove cavolo stai andando, quindi anche cosa stai scrivendo? Era dunque solo tramite lo sguardo della donna, per quanto offuscato (Drusilla Tanzi portava occhiali spessi), che riusciva a riconoscere la strada, a riconoscersi?

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.


Domande, ancora domande. Intanto, mentre scendiamo lentamente, attenzione al gradino, pausa, un nuovo gradino, dai che siamo quasi arrivati, i giovani sulla scala si scostano con naturalezza, come le canne al passaggio dell’imbarcazione. Con loro, in un unico movimento coreografico, le ragazze che vendono il ginger fatto in casa, o il purpureo karkadè, rimuovono svelte le bottigliette di plastica dai gradini, ci fanno spazio. Noi procediamo senza affanno, non abbiamo fretta. Scendere è più semplice e lieve che salire.

Ne approfittiamo per parlare un po’. Stringendomi sempre, l’uomo mi dice delle cose nella sua lingua. E però mi scusi, io non parlo africano, je ne parle pas le wolof, ma lui continua, non è importante che io capisca. Il vecchio parla, io ascolto. Non intendo una parola ma sto nel suono rauco della sua voce, quasi una musica da un altro tempo, una musica senza tempo, ma con un luogo ben preciso. Questa scala.

Arrivato al termine io faccio per lasciarlo, ma lui ancora mi trattiene. Quindi si fruga sotto il caffetano ed estrae una caramella, anche quella presumibilmente fatta artigianalmente e senza andare troppo per il sottile con le norme igieniche, come quasi tutto qui. Me la infila nel pugno. Questa ti porterà fortuna, traduce un ragazzino nelle vicinanze. Allora io gli bacio il dorso della mano e la porto alla mia fronte, accompagnando il gesto con un inchino, come ho visto fare dagli altri. Il vecchio ricambia il saluto tradizionale senegalese, e ci separiamo.

Probabilmente non ci vedremo più. Io cercherò altre scale da salire, altri libri da leggere, nuove cose da vedere e imparare, mentre lui scenderà probabilmente anche l’ultimo gradino che gli manca, riconsegnando al fiume il fagotto delle sue caramelle senza etichetta, senza marca, una nuvola di zucchero con uno straccetto di carta sopra.

Anche il ricordo di questa strana giornata si farà sempre più tenue, rimanendo forse solo un dubbio. Quello che anche per noi le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, fossero le sue: la sapienza ultima di chi poco ha avuto dalla vita, ma molto ha lasciato andare, arrendendosi al tempo e alla corrente senza sfidare la legge di gravità, per lasciare ai salmoni il vano cruccio di nuotare in senso opposto. E che dunque le scale davvero siano fatte per scendere, non per salire.

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