venerdì 24 giugno 2016

Cosa vuoi fare da grande?, o sulla bellezza, i pugni e il destino



Cosa vuoi fare da grande? si chiedeva un tempo ai bambini. Forse lo si chiede ancora, non so, non ho bambini. Io rispondevo da principio la guardia forestale – e pensare che ora detesto la montagna, i boschi, tutto ciò che richiami a un’idea anche solo impressionistica di natura –, ma poi mi sembrò che il destino mi avesse cucito una bella divisa caki da pompiere, per concludere che volevo diventare pugile. 

Cassius Clay era il mio pugile preferito, la rosa più rossa del mio giardino mentale. L’avevo conosciuto con quel nome da ultima frontiera, perfetto nella sua sibilante e concisa americanità, e non avevo nessuna voglia di incespicare in un altro nome vagamente esotico, Muhammad qualchecosa come pretendeva di essere chiamato ora. Io mi immaginavo Mandrake che si sveglia una mattina sostenendo di essere Lothar... No, non funziona. Così continuavo a chiamarlo Cassius Clay. 

Di Cassius Clay mi piaceva tutto e tutto cercavo di cacciarmi in testa, sforzandomi di memorizzare ogni suo minimo gesto: la strafottenza gagliarda con cui danzava attorno all’avversario, le torsioni del busto per schivare i colpi, tutto. Alcuni ragazzi della mia età si iscrivevano ai corsi di karate perché dicevano che se uno che fa karate incontra un pugile o un lottare o uno sfigato qualunque, vince quello che fa karate. Io non facevo di  questi calcoli. Mi pareva che ci fosse qualcosa di bello nei movimenti di Cassius Clay, e quella bellezza mi bastava.

Il tramite per i miei studi estetici era un massiccio televisore Grundig in bianco e nero, 24’ pollici o giù di lì, si accendeva una lucina arancione sul trasformatore e poi, dopo un paio di immensi minuti (dai, su, sbrigati!), apparivano dentro al monitor le prime sagome incerte. Quando mi sembrava di essermi impossessato dei movimenti del campione, li riprovavo davanti allo specchio incastonato in un armadione in tek stile "per adesso questo passa il convento, quando saremo ricchi si vedrà", che occupava per intero un lato della camera da letto dei miei genitori.

Sinistro, sinistro, sinistro... l’avversario va inizialmente tenuto distante con il jab, così almeno sosteneva un commentatore piccolino e grassoccio e con i baffetti, non riusciva pronunciare la esse e al suo posto diceva effe, “finisto fopra l’arcata fopraciliare”. Ma poi, all’improvviso, bum, diretto destro proprio sulla punta del mento, seguito da un montante secco oppure un gancio: è a questo modo che è venuto giù anche l’immenso Foreman, è cascato come una noce di cocco matura dentro a un paese che a me ricordava i film di Tarzan, con Johnny Weissmuller che fa l'urlaccio mentre Cita si frega le banane. 

La prima volta che ho fatto a botte sul serio sarà stata all'inizio delle medie, e quale miglior occasione per replicare tutto lo schema, punto per punto, anche il doppio passo, con cambio istantaneo di guardia, per confondere il rivale. Peccato che le abbia buscate di santa ragione. Però la volta successiva ho vinto io, ho steso un ragazzone con un paio di anni e molti centimetri più di me. Solitamente era un buono, quasi femmineo nella sua impacciata gentilezza, ma in quell’occasione mi aveva sfidato davanti a tutta la congrega del cortiletto di via Parolo, non potevo certo tirarmi indietro. Credo l’avesse fatto per far colpo su una ragazza di nome Adele ricordo ancora il suo abitino Naj-Oleari, con piccoli orsetti azzurri che svolazzavano quando montava in bicicletta , tanto che era stata proprio lei ad arbitrare l’incontro, contando fino a dieci mentre l’altro era in terra con un filo di sangue che gli usciva dalla bocca. Ma non aveva vinto il più forte, no, aveva vinto il più bello. E quella volta il più bello ero io.

Ora che Cassius Clay è morto da una manciata di giorni, ora che ho perfino imparato a chiamarlo Muhammad Ali, comprendendo infine che uno è ciò che fortemente vuole essere, anche a discapito della realtà come il Barone di Münchhausen, che si acciuffava il bavero da solo per risollevarsi dagli impicci, ora che non c’è più nemmeno Tarzan, Orzowei, la tivù dei ragazzi con le reti spiraliformi che scendono dolcemente all’inizio della programmazione pomeridiana, sulle note del Guglielmo Tell di Rossini, ora che pure gli orsetti azzuri di Adele, insomma, lasciamo andare… ora mi sembra che l’unica cosa che mi rimane sia proprio quell’idea di bellezza. La bellezza, sì.

Non la bellezza di Muhammad Ali, intendo, piuttosto la bellezza come ultimo e generale appiglio, la bellezza in assoluto mi verrebbe da dire, se non temessi la retorica protervia di ogni affermazione assoluta. Perché la bellezza, nella sua geometrica inutilità, contiene un’indicazione nitidissima a uno sguardo minimamente vigile, come i sassetti che Pollicino seminava nel bosco. La bellezza, ecco, è la traccia per ritrovare la via di casa.

Non si dovrebbe allora chiedere a un bambino “cosa vuoi fare da grande”, introducendo surrettiziamente l’idea che la sua vita futura sarà tutto un fare, un mettere in opera gesti finalizzati alla realizzazione di un fine pratico o, peggio, di un tornaconto economico, ma piuttosto in che modo vuoi essere tu, quale la forma della bellezza a cui intendi dare corpo?

Gli ultimi incontri di Muhammad Ali non avevano nulla di efficiente o agonisticamente remunerativo, le prendeva perlopiù, l’ha gonfiato anche Larry Holmes, suo vecchio impietoso sparring partner, eppure tra una ripresa e l’altra c’era almeno un momento di pura e inutile bellezza, che illuminava il volto degli spettatori e il senso di una vita. E così anche in quei tristissimi maldestri incontri, Muhammad Ali, per qualche istante, tornava a casa. Una casa di dolcissimo marzapane.

Quando ancora ci chiediamo cosa vuoi fare da grande – perché ormai l’abbiamo capito, che grandi non lo diventeremo mai… – io penso che dovremmo farci un’altra domanda: cos’è quella cosa che quando la fai sei bello, ma proprio bello? E se non ci guadagni nulla pazienza, perché, per piccina che sia, è comunque casa tua.

Se ti arriva una risposta, qualsiasi risposta, è quella cosa lì che devi fare da grande, quella la bellezza che devi e puoi essere nella vita

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