Cosa vuoi fare da grande? si chiedeva un tempo ai
bambini. Forse lo si chiede ancora, non so, non ho bambini. Io rispondevo da principio la guardia forestale – e pensare che ora detesto la montagna, i boschi, tutto
ciò che richiami a un’idea anche solo impressionistica di natura –, ma poi mi sembrò che il destino mi avesse cucito una bella divisa caki da pompiere, per concludere che volevo diventare pugile.
Cassius Clay era il mio pugile preferito, la rosa più rossa del mio giardino mentale. L’avevo conosciuto con quel nome da ultima frontiera, perfetto nella sua
sibilante e concisa americanità, e non avevo nessuna voglia di incespicare in un altro nome vagamente esotico, Muhammad qualchecosa come pretendeva di essere chiamato ora. Io mi immaginavo Mandrake che si sveglia una mattina sostenendo di essere
Lothar... No, non funziona. Così continuavo a chiamarlo Cassius Clay.
Di Cassius Clay mi piaceva tutto e tutto cercavo di
cacciarmi in testa, sforzandomi di memorizzare ogni suo minimo gesto: la strafottenza gagliarda con cui danzava attorno all’avversario, le torsioni del busto per schivare i colpi, tutto. Alcuni ragazzi della mia età si iscrivevano ai corsi di
karate perché dicevano che se uno che fa karate incontra un pugile o un lottare
o uno sfigato qualunque, vince quello che fa karate. Io non facevo di questi calcoli. Mi
pareva che ci fosse qualcosa di bello nei movimenti di Cassius Clay, e quella
bellezza mi bastava.
Il tramite per i miei studi estetici era un massiccio
televisore Grundig in bianco e nero, 24’ pollici o giù di lì, si
accendeva una lucina arancione sul trasformatore e poi, dopo un paio di immensi minuti (dai, su,
sbrigati!), apparivano dentro al monitor le prime sagome incerte. Quando mi
sembrava di essermi impossessato dei movimenti del campione, li riprovavo davanti allo
specchio incastonato in un armadione in tek stile "per adesso questo passa il convento, quando saremo ricchi si vedrà", che occupava per intero un
lato della camera da letto dei miei genitori.
Sinistro, sinistro, sinistro... l’avversario
va inizialmente tenuto distante con il jab, così almeno sosteneva un commentatore
piccolino e grassoccio e con i baffetti, non riusciva pronunciare la esse e al suo posto
diceva effe, “finisto fopra l’arcata fopraciliare”. Ma poi, all’improvviso, bum,
diretto destro proprio sulla punta del mento, seguito da un montante secco
oppure un gancio: è a questo modo che è venuto giù anche l’immenso Foreman, è cascato come una noce di cocco matura dentro a un paese che a me ricordava i film di Tarzan, con Johnny Weissmuller che fa l'urlaccio mentre Cita si frega le banane.
La prima volta che ho fatto a botte sul serio sarà
stata all'inizio delle medie, e quale miglior occasione per replicare tutto lo schema, punto per punto,
anche il doppio passo, con cambio istantaneo di guardia, per confondere il rivale. Peccato che le abbia buscate di santa
ragione. Però la volta successiva ho vinto io, ho steso un ragazzone con un
paio di anni e molti centimetri più di me. Solitamente era un buono, quasi femmineo nella sua
impacciata gentilezza, ma in quell’occasione mi aveva sfidato davanti a tutta la congrega del cortiletto di via Parolo, non potevo certo tirarmi indietro. Credo l’avesse
fatto per far colpo su una ragazza di nome Adele – ricordo ancora il suo abitino Naj-Oleari, con piccoli orsetti azzurri che svolazzavano quando montava in bicicletta –, tanto che era stata proprio
lei ad arbitrare l’incontro, contando fino a dieci mentre l’altro era in terra con
un filo di sangue che gli usciva dalla bocca. Ma non aveva vinto il più
forte, no, aveva vinto il più bello. E quella volta il più bello ero io.
Ora che Cassius Clay è morto da una manciata di
giorni, ora che ho perfino imparato a chiamarlo Muhammad Ali, comprendendo
infine che uno è ciò che fortemente vuole essere, anche a discapito della realtà come
il Barone di Münchhausen, che si acciuffava il bavero da solo per risollevarsi dagli impicci, ora che non c’è più nemmeno Tarzan, Orzowei, la tivù dei ragazzi con le
reti spiraliformi che scendono dolcemente all’inizio della programmazione
pomeridiana, sulle note del Guglielmo Tell di Rossini, ora che pure gli orsetti azzuri di Adele,
insomma, lasciamo andare… ora mi sembra che l’unica cosa che mi rimane sia
proprio quell’idea di bellezza. La bellezza, sì.
Non la bellezza di Muhammad Ali, intendo, piuttosto la
bellezza come ultimo e generale appiglio, la bellezza in assoluto mi verrebbe
da dire, se non temessi la retorica protervia di ogni affermazione assoluta. Perché
la bellezza, nella sua geometrica inutilità, contiene un’indicazione
nitidissima a uno sguardo minimamente vigile, come i sassetti che Pollicino
seminava nel bosco. La bellezza, ecco, è la traccia per ritrovare la via
di casa.
Non si dovrebbe allora chiedere a un bambino “cosa
vuoi fare da grande”, introducendo surrettiziamente l’idea che la sua vita
futura sarà tutto un fare, un mettere in opera gesti finalizzati alla
realizzazione di un fine pratico o, peggio, di un tornaconto economico, ma piuttosto in che modo vuoi essere tu,
quale la forma della bellezza a cui intendi dare corpo?
Gli ultimi incontri di Muhammad Ali non avevano
nulla di efficiente o agonisticamente remunerativo, le prendeva perlopiù, l’ha gonfiato anche Larry Holmes, suo
vecchio impietoso sparring partner, eppure tra una ripresa e l’altra c’era
almeno un momento di pura e inutile bellezza, che illuminava il volto degli
spettatori e il senso di una vita. E così anche in quei tristissimi maldestri
incontri, Muhammad Ali, per qualche istante, tornava a casa. Una casa di
dolcissimo marzapane.
Quando ancora ci chiediamo cosa vuoi fare da grande –
perché ormai l’abbiamo capito, che grandi non lo diventeremo mai… – io penso che dovremmo farci un’altra domanda: cos’è quella cosa che quando la fai sei
bello, ma proprio bello? E se non ci guadagni nulla pazienza, perché, per
piccina che sia, è comunque casa tua.
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