mercoledì 22 giugno 2016

Le cose sono perfette così, o su come l’ideologia si traveste da spiritualità



Le cose sono perfette così come sono. Vi è mai capitato di sentire questa frase? In genere ha largo corso in ambienti legati alla spiritualità, ma quella di stampo vagamente orientale, in odore di New Age, da cui si è in seguito fatta strada anche nel pensiero comune. Non però in quello monoteista, per le tre grandi religioni del libro col cavolo che le cose sono perfette! Ebrei, cattolici e islamici ancora si affidano al principio di responsabilità personale, da cui solo può scaturire la redenzione del credente: la vita è una lunga strada verso Damasco, su cui cambiare, di volta in volta, il filtro dell'olio o la propria visione delle cose.

E invece no, ti ribatte l’amico che esce dalla Libreria Esoterica col suo fagottino di certezze, la conoscente che frequenta da un paio di settimane il corso di yoga del comune, e a cui fa eco il naturopata a cui ti sei rivolto per quella brutta sciatica che ti assilla: le cose sono perfette così, anche la tua sciatica. Pausa e sorrisino per segnalare che la sa più lunga, molto più lunga di te. Perfette!

E’ una convinzione che parte da lontano, addirittura il secondo millennio prima di Cristo, quando sono state scritte in India le prime quattro Saṃhitā, successivamente comprese e sviluppate nella raccolta dei Veda. Nel pensiero indiano, che è comunque molto più differenziato di quanto comunemente si creda, è in effetti presente una generica acquiescenza nei confronti dell’esistente. Ma non in quanto perfetto così com’è, e piuttosto per via di una generale e cosmica imperfezione. Che, a differenza delle religioni rivelate, è però irrimediabile, inemendabile almeno sul piano della realtà materiale. Sarebbe dunque più corretto chiamarla necessità.

Come a dire che se tutto fa schifo, tutto è sbagliato alla radice, tutto è dolore, la vita dell’ultimo paria non sarà allora tanto peggio di quella di un brahmano ricoperto di unguenti. Entrambi sono infatti sottoposti al ciclo delle rinascite (saṃsāra, in sanscrito), per cui ci si continua a reincarnare sulla base degli effetti della vita precedente. Così attraverso il karma, ossia letteralmente il comportamento, l’azione, viene trasferito un mandato di sofferenza e lavoro alla nuova esistenza. Questo, almeno, fino a quando non si ottiene la liberazione dal ciclo, per il tramite di un'altra parolina virale e spesso malintesa: il nirvana.

Se il nirvana è il momento in cui il palloncino bianco si stacca dalle mani del bimbo e vola alto nel cielo, la perfetta imperfezione del karma consisterà dunque in qualcosa come una zavorra, una fotografia di cemento, una lapide insomma, che si estende sulla tomba del presente a rendere più difficoltosa la fuga dalla carne.

Bisogna però aggiungere che se tale convinzione è teoricamente elegante, tocca convenire, almeno nei testi della tradizione braminica, pure si è rivelata quale base di una morale che giustifica le peggiori violenze e discriminazioni. Se un uomo nasce povero è giusto che povero debba rimanere, già che solo nella condizione di povertà, all’interno di una comunità altrettanto povera e negletta, potrà sciogliere il proprio karma. Che è poi la premessa fiosofica di un implacabile ordine sociale basato sulle caste. Ma questo, in Occidente, si chiama ideologia, vale a dire un pensiero strumentale alle gerarchie costituite del potere. Tradotto in pratica: uomo, zitto e mosca e non rompere tanto i coglioni!

Se però proviamo ad applicare allo stesso schema logico – ciò che è, in quanto è, è anche giusto o meglio necessario che sia – uno slancio prospettico e non solo retrospettivo, ci accorgiamo che la metafisica indiana possiede anche un elemento sovversivo e liberatorio, almeno in potenza. Muovendoci con l'immaginazione dall'effettivo all'eventuale, ossia dal presente al futuro, dobbiamo infatti riconoscere che tale istante possiede il tratto di necessaria perfezione che attribuiamo al presente, e ciò essendosi, anche solo mentalmente, realizzato lo scenario atteso. In altre parole, dal momento che nella prefigurazione è già stato quel che ancora deve essere, dunque, anch'esso, è. 

Sulla scorta di tale esperimento mentale – una sorta di giustificazione ontologica dell'intenzione – possiamo fare qualsiasi cosa, anche prendere a calci in culo principi e sovrani. Ma forse è più chiaro con un esempio terra a terra.

Immaginiamo allora che al naturopata che vi ha appena detto di meritarvi la vostra sciatica, voi rispondiate legandolo al lettino per i massaggi. Quindi aprite il frigorifero e vi ingozzate con il tofu e le schifezze macrobiotiche che lì sicuramente avrà stipate, e dopo un bel rutto fantozziano prendete la ketchup, tassativamente biologica, e con quella gli scrivete sulle pareti di casa: viva la foca, che dio la benedoca. In ultimo, dai, ciliegina sulla torta, facciamogli pure pipì nel vaporizzatore di essenze, quelle nubi tossiche con cui vi ammorba le nari. Alla fine liberate il naturopata e gli dite, con lo stesso suo serafico sorrisetto: Amico, nessun problema, peace & love. Quel che è stato doveva semplicemente essere, evidentemente era il tuo karma che lo richiedeva…

Occhio, dunque, quando ci crogioliamo nella cartolina di un presente immobile e perfetto. Perché dal futuro potrebbero giungere nuove cartoline, e tanto vale assumerci la responsabilità di firmare in nome proprio. Non essere sempre lì ad aspettare di leggere quel che ci scrive la vita, in un'eterna vacanza dal pensiero: Qui tutto bene, ha smesso di piovere, i limoni sono in fiore e le barchette nel mare. Un bacione alla mamma!


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