giovedì 24 luglio 2025

Oplà (mi ricordo 36)

 


Mi ricordo che bisognava risalire una scaletta ripidissima, e prima di imboccare una seconda scala più ampia e meno scoscesa e con i gradini ricoperti da moquette, a un livello intermedio, dunque, tra il ventre del traghetto dove avevamo lasciato la 125 Rally di papà – Avanti, avanti ancora un po’… ferma! strillava un uomo con una balena azzurra stampata sulla t-shirt – e il salone passeggeri con le poltroncine amaranto e un piccolo bar (quando il mare era mosso però restava chiuso), a quel punto si apriva un vano della dimensione di due cabine del telefono, con all’interno una panca di legno e sbarre di metallo a sigillarne lo spazio. Lì venivano fatti sedere i detenuti diretti a Porto Azzurro.

Io e mia cugina Alessandra, durante la navigazione da Piombino a Portoferraio, fingevamo di andare in bagno per scendere a guardare quei volti temuti, fuori dalla gabbia sostavano due carabinieri sempre in piedi. Ma subito scappavamo spaventati, come se avessimo visto il diavolo. Non ci era del tutto chiara la differenza tra un carcere normale e un penitenziario, ma avevamo inteso che c'entrava in qualche modo la morte: quegli uomini avevano certamente intrallazzato con la morte (sparando, strozzando, accoltellando), e ciò bastava per trasformare il nostro viaggio con in valigia le biglie da far rotolare sulla spiaggia, ogni biglia di plastica conteneva la foto di un famoso ciclista, tutti volevano Gimondi ma Eddy Merckx era nettamente più forte, lo trasformava in un film del terrore.

Quando si iniziavano a intravedere le rocce di Capo Vita e l’Isola dei Topi, il traghetto rallentava fino a fermarsi – Dove sono i freni delle barche? chiedevo allo zio, che non mi ricordo cosa rispondesse – e un’altra imbarcazione ma più piccola, molto più piccola, era simile ai barconi dei pescatori, accostava. Da una porticina laterale i carcerati venivano fatti montare su quella, ad attenderli nuove guardie con una divisa grigia che sembrava da postino.

Incollati alle battagliole del ponte di coperta osservavamo frementi l’operazione, di solito i carcerati erano al massimo due. I carabinieri li tenevano per mano come faceva il nonno Pinin quando ci portava alle giostre, mentre con l’altra mano si protendevano verso i postini, prima uno e poi il complice, pensavamo, di qualche malefatta. Eppure quel
 gesto possedeva un'intimità che strideva con tutte le cose brutte che la tivù diceva sui banditi: più che diavoli, sembravano ora dei poveri diavoli.

Ma a un certo punto, oplà, con un saltello ecco il primo detenuto superare il pericoloso corridoio aperto tra le due imbarcazioni, e così il carabiniere che gli teneva la mano lo lasciava andare, facendo sospettare che la separazione gli dispiacesse almeno un po'. Quando anche il secondo aveva completato il trasbordo, i pistoni del motore diesel aumentavano il loro ritmo, e il barcone si avviava borbottando in direzione della fortezza di Porto Azzurro. Il traghetto aspettava che fosse a sufficiente distanza, poi ripartivamo anche noi.

Non ne ho mai riparlato con Alessandra, ma vorrei chiederle se anche lei ogni tanto ci ripensa. A me è venuto un dubbio. E se ciò che spiavamo con morbosa apprensione c'entrasse davvero qualcosa con la morte, una morte senza diavoli e carabinieri e postini... Semplicemente, morire è lasciare un’imbarcazione grande per salire su una piccola, tanto piccola da apparire invisibile nel vasto mare, lasciare una mano e afferrare una mano che ci attende amichevole, per condurci a una nuova prigione. Ma poi non farà lo scherzetto di ritrarla, facendoci cascare nell’acqua gelida?

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