giovedì 15 febbraio 2024

Liberaci dal male

Da un paio di settimane guardo tutte le mattine questa foto e piango. Di solito sono poche lacrime, gli occhi si inumidiscono e poi subito passa; ma mi è capitato di piangere anche per un quarto d’ora consecutivo, un rubinetto rotto. Il bambino paffuto all’interno della recinzione protettiva sono io, lo scatto risale verosimilmente ai tardi anni Sessanta – quanti anni avrò avuto: due, due e mezzo… non arrivo a tre. Nel caso sarebbe il 1968, l’anno della grande contestazione ma anche quello in cui Nino Benvenuti riconquista la cintura dei pesi medi battendo Emile Griffith, a Memphis viene assassinato Martin Luther King e Brigitte Bardot si fidanza con il playboy piacentino Gigi Rizzi. Intanto il mio vocabolario comincia ad arricchirsi, a mamma, papà, cacca e brutto (brutto sgabello che non dovevi stare lì, il mio piede ti ha urtato, brutta acqua con cui vogliono farmi il bagnetto) iniziano ad aggiungersi parole come cane, bau e palloncino. Poi le cose sono andate come sono andate, e adesso comprendo che quel bambino con lo sguardo rivolto a chi impugna l'apparecchio fotografico (che cavolo è quell'aggeggio? sembra pensare) mentre le mani sono protese oltre la barriera di gomma che sormonta la rete, oltre perfino la balaustra del terrazzo, oltre... verso un mondo che per definizione si assume vasto, quel bambino non meritava una vita tanto brutta. In fondo le parole che sono venute dopo sono superfetazioni: brutta, questa vita è stata semplicemente brutta; tanta cacca, palloncini pochi e subito rubati dal cielo in un bau. Gesù bambino, ti ricordi della preghiera che recitavo tutte le sere prima di addormentarmi? Erano passati pochi anni dalla fotografia ma ero sempre io, d'altronde siamo sempre noi, chi ti dice che ogni sette anni cambiamo tutte le cellule  più pedanti le elencano per cronologia di esaurimento – non ha mai osservato attentamente l'abisso del proprio sguardo infantile, io che facevo finta con la mamma di essermi già addormento e quando lei spegneva la luce ti chiamavo sottovoce come fanno gli innamorati; non lo so mica se fosse un amore reciproco, confesso che il dubbio mi è poi venuto. Ma quando si è presi si dice qualsiasi cosa, era un po' ridicola perfino la forma, senza pause di respiro, dovevo fare in fretta perché le palpebre premevano e la testa sprofondava nel cuscino. Così partivo a palla: Caro-Gesù-io-mi-metto-nelle-tue-mani-tienimi-stretto-fino-a-domani, e alla parola domani stavo già ronfando. Tu però l'hai presa alla lettera, hai stretto troppo, ahi, così mi fai male! Anche sui pacchi destinati alle vetrerie sta scritto maneggiare con cura. Se non sei in grado di farlo ti chiedo di desistere, lasciami andare, sbarazzati dell'errore – capita a tutti di sbagliare –, fammi tornare onda quantistica di probabilità. Ora che mi rivedo nel grumo in cui tutto ha avuto inizio, il mio personale Big Bang, mi accorgo che è stato un continuo passare da una recinzione all'altra, e quella con le sbarre più spesse si chiama corpo. Oppure mantieni le promesse: dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri cazzo di debiti ma, soprattutto, e alla svelta, liberaci dal male. Amen.

Nessun commento:

Posta un commento