Sono molte le categorie – tutte arbitrarie – con cui si può dividere
l'esperienza, tra cui quella privata della lettura di una storia. O, ancora più
a monte, l'esperienza di chi le storie le scrive per professione, e cioè gli
scrittori.
A me sembra che una suddivisione particolarmente significativa sia quella tra
scrittori che, almeno pubblicamente, parlano in continuazione di scrittura,
libri, gerarchie di valore letterario, e altri che non lo fanno o lo fanno in
modo meno compulsivo; ad esempio parlano di pesca come fa Richard Brautigan, oppure
Carver, Hemingway ma anche Raul
Montanari, che ha appena pubblicato un bel libro sull'argomento
(Più grande di noi. Confessioni di un pescatore a Mosca,
Hopefilmonster, 2022).
Io ho pescato solamente una volta, ma confesso che la sensazione di una creatura
viva e viscida che si dibatte all'interno della mia mano, mentre con un
gridolino poco virile cerco di estrarre una struttura di metallo ricurva e
affilata che gli procura lacerazioni nel palato, per poi deporla, ancora
fremente, in un paniere dove continua a dibattersi prima morire d'asfissia,
insomma tutto ciò non mi è parso così divertente, e potrei fare un secondo
tentativo solo se mi garantissero che al mio amo abboccheranno solo vecchie
scarpe sfondate.
Ma non mi diverto troppo nemmeno nel leggere quegli scrittori che mi conducono
nei sotterranei della lingua (mai mostrare al lettore la sala
macchine! ammoniva Céline); o, come avviene sui social, gli scrittori che utilizzano il linguaggio per conversare direttamente tra di loro, saltando il passaggio ridondante per cui il mondo viene utilizzato come tramite. Una
sensazione che mi fa tornare alla mente l'antologia poetica realizzata da
Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nel 1975, si intitolava profeticamente Il pubblico della poesia.
La felice intuizione dei due critici fu di avere compreso che la poesia si
avviava a diventare una pratica carbonara (da qui il linguaggio cifrato)
realizzata, quanto fruita, dagli stessi poeti. I poeti coinciderebbero in altre
parole con il proprio pubblico, quel che in linguistica viene chiamata
tautologia. Per la gran parte delle persone erano infatti più che sufficienti i
testi delle canzoni dei cantautori, a offrire quella dose quotidiana di parole
circonfuse da un'aura evocativa, oscuramente sonora, di cui la specie a cui
apparteniamo pare avere necessità.
Allo stesso modo, la letteratura è sempre più appannaggio esclusivo degli
scrittori, i quali oltre a leggersi l'uno con l'altro scrivono le recensioni
sulle pagine culturali dei quotidiani, esibiscono con orgoglio la lista della
spesa in libreria. Quando il bisogno di storie – un ordine drammaturgico
impresso al vapore del possibile o al magma del reale, in buona sostanza – viene
nel frattempo soddisfatto altrimenti, ad esempio dalle serie tivù e dalle story
sui social (oggi, mentre ero andata a lezione di yoga, quella birba di mio
figlio ha fatto questo o quest'altro, e così poi l'inquilina che sta
all'ammezzato, quella vecchia megera, ma davvero vi chiederete? Davvero!).
Di più, ciò che l'umanità ha sempre prodotto e consumato sono le storie esemplari,
quelle in cui il singolo – l'eroe, la principessa, il matto… e chi in questi
tipi ideali si vede riflesso – trovano collocazione dentro un disegno
collettivo. Le ultime narrazioni veramente esemplari mi sembra di poterle rinvenire
nei libretti d'opera, e prima ancora nei testi sacri, i cicli epici, i grandi
miti del passato. Poi è stato inventato il cinematografo, che ha fatto saltare
il banco. E così la scrittura è progressivamente divenuta una faccenda per
scrittori.
Eppure, in anni relativamente recenti, qualche romanzo ancora riusciva a fare
presa sul reale. Mi viene in mente il caso di Cent'anni di solitudine di
Garcia Marquez. Io ero un bambino svogliato che leggeva solamente Asterix e
Capitan America, ma ho visto quel libro passare di mano in mano mentre venivano
aperti bar, ristoranti, circoli culturali chiamati Macondo; fu il nome anche
del cane di un mio amico, un buffo meticcio con un occhio azzurro e uno
marrone. Per non dire della diffusione del nome Ottilia dopo l'uscita delle Affinità elettive. Ebbene, riuscite a immaginare qualcuno che oggi viene
chiamato con il nome di un personaggio romanzesco, un romanzo appena
pubblicato?
Abbiamo però un paradosso. L'irrilevanza sociale a cui viene confinata l'attività
letteraria produce, quale contraccolpo, un'accresciuta rilevanza interna, e da
qui il fenomeno a cui accennavo: scrittori che parlano solo di libri,
addirittura ne fotografano le copertine, si fanno pompini tra di
loro direbbe Mr Woolf di Pulp Fiction, in un gioco di sponda che per
tacita connivenza ripristina l'importanza del proprio gesto, disconosciuto
all'esterno. Tutto ciò è molto umano, non lo biasimo. Lo scrittore Fulvio Abbate lo chiama amichettismo.
Ma ve li immaginate Cechov o Jack London o Pasolini od Omero, sì immaginateveli
mentre aprono la loro pagina Facebook. Quindi iniziano a spartirsi like e ban,
cuoricini, post che sono liste di proscrizione ed esercizi di ammirazione,
tutto come si dice in famiglia. Non ci siete mica riusciti, vero? E ciò perché
avevano di meglio da fare: dovevano scrivere, dovevano vivere e a volte anche
ingaggiare duelli al primo sangue, come quello che vide contrapporsi
Bontempelli e Ungaretti nel giardino della villa di Pirandello. Le ragioni ci
appaiono ora eccentriche: questioni estetiche, visioni del mondo alternative.
La differenza con il presente non consiste dunque nel fatto che gli scrittori
si disinteressavano un tempo alla letteratura, ma che quell'interesse – forse
con un pizzico di presunzione – faceva tutt'uno con la vita, su cui provavano a
incidere con la penna. Mentre l'attuale assenza di incidenza ha trasformato
questo rapporto in affabile circolarità, ornamentale esibizione corporativa. E
ciò a prescindere dalla bontà o meno dei testi. Quando nemmeno gli elettrauti,
sui loro calendari, espongono l'immagine di altri elettrauti, ma quella di
giovani donne poco vestite.
domenica 8 gennaio 2023
Il pubblico della narrativa
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