domenica 8 gennaio 2023

Il pubblico della narrativa

Sono molte le categorie – tutte arbitrarie – con cui si può dividere l'esperienza, tra cui quella privata della lettura di una storia. O, ancora più a monte, l'esperienza di chi le storie le scrive per professione, e cioè gli scrittori.

A me sembra che una suddivisione particolarmente significativa sia quella tra scrittori che, almeno pubblicamente, parlano in continuazione di scrittura, libri, gerarchie di valore letterario, e altri che non lo fanno o lo fanno in modo meno compulsivo; ad esempio parlano di pesca come fa Richard Brautigan, oppure Carver, Hemingway ma anche Raul Montanari, che ha appena pubblicato un bel libro sull'argomento (Più grande di noi. Confessioni di un pescatore a Mosca, Hopefilmonster, 2022).

Io ho pescato solamente una volta, ma confesso che la sensazione di una creatura viva e viscida che si dibatte all'interno della mia mano, mentre con un gridolino poco virile cerco di estrarre una struttura di metallo ricurva e affilata che gli procura lacerazioni nel palato, per poi deporla, ancora fremente, in un paniere dove continua a dibattersi prima morire d'asfissia, insomma tutto ciò non mi è parso così divertente, e potrei fare un secondo tentativo solo se mi garantissero che al mio amo abboccheranno solo vecchie scarpe sfondate.

Ma non mi diverto troppo nemmeno nel leggere quegli scrittori che mi conducono nei sotterranei della lingua (mai mostrare al lettore la sala macchine! ammoniva Céline); o, come avviene sui social, gli scrittori che utilizzano il linguaggio per conversare direttamente tra di loro, saltando il passaggio ridondante per cui il mondo viene utilizzato come tramite. Una sensazione che mi fa tornare alla mente l'antologia poetica realizzata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nel 1975, si intitolava profeticamente Il pubblico della poesia.

La felice intuizione dei due critici fu di avere compreso che la poesia si avviava a diventare una pratica carbonara (da qui il linguaggio cifrato) realizzata, quanto fruita, dagli stessi poeti. I poeti coinciderebbero in altre parole con il proprio pubblico, quel che in linguistica viene chiamata tautologia. Per la gran parte delle persone erano infatti più che sufficienti i testi delle canzoni dei cantautori, a offrire quella dose quotidiana di parole circonfuse da un'aura evocativa, oscuramente sonora, di cui la specie a cui apparteniamo pare avere necessità.

Allo stesso modo, la letteratura è sempre più appannaggio esclusivo degli scrittori, i quali oltre a leggersi l'uno con l'altro scrivono le recensioni sulle pagine culturali dei quotidiani, esibiscono con orgoglio la lista della spesa in libreria. Quando il bisogno di storie – un ordine drammaturgico impresso al vapore del possibile o al magma del reale, in buona sostanza – viene nel frattempo soddisfatto altrimenti, ad esempio dalle serie tivù e dalle story sui social (oggi, mentre ero andata a lezione di yoga, quella birba di mio figlio ha fatto questo o quest'altro, e così poi l'inquilina che sta all'ammezzato, quella vecchia megera, ma davvero vi chiederete? Davvero!).

Di più, ciò che l'umanità ha sempre prodotto e consumato sono le storie esemplari, quelle in cui il singolo – l'eroe, la principessa, il matto… e chi in questi tipi ideali si vede riflesso – trovano collocazione dentro un disegno collettivo. Le ultime narrazioni veramente esemplari mi sembra di poterle rinvenire nei libretti d'opera, e prima ancora nei testi sacri, i cicli epici, i grandi miti del passato. Poi è stato inventato il cinematografo, che ha fatto saltare il banco. E così la scrittura è progressivamente divenuta una faccenda per scrittori.

Eppure, in anni relativamente recenti, qualche romanzo ancora riusciva a fare presa sul reale. Mi viene in mente il caso di Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez. Io ero un bambino svogliato che leggeva solamente Asterix e Capitan America, ma ho visto quel libro passare di mano in mano mentre venivano aperti bar, ristoranti, circoli culturali chiamati Macondo; fu il nome anche del cane di un mio amico, un buffo meticcio con un occhio azzurro e uno marrone. Per non dire della diffusione del nome Ottilia dopo l'uscita delle Affinità elettive. Ebbene, riuscite a immaginare qualcuno che oggi viene chiamato con il nome di un personaggio romanzesco, un romanzo appena pubblicato?

Abbiamo però un paradosso. L'irrilevanza sociale a cui viene confinata l'attività letteraria produce, quale contraccolpo, un'accresciuta rilevanza interna, e da qui il fenomeno a cui accennavo: scrittori che parlano solo di libri, addirittura ne fotografano le copertine, si fanno pompini tra di loro direbbe Mr Woolf di Pulp Fiction, in un gioco di sponda che per tacita connivenza ripristina l'importanza del proprio gesto, disconosciuto all'esterno. Tutto ciò è molto umano, non lo biasimo. Lo scrittore Fulvio Abbate lo chiama amichettismo.

Ma ve li immaginate Cechov o Jack London o Pasolini od Omero, sì immaginateveli mentre aprono la loro pagina Facebook. Quindi iniziano a spartirsi like e ban, cuoricini, post che sono liste di proscrizione ed esercizi di ammirazione, tutto come si dice in famiglia. Non ci siete mica riusciti, vero? E ciò perché avevano di meglio da fare: dovevano scrivere, dovevano vivere e a volte anche ingaggiare duelli al primo sangue, come quello che vide contrapporsi Bontempelli e Ungaretti nel giardino della villa di Pirandello. Le ragioni ci appaiono ora eccentriche: questioni estetiche, visioni del mondo alternative.

La differenza con il presente non consiste dunque nel fatto che gli scrittori si disinteressavano un tempo alla letteratura, ma che quell'interesse 
 forse con un pizzico di presunzione  faceva tutt'uno con la vita, su cui provavano a incidere con la penna. Mentre l'attuale assenza di incidenza ha trasformato questo rapporto in affabile circolarità, ornamentale esibizione corporativa. E ciò a prescindere dalla bontà o meno dei testi. Quando nemmeno gli elettrauti, sui loro calendari, espongono l'immagine di altri elettrauti, ma quella di giovani donne poco vestite.

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