mercoledì 1 giugno 2022

Por el amor de una mujer, o su amore, canzoni e conoscenza

Por el amor de una mujer, con queste parole sussurrate con voce tremula inizia una celebre canzone di Julio Iglesias, che prosegue con una sfilza di luoghi comuni sul più musicato tra i sentimenti; l’amore, appunto.

Una canzone che a me piace molto, forse proprio perché non cerca l’originale, l’inaudito, ma si crogiola dentro l’ovvio, che corrisponde a un sostanziale fraintendimento dell’amato, risparmiando al pensiero lo sforzo di un esercizio interpretativo. Anche perché l’amore difficilmente sopravvive a un’analisi attenta – prima regola per uno psicanalista: mai innamorarsi dei pazienti! – ed è proprio nel fraintendimento che trova il suo humus propizio, e naufragar mi è dolce nella melassa.

Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano a questo modo…?

Il termine fraintendimento, nel suo significato letterale, implica la presenza di qualcosa, un fra da collocare tra colui che intende e ciò che è inteso. Non ci è dato sapere da cosa sia costituito tale filtro sviante, le possibili interferenze sono numerose e variabili. Le possiamo però fare convergere dentro la categoria sommaria degli altri: quanto più tra me e ciò che osservo lo spazio è sgombro dal giudizio degli altri (pre-giudizio), quanto meno lo fraintenderò.

La domanda, ancora più radicale, a questo punto diventa: davvero è concepibile una relazione conoscitiva pura, non incrostata da alcuna interferenza circostante, nessun intralcio al vettore che collega la pupilla di Alvaro Vitali al sedere di Nadia Cassini che fa la doccia, e da lui osservato dal buco della serratura?

Nella filosofia fenomenologica tale atteggiamento viene chiamato epochè, sospensione del giudizio, riprendendo una postura di imperturbabilità intellettuale già raccomandata dagli scettici. In altre parole, se vogliamo comprendere l’altro dobbiamo fare piazza pulita degli altri.

Eppure, è proprio ciò che non è io, ciò che è altro da me – i miei genitori, amici, accadimenti fortuiti, libri letti, programmi televisivi e soprattutto il linguaggio che parlo, e nel farlo sono a mia volta parlato dalle sue strutture ed etimologie –, a determinarmi nel profondo, al punto che Lacan lo chiama Grande Altro; formula icastica con cui allude a uno spazio relazionale astratto, in insiemistica potremmo chiamarlo insieme maggiore.

Proviamo a vederla a questo modo. Senza l’insieme maggiore dell’esistenza, intarsiata dai suoi segni umani oltre che delle infinite esistenze particolari, a precedere e affiancare ciascuno, Charlie Brown non potrebbe neppure accostarsi alla ragazzina dai capelli rossi, nella velleitaria speranza che lei ricambi lo sguardo. E ciò perché sia Charlie Brown sia la ragazzina dai capelli rossi sono interamente immersi in quel brusio di fondo. O cambiando di parallelismo sensoriale, il Grande Altro è la cornice che consente il ritratto.

Ed è qui che possiamo ritornare più conciliati alla canzone di Julio Iglesias, e a i suoi stereotipi e fraintendimenti amorosi. Perché il canto rivolto all’oggetto del desiderio è slancio non solo verso una mujer, ma anche verso un hombre, un piastrellista, una giraffa, qualsiasi chi e cosa. I fraintendimenti non ne rappresentano infatti l’ostacolo, ma sono la precondizione a caricare l’interferenza al massimo grado, come la molla prima di scagliare la biglia dentro al flipper. Solo a quel punto può cominciare il gioco, accendendo le infinite lucine che chiamiamo vita.

Tocca così arrendersi al fatto che senza una coniugazione multipla, in cui il soggetto corrisponde, ancora indifferenziato, al pronome noi, non esisterebbero neppure un io e un tu che cercano di entrare in relazione. Per dirla con la parole di un’altra canzone leggera leggera: “gli altri siamo noi.”

E arriviamo alla storiella umoristica per cui ogni rapporto sessuale sarebbe un’orgia, in cui oltre agli amanti sono sempre presenti anche i rispettivi genitori, scoprendo che è vera per difetto; sono presenti anche i nonni, gli zii, i cugini, i vicini di banco delle elementari e, ahimè, i precedenti fidanzati. Quando ci lamentiamo perché la nostra compagna continua a parlarci del suo ex – e non c’è sensazione peggiore, specie quando lo fa in termini elogiativi – potremmo allora provare ad attenuare il fastidio pensando che ci stia parlando di lei. Quella lei che è diventata ciò che è, e amiamo, anche grazie a lui. Il maledetto!

Se però estendiamo il modello della canzone d’amore, con le sue semplificazioni zuccherose, le sue sciocchezze in rima baciata con cuore (la rima più difficile al mondo, suggeriva Umberto Saba), ma anche un genuino slancio al superamento della condizione attuale, con un po’ di disinvoltura potremmo approdare all’ipotesi che rappresenti il modello universale alla conoscenza.

C'è stato insegnato che la filosofia si distingue dalla sapienza, l'antica sophia greca, perché a differenza di quest’ultima manca del suo oggetto, a cui protende con tensione amorosa. Non basta ancora. È la canzone d'amore, e non l'amore, il denominatore filosofico comune. La canzone d'amore in un certo senso inventa l'amore, lo rende necessario con un gioco di prestigio della fantasia, poco importa se travestendolo con arrangiamenti sinfonici o incidendolo sulle pareti di una grotta, tra un uro stilizzato e un mammut.

Lo ricaviamo dal fatto che non esiste conoscenza senza l’ipoteca di un contesto che è ben lungi dall’essere oggettivo, e piuttosto narrativo: la rappresentazione del mondo a cui siamo abituati, così come le canzoni d’amore, la poesia, le narrazioni mitologiche e le fiabe popolari, ci abituano e preparano all’incontro con tutto ciò che è ignoto, in una sorta di pre-sciistica in attesa che nevichi.

Certo, le rappresentazioni dell'amore non coincidono con l’amore vissuto, e ne sono piuttosto una versione semplificata e corretta, così come il telegiornale di Emilio Fede non corrispondeva in modo neutrale alle notizie. Ma invece di ricercare un’impossibile imparzialità, ho l’impressione che convenga – non per essere più veri, e piuttosto autentici – approfondire le coordinate di quello spazio culturale e multivocale che ci predetermina, in un infinito gioco di specchi che interpreta il gesto dell’interpretazione, situandola nel tempo e nello spazio biografico in cui le generazioni si susseguono.

Scopriremmo, in tal modo, che la nostra rappresentazione dell'amore nasce nelle corti provenzali intorno al XI secolo, in cui a essere cantate in versi erano donne neppure conosciute, donne sposate con qualcun altro, che venivano idealizzate attraverso parole e immagini che non avrebbero potuto essere più fasulle, e proprio per ciò sublimi e cariche di forza persuasiva. A quella menzogna hanno infatti creduto, e continuiamo a crederci tutt'ora ogni volta che accendiamo la radio, ascoltiamo una canzone d'amore. Lo spiega molto bene Denis de Rougement nel suo testo più famoso, L'amour et l'Occident.

Ma questa disponibilità a riconoscerci alla maniera del tronco di una grande quercia, in cui ogni anno che trascorre, colpo d'ascia che riceve, traccia un cerchio concentrico al suo interno (nei tempi buoni il tratto è fermo e deciso, mentre si fa incerto in seguito ai traumi che anche gli alberi subiscono) si pone agli antipodi dell’epochè fenomenologica, assumendo come necessarie alla comprensione anche le scorie da cui siamo costituiti, le pietanze precotte, frasi fatte, trottolini amorosi e du-du da-da-da.

Tutto ciò va guardato dritto negli occhi, per pronunciare infine la più imbarazzante delle ammissioni: ecco, quello sono io, e allo stesso tempo non lo sono. Perché come concludeva Milo De Angelis in una bellissima poesia: “se ti togliamo ciò che non è tuo, non ti rimane niente.”

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