Chiara Ferragni, nei giorni scorsi e come suo diritto, azzarderei perfino merito, ha fatto visita al Memoriale della Shoah. Ciò che invece continuo a non comprendere è perché Liliana Segre l'abbia invitata, accolta, accompagnata, e perché ci fossero fotografi, perché il personale della virtuosa associazione fosse ugualmente presente: tutti eleganti e ricomposti nell'inquadratura come i bambini di una celebre canzone di Giorgio Gaber, che non sapendo se ridere o piangere battono le mani, fanno finta di essere sani.
Tra questi una mia amica di lunga data, che così
commenta l'episodio su Facebook: "@chiaraferragni ha accettato l'invito di
@segre.liliana ed ha visitato per la sua prima volta il Memoriale della Shoah,
ne siamo stati entusiasti..."
Mi sono permesso di farle notare che il termine
entusiasmo significa dio dentro di me
(en theos), e che anche a cercare
bene, immergendomi fin dentro alle cellule del mio corpo, fatico a scorgere un
dio, anche piccolo piccolo, che so Manitù, da associare alla visita di Chiara
Ferragni al Memoriale della Shoah. No, nessun dio a suggerirmi quale sia
l'outfit più adatto all'estate 2022.
Ne è nato un breve scambio di reciproca e
spigolosa incomprensione, ma che forse possiede degli spunti di interesse
generale, addirittura civile, rilanciare (più che a risolvere) le ambiguità del termine in questione, di cui alle scuole medie d'antan
era presente una svaccata ora di insegnamento, in cui ho imparato a dormire con gli occhi aperti. Provo a sintetizzare i corni del dilemma:
1) fosse pure Belzebù, tutto fa brodo per
indirizzare l'attenzione dei distratti sulla memoria della Shoah, secondo le
dinamiche consolidate dell'emulazione (posizione semplificata, da me, della mia
amica);
2) la soggettività dell'osservatore, non solo
nella fisica quantistica ma nelle cose di tutti i giorni, contribuisce a
determinare la natura dell'oggetto osservato. Così non è lo stesso se viene
replicata la pupilla di Chiara Ferragni o, che so, quella di Pasolini (mia
posizione).
Continuo a questo punto a titolo personale, già
che lo scambio su Facebook si è bruscamente interrotto. Qual è il carattere
peculiare che riconosciamo allo sguardo di Chiara Ferragni? A parte una
meravigliosa azzurrità, io direi la tautologia: Ferragni, come il marito, si
guarda guardare, e nel farlo noi guardiamo loro in una circolarità infinita che
per analogia possiamo accostare ai video in slow motion del crollo delle Twin
Towers; solo che qui a implodere è la semantica: non c'è niente da capire,
tutto esiste solo come superficie sensibile in cui la quantità (dei follower)
ha preso il posto del pregiudizio novecentesco della qualità, da rinvenire
quale polpa sotto la scorza del frutto.
Non fraintendetemi, non voglio biasimarla o fare
dell'ironia. In fondo quando diciamo che i Ferragnez sono degli influencer li
prendiamo come giusto sul serio: influenzare significa contribuire alla
determinazione del proprio tempo, in senso nemmeno troppo lato fare della
filosofia; Socrate e Sartre erano degli influencer. Poco importa se lui, Fedez, sentendo pronunciare il nome di Giorgio
Strehler, risponda "e chi cazzo è?", mentre se i nomi fossero stati
quelli Chanel, Cristian e Isabel, la coppia più celebre d'Italia avrebbe
esclamato all'unisono: "Ma sono i figli di Ilary e Francesco (Totti),
salutameli se li vedi?" Spuma dell'onda in luogo dei coralli che scorge il palombaro. Immagine che si fa cosa. La filosofia pop-moderna è servita.
Ma se questo è il modello di riferimento – del
tutto legittimo, sia chiaro –, perché applicarlo alla vicenda chiave del
Novecento, vicenda abissale che ancora ci inabissa e confonde, perché
proiettare sulla Shoah l'orizzontalità dello sguardo di Chiara Ferragni,
sperando così di fare da apripista a una più diffusa visione, va da sé ornamentale come la mediazione da cui è scaturita?
Mi è allora venuto in mente il bravo scrittore
ceco Jachym Topol, che in L'officina del
diavolo (Zandonai, 2012) metteva in scena un immaginario parco giochi dei
crimini del secolo scorso, lo sterminio nazi-stalinista ricostruito come fosse
Disneyland. Nell'arruolare personaggi eccentrici ma molto popolari quali
testimonial, ossia testimone che letteralmente significa colui o colei che,
attraverso il proprio corpo, garantisce un'esperienza tramandata, la certifica
biograficamente, rischiamo di modificare l'esperienza testimoniata,
convertendola in fiction. Magari anziché ridere mettiamo l'emoticon con la
lacrimuccia, ma la disposizione adulterata non cambia.
Ovviamente non penso che queste siano state le
intenzioni di Liliana Segre, né quelle di Chiara Ferragni nell'accogliere con
uguale gentilezza l'invito. Ma avrei gradito più discrezione, molto meglio una
visita privata senza assurgere alla condizione inflazionata di evento, per
altro dubbia; se un evento è ciò che infrange, inatteso, l'ordine dei giorni,
la sua moltiplicazione ne vanifica le possibilità.
Solo a questo modo possiamo sperare di ritrovare
un entusiasmo autentico, un dio dentro di noi o una stellina danzante, direbbe
Nietzsche. Diversamente, le stelle finiscono col ridursi a quelle esposte nelle
vetrine dei negozi nel periodo di Natale, dove tutto si compra e tutto si vende.
Propendo per la prima valutazione: ben venga pure Belzebù se offre visibilità. Poi tu mi dici: 99 followers su 100 della ferragnez gang avranno occhi solo per quell'azzurrità, ma se poi fosse solo uno davvero a chiedersi il perché di un memoriale? Di una Shoah? Perché vanificarlo anche se altri 99 lo ignoreranno a bella o brutta posta?
RispondiEliminaForse triste, ma ben venga pure Belzebù.. per aprire anche una sola crepa nel mercatino di Natale..
Vanessa Roghi, una brava storica, qui articola il ragionamento meglio di quanto potrei fare io, che in forma solo impressionistica (come è giusto visto le mie non-competenze) mi sono limitato al fatto di cronaca. Magari, senza volere farti cambiare opinione a tutti i costi, trovi quale spunto interessante: https://vanessaroghi.com/2016/03/02/anna-frank-una-belieber-o-della-pop-shoah/amp/?fbclid=IwAR2SCNDZ1e13rLfYZFN1uYkV9Op4DkpiWXuZ99mdDWIROnHIPYPohDfXxwY
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