Curiosando sui profili femminili di Facebook
Dating – la meravigliosa funzione che promette, senza mantenere, una
cornucopia di relazioni erotiche e sentimentali attraverso Facebook – mi sono sorpreso nello
scoprire una gran quantità di buyer, personal shopper, consulenti di immagine e tatuatrici. Questo almeno ciò che le iscritte dichiarano alla voce professione.
Ci ho pensato un po', ma, anche risalendo molto indietro nel tempo, non
credo di avere mai conosciuto una tatuatrice, oppure una consulente di
immagine, una buyer, una personal shopper (tra le ultime due attività non so nemmeno bene la differenza).
Ci sono anche svariate educatrici cinofile, naturopate, logopediste,
insegnanti di yoga, medium, manager, criminologhe, editrici, scrittrici, poetesse ecc. E devo
dire che qualche donna che si occupa di queste cose l'ho incontrata, in
particolare ho una cara amica che insegna yoga, l'ex fidanzata del mio amico
Ivan faceva la logopedista, ma sono poche; anche e come diceva Moravia i veri
poeti, "per ogni secolo ne nascono tre o quattro".
Se non proprio alle sole dita di una mano, mi affido così ai piedi per la
conta, ma poi mi fermo lì. Mentre non ho incrociato su Facebook Dating nessuna disoccupata – nemmeno una, magari con una
laurea in Lettere o Filosofia – quando invece abbondano tra le persone che frequento. Zero anche
donne delle pulizie, vigilesse, cassiere all'Esselunga; le maestre elementari assumono nomi
esotici, tipo agenti trasformazionali in ambito psico-pedagogico.
Mi è allora venuto un sospetto: è vero che il web riflette il mondo
esterno, ma in proporzione alterata e secondo lo stesso rapporto che esiste tra
caricatura e ritratto – un naso normale diventa un'enorme canappia, il testone
al posto della testa, mentre le gambe si scorciano fino quasi a scomparire.
Quando nel passato mi è capitato di bazzicare il web – ora lo faccio molto
meno –, ho finito col confidare in questa rappresentazione, sostituendo la
caricatura al ritratto, fino a dimenticare che entrambi rimandano a qualcosa i cui
contorni vanno progressivamente sfumando. Massì, chiamiamola pure realtà.
È come nel Mito della caverna di
cui parla Platone nel settimo libro de La
Repubblica. I prigionieri, incatenati in una grotta, osservano le ombre proiettate sulla parete che gli sta di fronte; sono generate dal fuoco
che arde alle loro spalle in un braciere, davanti scorrono delle statuette. Tutte cose
che non possono vedere, neppure gli uomini che trasportano le statuette, i prigionieri
fanno esperienza solo delle ombre, che perciò confondono con la realtà.
Non che le ombre siano del tutto irreali, mantengono una qualche degradata
somiglianza con le statuette che, a loro volta, sono la copia di un piano più originale; tendono cioè all'origine attraverso un progressivo gioco di matrioske, approssimazioni più o meno accurate. Platone chiama l'ultimo e definitivo livello eidos, forma, a noi meglio noto come mondo delle idee (platoniche, appunto).
A differenza del grande filosofo, io non penso però che si debba abbandonare il web per ritrovare la vita vera; una nozione che mi appare sempre più destituita di senso, o perlomeno non saprei dove cercarla. Restiamo pure in questo sottomondo – in fondo è confortevole, se postiamo la foto di un gattino guadagniamo mazzi di like – composto da consulenti di immagine e tatuatrici, personal shopper e buyer. E perché no, leggiamole le poesie di cui ci fanno dono le nostre amiche poetesse, non costano nulla, non costa nulla essere una caricatura e si riduce l'attrito.
Per goderci il web senza nostalgie residue dobbiamo però fare ancora un
piccolo passo, che ai prigionieri di Platone è mancato: liberarci dalle
catene e poi slanciarci verso le ombre, non verso l'uscita della caverna,
confonderci con il loro appannato baluginare, diventando della materia di cui sono fatti i sogni. Ombre, sì. O meglio ancora: ombre nell'ombra, come titolava un bel
romanzo di Paco Ignacio Pablo II.
E quando, con orgoglio, potremo anche noi affermare di essere un personal shopper, avremo colto l'unica opportunità che questo tempo dischiude. La mimesi, che non di rado trascolora in fiction. Altra e più solida verità non si offre, neppure nel mondo esterno fatto da disoccupati, donne di servizio, cassiere. Non corrisponde infatti all'esperienza che siamo quel che facciamo, non più almeno, ma siamo quel che gli altri ci consentono di essere, e la dogana dei social si alza a ogni bislacca figurazione. Basta possedere una narrazione elementare ed emotiva, in cui il dire non deve necessariamente allinearsi alla sostanza della cosa detta.
Con buona pace delle care vecchie maestre elementari, che, prima di diventare agenti trasformazionali in ambito psico-pedagogico, indicavano l'abbecedario alla parete e poi pronunciavano la lettera effe. E tutti noi, bambini degli anni settanta, gridavamo in coro: "Fiore!"
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