lunedì 26 agosto 2019

Veronica Tomassini, o su quando la virtù diventa una gara


Su Pangea, rivista avventuriera di culture & idee presente sul web, il 20 agosto è stata pubblicata un’intervista a Veronica Tomassini, la firma è di Matteo Fais. Nel rispondere alle poche domande che rappresentano un esile canovaccio, la scrittrice siciliana parla di impegno, politica, scrittura e contestazione; in particolare quella alle politiche sull’immigrazione del governo Salvini.
La materia è ampia e complessa, ma la Tomassini sembra rubricare il tutto sotto un’unica chiave interpretativa: quella della messa in scena dei buoni sentimenti a opera di una sinistra mediamente colta, mediamente impegnata, mediamente caritatevole e insomma in tutto e per tutto media, che ha nei suoi scrittori e intellettuali il compiaciuto corrispettivo pubblico, da essa deprecato con vigore. Insomma, viene rinnovata la critica al filisteismo progressista che con Tom Wolfe, nel 1970, guadagnò il fortunato stigma di radical chic.
Tra questi sono evidenti, per quanto impliciti, i riferimenti a Saviano, Murgia, Littizzetto, Veronesi, Albinati, Raimo, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Come già in romanzi viscerali e tormentati e soprattutto belli, Tomassini gli oppone la propria esperienza di amore, eros, cicatrici, vodka, fame, freddo, pidocchi, da cui anni fa è stata risucchiata  nel tentativo di aiutare un giovane immigrato polacco, e quindi altre persone nelle medesime e disperate condizioni.
Il nocciolo del suo ragionamento a me appare il seguente: io ho fatto più di voi, ho infilato le mie mani, mani di giovane donna innamorata, dentro la merda e il sangue, e invece voi che fate? Meno, molto meno al mio confronto. Da ciò ricava che i suoi colleghi sono dei “sovversivi da davanzale”, che si cimentano in un impegno a basso voltaggio solo per ottenere dei benefici dal sistema editoriale, ancora ben collocato dentro la cosiddetta egemonia culturale di sinistra; e questo, per inciso, probabilmente corrisponde a verità.
Nella logica formale, la struttura del suo pensiero prende il nome di induzione, e opera attribuendo delle ragioni generali a comportamenti particolari; intendo, le ragioni dell’impegno di Saviano potrebbero, verosimilmente, essere diverse da quelle della Murgia, e quest’ultime da ciò che muove gli altri scrittori o semplici cittadini che contestano le politiche immigratorie della Lega di Salvini. Inoltre, l’appassionata intervista sconta quel che potremmo chiamare effetto asticella, come avviene nel salto in alto. Un’asticella che va continuamente alzata per raggiungere il record mondiale della virtù.
Se dunque, e nessuno glielo contesta, Tomassini si è adoperata con generoso sforzo nel tentativo di aiutare gli ultimi della terra, c’è qualcuno che ha fatto certamente più di lei. Mi immagino ad esempio un’ipotetica intervista a Gino Strada: “Queste scrittrici che rimproverano ai loro colleghi di dire molto e fare poco, ma che cavolo vogliono, di che diavolo cianciano?! In confronto a quanto ho fatto io scompaiono nel muschio del presepe, sono delle sovversive da social network…”
Ma anche il molto realizzato da Gino Strada non sarebbe niente, almeno se lo rapportassimo, mettiamo, con San Francesco d’Assisi, e così via all’infinito alla ricerca di un’inconcussa purezza. Per quel che mi riguarda, nella vita ho fatto davvero pochino per aiutare il mio prossimo evangelico quanto il laico altro da me, ma sono grato anche per queste imperfette e forse (in taluni casi almeno) interessate misure di solidarietà umana e politica, Richard Gere che con una mano si ravviva la zazzera bianca e con l’altra porge un piatto di pasta e fagioli. E perché no, mi chiedo?
Certo, non sarà moltissimo rispetto alla catabasi negli inferi dell’immigrazione slava compiuta da Veronica Tomassini, ma, come suggerisce la parabola dei talenti, che ciascuno restituisca in base al capitale ricevuto, ciascuno in base alle proprie energie e capacità. E lo sprezzo con cui la Tomassini sputa sui modi e le forze degli altri scrittori, non le fa certamente onore.

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