
Lo scrittore Aldo Nove ha pubblicato
di recente un post che fa rimpiangere cosa avrebbe potuto essere Facebook,
se solo non avesse imboccato la rotta del Titanic. Sulla sua bacheca ricordava
come i canti anarchici, la cui eco più remota possiamo cogliere dalla metà del
diciannovesimo secolo, si sono estinti dopo un centinaio di anni, spariti da un
giorno all'altro come le giacche con le spalline imbottite con cui negli
anni ottanta si entrava al Plastic.
È impressionante rileggere ora i testi di
quelle canzoni, in cui si esprime, anzi meglio si urla – la
scelta del verbo appartiene sempre ad Aldo Nove – la propria
diversità economica, o in termini meno eufemistici la povertà in cui ci si
dibatteva con orgoglio, essendo vissuta quale coscienza di classe. La povertà
ha però in seguito cambiato connotazione pubblica, assumendo un alone quasi
pornografico: "il povero non è povero, è sfigato. Deve
fingersi entusiasta Dio sa di cosa, mascherarsi da pupazzo felice e recitare il
ruolo di chi è nel sistema. Surreali colloqui di lavoro in cui, con la cravatta da
colloquio, devi fingerti appassionato a lavori del cazzo senza mai
accennare al fatto che c'è chi lavora per mangiare (ma che stranezza)."
Una fotografia lucidissima a cui non c'è molto
da aggiungere. Se non, magari, provare a desumere anche il lato in ombra, che
non appare nello scatto ma ad esso si compenetra come la notte con il giorno.
Personalmente, lo ricavo dalla riflessione del filosofo e psicanalista sloveno
Slavoj Žižek, che grossomodo in coincidenza della data indicata dallo scrittore di Viggiù (poco dopo la seconda metà del
Novecento) fa risalire una metamorfosi nella formazione delle identità
collettive, fino ad arrivare allo stravolgimento attuale. Quando Ugo Tognazzi
aspettava Vincenzina davanti la
fabbrica, l'identità era ancora effetto di un riconoscimento tra
simili, rafforzata da elementi economici e territoriali e religiosi, se non da
una vera e propria ferita che stenta a cicatrizzare. In ogni caso, la traccia
iscritta da un aratro nelle zolle del reale.
Pensiamo ad esempio agli ebrei: io sono un ebreo perché quella è la mia religione, ma soprattutto perché al mio popolo (realismo tragico) è stata negata una terra, da cui le sofferenze successive che conducono all'apice drammatico dell'Olocausto, vero e proprio imprintig comunitario. Oppure io sono un pastore perché pascolo le pecore, e, come in uno specchio, mi rifletto nella lenta transumanza condotta dagli altri pastori.
Pensiamo ad esempio agli ebrei: io sono un ebreo perché quella è la mia religione, ma soprattutto perché al mio popolo (realismo tragico) è stata negata una terra, da cui le sofferenze successive che conducono all'apice drammatico dell'Olocausto, vero e proprio imprintig comunitario. Oppure io sono un pastore perché pascolo le pecore, e, come in uno specchio, mi rifletto nella lenta transumanza condotta dagli altri pastori.
Fin qui nulla di strano, mi sembra. E invece no
continua Žižek, perché l'identità è
ora divenuta irrealistica,
facendo ampio uso della dinamica psichica della proiezione, in particolare
quella che fa riferimento a un immaginario ludico quanto del tutto improbabile.
Ed è così che un precario sottopagato non pensa più a sé stesso osservando la
condizione degli altri precari, ma si vede come nella canzone di Morandi, uno su mille ce la fa,
si vede con in mano il biglietto vincente della lotteria, e subito dopo al
concessionario BMW.
Chi sono quei pezzenti attorno a me, si chiede
dunque perplesso. Dicono di fare il mio stesso lavoro – ammesso e non concesso
che domani ci sia ancora un lavoro –, ma mica la vinceranno la lotteria, loro.
Lui invece sì: è già ricco, ma su una linea temporale occulta, asimmetrica al
piano manifesto delle cose. Per questo è il mondo a non capirlo, non lui a non
capire il mondo.
Si comprende come in un Paese con sessanta milioni di abitanti, di cui buona parte convinti di avere in tasca l'unico biglietto vincente della lotteria, non solo è difficile la formazione del pronome noi, ma anche l'io assume contorni vagamente sfumati e teatrali. A tutto ciò, utilizzando un termine preso dallo scaffale lacaniano, Žižek dà il nome di jouissance, ossia godimento. In altre parole, il godimento è diventato l'unico elemento a offrire un'incerta base all'identità personale, un godimento bada bene immaginario!
Come nel sabato del villaggio, il godimento viene così posticipato sempre, è il piacere che verrà, il piacere di Godot, a proposito qualcuno l'ha per caso visto in giro, mandiamogli un WhatsApp, forse ritarda perché ha trovato traffico in tangenziale? Se ne ricava che il presente deve appartenere a qualcun altro, noi, in quell'adesso che si allarga come un crepaccio sorridente, abbiamo smesso di essere e allo stesso tempo non siamo ancora. Puff...
Si comprende come in un Paese con sessanta milioni di abitanti, di cui buona parte convinti di avere in tasca l'unico biglietto vincente della lotteria, non solo è difficile la formazione del pronome noi, ma anche l'io assume contorni vagamente sfumati e teatrali. A tutto ciò, utilizzando un termine preso dallo scaffale lacaniano, Žižek dà il nome di jouissance, ossia godimento. In altre parole, il godimento è diventato l'unico elemento a offrire un'incerta base all'identità personale, un godimento bada bene immaginario!
Come nel sabato del villaggio, il godimento viene così posticipato sempre, è il piacere che verrà, il piacere di Godot, a proposito qualcuno l'ha per caso visto in giro, mandiamogli un WhatsApp, forse ritarda perché ha trovato traffico in tangenziale? Se ne ricava che il presente deve appartenere a qualcun altro, noi, in quell'adesso che si allarga come un crepaccio sorridente, abbiamo smesso di essere e allo stesso tempo non siamo ancora. Puff...
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