venerdì 9 agosto 2019

Mektoub, o sul destino dei corpi



Mektoub, My love: canto uno. Come se Eric Rohmer e Terrence Malick si fossero scambiati gli occhiali, e ne fosse scaturita una visione in cui si polarizzano le caratteristiche di entrambi: la parola sciolta e incalzante dei dialoghi continui di Rohmer, a trovare il senso proprio quando sembrano sul punto di smarrirsi, e, quale cifra del regista e filosofo americano, la purezza dell'immagine in movimento, provvisorio distillato di tutto ciò che abbiamo. Che è poco, pochissimo, e spesso offuscato dal velo dell'ideologia, una a caso pur di coprire le pudenda dell'abisso. Un filtro che Malick rimuove facendo nuovamente scintillare il bersaglio colpito dallo sguardo. 
Abdellatif Kechiche, regista franco tunisino già Palma d'oro a Cannes con La vita di Adele (premio in seguito messo all'asta per finanziare il film successivo, cosa che me lo rende ancora più simpatico), dalle lenti dei due grandi maestri che onora riesce però a lavare le incrostazioni dovute all'abitudine, e con esse i compiacimenti espressivi. Non abbiamo così quel birignao intellettuale piccolo borghese tipico di Rohmer, ma neppure il pompierismo metafisico di Malick, che tra l'Essere e il Nulla, nelle ultime pellicole, almeno, incrocia solamente il nulla. Un nulla estetico e con la enne minuscola, per nostra sfortuna...
Eppure anche Kechiche insegue qualcosa che il suo alter ego, Amin, un giovane aspirante sceneggiatore che da Parigi ritorna nel paese natio nella Francia del sud, dove trascorre l'estate del 1994, qualcosa che dopo i 180 minuti della pellicola non trova, e noi con lui. No, non c'è traccia dell'amore, my love, promesso già a partire del titolo, la cui altra voce è un termine arabo con il significato di destino: mektoub. Destino del disamore, dunque? Sì e no. Perché Amin/Kechiche, nel suo apparente muoversi a caso, a tentoni e con una sceneggiatura davvero esilissima, è come se trovasse in terra una monetina molto più preziosa, almeno per gli spettatori. Trova la vita. E questo è il più vibrante, icastico, sincero, perfino palpabile film sulla vita che mi è capitato di vedere da anni. Vita che, al netto di ciò Amin/Kechiche sfiora senza afferrare mai, si riduce a questo: corpi che si cercano e corpi che si perdono, senza necessariamente essersi presi. E in ogni caso, quando sopraggiunge il tempo, quello della visione retrospettiva del regista, sarebbe già troppo tardi, e la danza senza senso della vita prende i colori della nostalgia. Capolavoro!

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