sabato 24 giugno 2017

L’anima gemella: e se fosse rimasta chiusa fuori…?



Gli amori, come le amicizie e le fragole, germogliano sempre da un terreno, che può essere comune in due sensi diversi, se non addirittura opposti.
Il terreno dell'identificazione, in cui ci si riconosce parte del medesimo campo arato dagli interessi, le passioni condivise e che possiamo visualizzarci con l'immagine di due persone che si trovino sedute accanto a un concerto di Jovanotti. In attesa dell’inizio, cominciano a conversare: “Maddai, anche tu, anche io ci vado matto… Pensa, mi sono fatto pure il tatuaggio!”
Di contro, come l’antimateria che i fisici ipotizzano ma nessuno l'ha mai vista né toccata, c’è un terreno che non ha luogo, è privo di fertilizzante sociale e potremmo associare a una fotografia in cui qualcuno è sfuggito all'inquadratura, se ne intravede solo un braccio o una gamba. 
Un fuori campo da cui non abbiamo alcuna informazione, uno strappo, come quello dei proscritti che si trovano a condividere non una patria ma il suo doppio fantasmatico, nella forma dell'esilio. E sono due persone che, a quel punto, hanno in comune solo la vita, nuda com'è sempre quando non c’è nessuna divisa a rivestirla.
Con linguaggio preso a prestito dal lessico della psicologia, io chiamerei questo secondo caso individuazione, non essendoci altro che il loro essere unici e indivisi, ossia l'intima soggettività (il mondo è fuori dal cerchio dell'incontro) con cui entrare in relazione, e da lì produrre un reciproco riconoscimento; sempre che ciò avvenga, e non avviene spesso.
Un caso emblematico, nella grande arte cinematografica, è quello di Gelsomina ne La strada di Fellini. Quando le suore, nel convento in cui si è rifugiata, le chiedono perché si ostini a seguire quell'energumeno di Zampanò, lei risponde: "Ma se non mi prendo cura io di lui, nessun altra lo farà..." 
Individuazione è dunque anche il riconoscimento dei limiti e dei difetti dell'altro, che comunque rendono quella persona ciò che è, più che amabile o seducente.
Per esperienza, mi sembra che i legami "individuati" – quelli tra chi non ha trovato posto al concerto, è inutile cercare il loro volto nelle fotografie di gruppo – anche se a volte possono apparire un po' tiepidi o masochistici, come nel caso di Gelsomina, una drop out ante litteram, sono molto più solidi e duraturi.
Semplice complicità tra il mendicante e il suo cagnetto, ribatterebbero, con una metafora spietata, i cinici e i romantici, che non di rado coincidono. Spirito di adattamento tra chi non abbonda certo in occasioni erotiche, facendo di necessità virtù. E anche questo non è del tutto sbagliato, almeno all'inizio. Io però credo che poi subentri altro.
Oltre a Fellini, ci può forse venire in aiuto Tolstoj, con la sua intuizione che tutte le famiglie felici si somigliano, mentre le famiglie infelici lo sono con una forma propria, esclusiva come le persone che le compongono.
Ma amore e amicizia si rinsaldano non in un generico perimetro di famiglia, familiarità, e piuttosto nel riconoscimento di una singolarità umana, un tu (non un altro, proprio tu) che per questa sua traccia esclusiva non è soggetto a generalizzazione, tanto meno a reversibilità come in quel vecchio spot del detersivo Dash, in cui un cliente si rifiuta di scambiarlo con due anonimi fustini.
Sarà forse tale costatazione che, in largo anticipo su Carosello, faceva ammonire San Paolo: Gli amici vanno sopportati, prima ancora che amati. E gli amanti si amano proprio perché c'è amicizia e sopportazione (traduzione molto libera).
Diversamente, nei legami per identificazione, abbiamo il ricorso alla mediazione dello stereotipo, o più precisamente a un processo di tipizzazione (mi piace quel tipo di uomo, quel tipo di donna o di amico, magari appartengono al nostro stesso club), che coincide con una rappresentazione idealizzata dell'altro. 
Per questo, il più delle volte, l'amore contiene una mediazione pubblica nella forma di un mito spettacolare e letterario, come quello che seduce la signora Bovary. O, per tornare al vocabolario psicologico, è presente lo zampino di ciò che in psicanalisi viene detto sublimazione; un termine un po' saputello che altro non vuol dire che mistificazione, abbellimento lezioso.
Più che un tu che incontra un io, abbiamo insomma un noi: noi che facciamo e amiamo certe cose, noi che ci identifichiamo per gusti e comportamento e siamo le famiglie felici di Tolstoj; almeno prima di scoprire che il racconto era invece Casa di Bambola di Ibsen, e tutta quella felicità aveva fondamento sulle macerie dell'equivoco. 
Ma come potevamo saperlo, prevederlo, quando eravamo ancora a quel concerto di Jovanotti? In fondo c’erano migliaia di persone, troppe forse, troppi noi per occupare un unico cuore...
Un riconoscimento esclusivo che i felici, gli integrati, quelli che fanno branco e non sanno intonare una melodia disperata con la tromba, o spaccare le catene con il petto come Zampanò, non potranno mai sperimentare.


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