venerdì 16 giugno 2017

Daniele Ventre, o sulla forma e la fatica


Ho appena scritto la risposta a un intervento di Daniele Ventre, pubblicato su Nazione indiana. L'intervento si trova qui, ma, purtroppo, io non sono riuscito a inserire da nessuna parte il mio commento. Ipotizzando un qualche valore più generale della discussione, riporto dunque, e provvisoriamente, nel blog.
Arrivo, da buon ultimo, a questa interessantissima discussione, che per ovvie ragioni temporali temo però già conclusa ("La festa appena cominciata è già finita..."). Aggiungo dunque solo un pensiero, di cui non mi pare di trovar traccia nelle parole che mi precedono - a parte, forse, in una nota di Valter Binaghi, che usa però l'argomento in chiave vagamente risentita.
Mi riferisco allo stile con cui Daniele Ventre ha scritto il suo bellissimo testo. Uno stile che non è tanto "involuto", come appunto adombra Binaghi (non senza qualche buona ragione...), ma addirittura tortuoso, accidentato, difficilissimo. In una parola: "pazzesco".
Inoltre, vengono date per scontate, e cioè acquisite una volta per tutte, una serie di nozioni preliminari, tra cui la conoscenza della lingua tedesca.
Sono così andato su google e ho provato a ricercare la percentuale di italiani che conoscono il tedesco, scoprendo che non supera il 7% (io, ovviamente, faccio parte del restante 93). A tale dato, va aggiunto che di questo 7% una considerevole parte è costituita dai residenti nella regione speciale dell'Alto Adige, dove la lingua tedesca è correntemente utilizzata dal 65% della popolazione.
La domanda, ironica, potrebbe dunque diventare: Nazione indiana, è forse un blog rivolto alla minoranza germanofona?
Ma sarebbe una domanda capziosa. Come la considerazione che un numero ancora più basso di italiani conosce Leo Frobenius. Sarebbero cioè degli argomenti che fanno proprio un elemento implicito alla comunicazione contemporanea, che potremmo riassumere, parafrasando Contini, come "funzione Holden" (nel senso della scuola di scrittura).
L'intervento di Daniele Ventre, se fosse stato il componimento a un test di ammissione alla famosa scuola torinese, avrebbe infatti ottenuto un risultato praticamente certo: non solo Ventre non sarebbe stato ammesso ai corsi, ma, probabilmente, il suo testo sarebbe stato assunto come modello negativo: "Ragazzi, così non scrive: capito, neh?"
La diversa domanda che sto cercando di farmi, è allora quella sul motivo per cui quasi tutti, me compreso, ci siamo messi a scrivere come alla scuola Holden. E cioè in modo scorrevole, soft, "light". O provando ancora una volta a riassumere: in modo facile.
Forse perché facile è bello, facile è educato, garbato, evitando al lettore la fatica di un periodo del genere: “…la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici)".
Può essere, sì, che nella semplicità sia contenuto un elemento di cortesia (di galateo), e nella complessità il carico "offensivo" di uno sforzo. Ma senza questo sforzo - conoscere, afferrare saldamente, fare proprio - il sospetto è che sempre più finiremo col parlare come in una canzone di Vasco Rossi.
Testi che sono perfetti, attenzione, per dire quelle cose lì, che dice Vasco Rossi. Ma per dire le cose che con sforzo e attenzione prova a raccontarci Daniele Ventre, forse la forma canzone non è il modello più adatto. E nemmeno le formule ammiccanti e paratattiche di una scuola di scrittura con tutte le carte in regole, compreso quelle che stanno nascoste nel polsino.
Concludo così ringraziando l'autore del testo – che mi ha fatto letteralmente sbuffare il cervello nel tentativo di seguire la pedalata lunga del suo periodare, e che per niente al mondo proverò mai a fare mia – il quale con le sua iperboli sintattiche mi ha ricordato che ci sono anche altri modi di scrivere, ossia di conferire una forma stabile e riconoscibile alla mobilità del pensiero.
Ma senza quella saldezza frutto della fatica, le parole, i pensieri, la conoscenza, il più delle volte gocciolano via, così come una pioggerella estiva. Mentre la conoscenza vera somiglia all'albero della cuccagna: devi arrampicarti fino in cima, per guadagnarti le lenticchie e lo zampone.

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