martedì 31 luglio 2012

La scrittura, o su come risparmiare 800 euro al mese


Ma se i ricchi hanno la psicanalisi, che è un alfabeto per dire, per dirci - a cento euro al colpo - quello che in fondo già sappiamo ma non abbiamo il coraggio di pronunciare, perché i poveri non si riprendono la scrittura, che non costa nulla e ci dice quello che la psicanalisi ancora non sa, sapendolo pronunciare pure meglio?

domenica 29 luglio 2012

Ragioneria, o sulle occasioni perse guadagnate (dedicato a Marco Lodoli)


Io, a scuola, di scuola, ho fatto Ragioneria. Come il rag. Ugo Fantozzi, chiamato Fantocci dal suo megadirettore galattico. Ma anche come il rag. Eugenio Montale, che amava dare un nomignolo a tutte le sue conquiste – Mosca, Clizia, Volpe… – e per se stesso si tenne quello più buffo e strampalato. Eusebio.

“Così poi trovi subito un posto di lavoro”, diceva mio padre. “Conosciamo un tale alla tal banca che vedrai ci dà una mano.” Io continuavo a voler fare il Liceo, come i miei amici Fabio, Vittorio e Stefano detto il Fibra, da alcuni, e Americano da altri. Mia madre non diceva niente, ma secondo me anche lei era d’accordo: “Ragioneria, almeno lì non ci stanno i figli degli stronzi.”

Gli stronzi, naturalmente, erano i ricchi, e i figli dei ricchi sono gli stronzetti che Pasolini ha cantato della sua celebre poesia su Valle Giulia: “Avete facce di figli di papà. \ Vi odio come odio i vostri papà. \ Buona razza non mente...”

A Ragioneria, la razza con cui incrociavo gli sbadigli mattutini era la piccola borghesia dei commerci, i figli dei bottegai che dovevano imparare presto a far di conto, e anche loro avevano le facce dei papà. Rubizze, grassocce, solo le dita delle mani erano sottili, per contare più sveltamente le banconote, prima che inventassero quella macchinetta che fa il rumore della fettuccia di cartone infilata tra i raggi della Saltafoss: frrrrrr.

Quando, più tardi, mi iscrissi all'università, a un colloquio di orientamento mi venne chiesto: “Ma lei è sicuro di voler iscriversi a questa facoltà…?” Si trattava del titolare della cattedra di Filosofia della storia, lo sguardo stanco che segue una mosca sulla scrivania. Poi aggiunse: “Mi dica, ecco, quando è nato Immanuel Kant?” “Milleottocento”, risposi di getto. “Massì” fece lui con un’alzata di spalle, “ha sbagliato solamente di un secolo. Di solito, quelli che arrivano da Ragioneria, lo scambiano per il marito della Barbie.” Così sollevò la dogana e mi lasciò passare sospirando, e con uno scatto inatteso spappolò la mosca con il palmo della mano.

In compenso, adesso so che Kant è nato Königsberg, nella Prussia orientale, il 22 aprile 1724, e che il marito della Barbie invece si chiama Ken, ma non è in grado di sferrare il colpo di karate come Big Jim. E so anche che prima di morire, Kant, non Ken, disse una cosa piccola piccola, ma bellissima. “Es ist gut", disse Kant, che vuol dire va bene. Poi morì.

E dunque va bene, non ho fatto il Liceo, non conosco il calcolo differenziale come Stefano, detto il Fibra, o se preferite Americano, né declinare i verbi latini come Fabio e Vittorio. Nemmeno so cosa si nasconde dietro a quell'alfabeto contorto, da cui scoccano i suoni con cui Omero, dopo essersi fermato in riva al mare in tempesta, gli occhi chiusi e un filo d'erba in bocca, ci rivela che non è blu o azzurro come ci sussurrano dei sensi fantasiosi, ma color del vino.

Ho però scordato anche la partita doppia, i pronti contro termine, gli stoccaggi, le forniture e le gambe belle delle compagne sotto i banchi, che battevano con la punta il tempo dei minuti che parevano secoli, e forse lo erano veramente. Sono insomma diventato padre di me stesso, e quando mi comporto da stronzo – lo faccio di frequente – sono quel che si dice un vero stronzo, non uno stronzo indotto, pigramente acquisito alla categoria. Una cosa per cui devo ringraziare il mio stentato titolo di ragioniere, ma soprattutto i miei genitori.

Il famoso psicanalista americano James Hillman, cranio piccolo e glabro, sguardo affilato e sornione, sosteneva che il compito dei genitori è quello di fraintendere i figli, e non come si crede quello di comprenderli. Perché solo proiettando su di essi delle fantasie intrusive, i figli, poi, reagiscono cercando la propria strada. E i miei genitori sono stati allora davvero bravi: in me hanno scorto solo il riflesso di un'Italietta misera e popolare, le rate della 600, il frigorifero Ignis. Ma grazie alla loro confusione sono potuto diventare quel che sono, come pensava un altro grande filosofo, e non chiedetemi in che giorno è nato!

Certo, quel posto nella tal banca grazie a quel tale, alla fine, è andato perso, e un mucchio di altre cose. Ma credetemi, è un privilegio anche quello di fare come il Barone di Munchausen: sollevarsi da soli per il bavero della giacchetta, e girare il mondo sopra a una palla di cannone.

sabato 28 luglio 2012

Complicità (a Francesco, mio padre)

Oggi ti ho visto uscire dalla doccia
senza un cedimento, senza un rumore,
nemmeno lo scroscio quieto dell’acqua.
Sei Harpo Marx tu, con il tuo livore
pizzicato in note silenziose
quando tutto intorno è già baccano,
lo sgomento calmo di Buster Keaton
abbarbicato alla lancetta
di un orologio rotto, o il poliziotto
che ferma Stanlio e Ollio e gli domanda
perché stanno ridendo. Però
non ti ho mai sentito dire
- per farti notare un colpo di tosse -
che hai il “polistirolo alto”
con la complicità dei buontemponi.
E, questa assenza d’intenzione, è
la nostra segreta complicità.

domenica 22 luglio 2012

Itaca, o sull'amor proprio

Siamo una società egocentrica, si dice. O meglio, sviluppando le implicazioni che fanno tana nell'assunto, siamo un insieme disarticolato di singolarità che hanno fatto della dimora privata un totem da venerare. In un certo senso, è vero.

Ma in quale senso?

Io diffido del dilagare del termine egocentrico. Forse perché lo sono, non lo nascondo, un poco egocentrico. Così questo modo di dire moralistico e sbadatamente sommario, a me ricorda, ma davvero a orecchio e dunque con possibile imprecisione, cosa pensava al riguardo Hervé Guibert.

Intimo di Michel Foucault e come lui morto di AIDS nei primi anni novanta, lo scrittore francese attinse da una sfortunata biografia anche abbondante materia artistica, e per tale motivo venne accusato di egocentrismo estetico. “Spesso viene scambiato per egocentrismo”, fu il suo modo di liquidare la faccenda in un'intervista, “quell’attenzione a sé utile per accompagnare la propria anima nei suoi molti e necessari mutamenti.”

Dichiarazione che entra in risonanza con il pensiero di un altro grande francese, Claude Lévi-Strauss, quando afferma che la nostalgia rappresenta un eccesso di dialogo interiore con se stessi, mentre l’oblio è la figura speculare a tale ridondanza: una sorta di assopimento di ogni voce individuale, che avrebbe invece la funzione, senza arrivare all'iperattività "nostalgica", di mantenere aggregata una soggettività che si percepisce come tale.

Ma se la sua intuizione corrisponde a verità, bisogna concludere che questo tempo non manifesta il sentimento centripeto della nostalgia – specchio dolente, nel suo ruminare interno, a una personalità egocentrica, ovvero centrata su di sé – ma tutto all’opposto quello estroverso dell’oblio.

L’atteggiamento particolaristico e disinteressato ai grandi temi sociali, che comunemente si riscontra nei comportamenti dei più, non corrisponde infatti a una centratura interna, un brusio che si leva consapevole dal sancta sanctorum della carne. Piuttosto a qualcosa come una disgregazione festosa di superficie, uno smottamento dell'identità personale osservato con un telescopio dal sicuro riparo di un contrafforte posticcio, sistemato al di fuori dei precari confini dell'Io.

Ciò che viene detto con enfasi sospetta relazione, rappresenta forse proprio questa terra di tutti – e dunque di nessuno – in cui viene posta la specula da cui guardare alle faccende private. Da cui lo stare sempre in contatto, in costante e ossessivo scambio attraverso le chiassose forme che la tecnica magnanima ci offre, quali ad esempio i social network. Tutto ciò si traduce davvero nel colmo dell’oblio: dimenticarsi che esiste una dogana, ovunque essa sia, cercando semplicemente di non pagare dazio.

Diviene allora un gesto naturale e disinvolto quello di accedere a Facebook, nell'urgenza di digitare frasi come cucu, eccomi, amici miei, rivolgendosi a degli semi-sconosciuti ugualmente mormoranti, oppure ciao ciaoooooo con un sontuoso strascico di o, che nessuna damigella avrebbe la pazienza di sostenere. Ma anche un’arguta citazione degli stessi Guibert o Lévi-Stauss, corrispondono, in tale prospettiva, a un comportamento di perversa modestia, altro che egocentrismo!

Come a dire: io non sono niente, io sono solamente l’eco degli infiniti altri che mi hanno preceduto, ma che invece di varcare il traguardo e passare la mano, continuano nella loro corsa, giro dopo giro, alla maniera di un disco in loop.

Ed è così che anche adesso mi parlano, o meglio ancora da essi sono parlato, agito da invisibili fili che si perdono tra le quinte dei secoli o dei minuti, in un classicismo della contemporaneità. E mentre io mi ricordo di loro e ricapitolo a fil di labbra il presente, piano, dolcemente, mi dimentico di me, assentandomi come i compagni di Ulisse dopo aver inghiottito le prelibate pietanze dei Lotofagi.

Mangiare e dimenticare, ecco. Parlare, scrivere, chattare e dimenticarsi, autosmemorarsi in un'inesauribile e pubblica conversazione. Sono questi i rituali in cui si emblematizza la nostra epoca, il testimone che per la prima volta non solo non consegneremo alle generazioni future, ma nemmeno avremo il privilegio di stringere forte tra le dita, e solo carezziamo distrattamente come un gattone che fa le fusa.

Quando un po’ di sano egocentrismo –  ma se preferite potete chiamarlo amor proprio, come facevano le vecchie zie – corrisponderebbe invece a quella spinta che rimette il timone in una direzione per nulla compiaciuta ed egoistica, e anzi necessaria a trasformare il viaggio in esperienza. O altrimenti detta con un linguaggio più aggiornato, provate a inserire, la prossima volta che salite in macchina, questa destinazione dentro al vostro Tom Tom: Itaca...



mercoledì 18 luglio 2012

Attimino, o sugli strati geologici della lingua

8:30. E’ luglio e già fa caldo, a quest’ora del mattino. Sala d’attesa di uno studio dentistico di provincia. La donna di fronte a me sta seduta nervosamente. Ogni tanto allunga una mano, si tocca una guancia. Poi afferra una rivista tra quelle sparse sul tavolino basso – Oggi, Chi, Grazia –  ma la posa dopo aver sfogliato poche pagine soltanto. Io sono qui per il controllo di una fastidiosa pulpite, che la notte non mi ha lasciato tregua. La donna ha i capelli rossicci, tinti, leggermente diradati.

Entra l’assistente alla poltrona e mi invita ad accomodarmi nel laboratorio medico. Mi avvio verso la poltrona da astronauta, da bambino ci diventavo matto. Peccato che, già allora, il tasto per l’acqua fosse l’unico ad essermi consentito. In compenso, quando restavo solo sotto la luce abbagliante della lampada – destra, sinistra, il collo che si allunga circospetto da ogni lato... – , subito mi avventavo verso il resto della pulsantiera: pigiando a casaccio, con gusto, con foga, come un pianista assorto in un assolo di free jazz. Salvo interrompere l'esecuzione al rientro del dentista, e farmi un po' di gargarismi con lo sguardo di chi implori: Io non ho toccato nulla, giuro!

Poi, l’assistente – blusa arancione intonata con le lenti per proteggersi dall'amalgama, che schizza in rabbiosi lapilli al sibilante protendersi del trapano sull'otturazione – si rivolge alla donna con un sorriso ampio e calmo, si intravede anche da sotto la mascherina: "Un attimino e sono da lei, signora." E in qualche modo mi si allarga il cuore.

Provo a spiegarmi.

E’ più di quindici anni che ci dicono che un attimino non si dice: l'espressione è incongrua, attimo costituisce l’unità minima in cui si riduce il tempo cronologico. Dunque non contempla vezzose compressioni, sarebbe come un superlativo per immenso: "immensone", o "immensissimo"... No, vero, non funziona? Eppure, ascoltandolo, un attimino, a me non procura nessun fastidio. Arriverei perfino ad azzardare che sia perfetto...

Perfetto dentro lì, intendo. In quel momento, con quel sorriso che fa breccia nella mascherina, e  la persona a cui è rivolto, quella persona lì. Che è evidentemente tesa, imbarazzata, costretta in uno spazio che avverte come ostile, e rassegnata al dolore che a breve l’attende. Attimino ha così la funzione di ridimensionare il rovello dell’attesa. Come a dire: un po’ di dolore, sì, certo. Ma piccolo piccolo, breve, è già finito, lo vede. Insomma, un dolorino.

Negli anni dell’università ho incontrato diverse teorie linguistiche. Una di queste – ora mi sfugge chi ne fosse l’artefice – suddivideva ogni enunciato in tre diverse stratificazioni, come gli strati minerali in cui si avventura il geologo, con la torcia che gli brilla sull'elmetto. Ne ricordo ancora i nomi spigolosi e vagamente antipatici:

1) locutorio;

2) illocutorio;

3) perlocutorio.

Al netto della sentenziosità accademica, volevano però significare cose molto semplici e intuitive. Esiste un livello della comunicazione, argomentava la teoria, in cui il senso della frase va ricercato nel suo dettato verbale. Ad esempio, se io vado dal fruttivendolo e chiedo un chilo e mezzo di banane poco mature, sto, né più né meno, chiedendo un chilo e mezzo di banane (mi raccomando, che non siano già marroncine!).

Questa assoluta coerenza discorsiva tra polpa e scorza, o se vogliamo essere più tecnici tra significante e significato, corrisponde al livello formale del linguaggio, che è poi quello indagato dalla grammatica e dall'analisi logica. Linguaggio che nella sua intonazione orale viene anche detto loquela (dal lat. loqui, parola), da cui la paludata definizione di locutorio.

Ci sono però altre espressioni in cui la polpa non si offre immediatamente al cucchiaio, con il significato che risulta più intimo, deducibile solo dal contesto. Se, ad esempio, qualcuno ci dice Ti vedo bene, questa frase avrà una sfumatura diversa se ci troviamo alla griglia di partenza di una maratona oppure a un esame di diritto romano oppure su un letto d’ospedale. Così, in ciascuno dei tre casi, la comprensione verrà mediata: sia dalla sensibilità dell'interprete, sia dalla situazione contingente. Al punto che una frase del genere assume il suo senso originario (locutorio) solo durante una visita oculistica.

Diverso ancora è il caso della domanda Sai che ore sono?, soprattutto se a porla è un maschio a una bella ragazza sconosciuta, fermandone la falcata neghittosa lungo un marciapiede affollato. Non ci vorrà infatti molto per capire – dalla bella ragazza specialmente – che ciò che le viene effettivamente chiesto è un’altra cosa… Ossia che sotto una domanda apparentemente semplice e ordinaria si cela una intenzione ben diversa, a volte perfino estranea od opposta alla sua lettera (Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, stava scritto all'ingresso di Auschwitz).

Chiameremmo allora perlocutorio proprio tale livello: delle intenzioni strategiche, e non più solo comunicative. Ossia l’effetto che si vuole ottenere dicendo quel che si dice.

Per quanto la mia memoria risulti un poco approssimativa, proviamo, in ogni caso, a scomporre  la frase dell’assistente alla luce di questa teoria. Un attimino e sono da lei, signora. L’enunciato è assai chiaro, almeno verbalmente. Quel che si richiede è di pazientare ancora un po’. Ma siamo solo al livello locutorio, come abbiamo imparato. E la buccia a volte inganna.

Certo, al posto che attimino si sarebbe potuto dire aspetti un attimo, per cortesia, oppure tra un momento è il suo turno. E in entrambi i casi, da un punto di vista grammaticale, la frase sarebbe stata più corretta. Ma come già abbiamo visto la donna era tesa, a disagio. Il suffisso alterativo -ino non conteneva dunque solo un riferimento temporale, ma si collocava più internamente: non sul quadrante, assieme alle lancette, e piuttosto nel vano in cui si nasconde l'uccellino in attesa di scoccare il suo cucù. Serviva a sdrammatizzare, ecco. E per farlo articolava la lingua infantile delle emozioni.

Ritraducendo la frase nella sua dimensione illocutoria (cosa si intende comunicare nella specifica circostanza), il suo senso cambia allora profondamente, e dovrebbe suonare più o meno a questo modo: "Stia calma signora, si tranquillizzi. Siamo qui per prenderci cura di lei, nel più gentile e lieve dei modi. Non le faremo male, vedrà."

Se tale intenzione comunicativa centra il bersaglio incarnato, l'assistente alla poltrona avrà raggiunto il suo obbiettivo (perlocutorio), che consiste nell'attenuare l’ansia della donna con i capelli rossi. E a una persona che svolge quella professione, in fondo, non è richiesto di essere una fine linguista, immune dalle incongruenze della logica aristotelica, ma di mettere le persone a loro agio. Accogliere e tranquillizzare, a noi pazienti basta questo.

Compreso nei miei ragionamenti, mi ritrovo così sulla poltrona da astronauta le prometto, dottore, che non lo pigio più quel pulsantino rosso… E mi accorgo che il mal di denti che mi assilla non è dedicato alle numerose persone che, venialmente, peccano nell'utilizzo approssimativo del linguaggio. Piuttosto a una certa intellighenzia che non manca occasione per esibire i propri galloni scolastici: in televisione, sui giornali o in semplici conversazioni all'happy hour, con un olivetta in bocca e l'occhio sul culo nelle cameriera. In cui ad esempio vengono irrisi tutti quelli che dicono attimino: Poveretti, non frequentano, come noi, il signor Devoto e il signor Oli...


Beh, una semplice assistente alla poltrona è in grado offrire a questa gente un'importante lezione. Umana, prima di tutto. Ma anche intellettuale. Già che ha compreso, probabilmente senza saperlo, ma sentendolo, che il linguaggio è strutturato come una cipolla. E non sempre, anzi quasi mai, dicendo una cosa vogliamo dire proprio quella cosa lì. Così quasi nulla si dice, il resto lo si evoca.

lunedì 16 luglio 2012

Figlio, preghiera notturna


Figlio mio, giglio spennato,
skinhead spietato:
il tuo bomber è lacero,
fammelo rammendare.
Ti ho già lucidato gli anfibi,
stirato la bandiera nera
- quella con Adolfo stampato -

e intanto osservavo la foto in sala
dove ridi contento, da bambino,
salutando la nonna con la mano,

poi quella ad Amsterdam
mentre ti tatuano la svastica.

Così, per la prima volta, ho pregato.
Ho pregato per te, per me,
in questa notte di botte,

in questa alba di manette.
Che non ti cavassero mai
quei grandi occhi di mare
che ti ho fatto, ti ho regalato;
e guai se ti spaccassero

il bel nasino all'insù,
come quello del tuo papà;

non penso a cosa potrebbe accadere
alla pelle di stelle, il viso di luna...
Ma quando ti vedo tornare
mi rassicuro: sei proprio un duro!
E allora prego per il berbero
che hai barbarizzato stanotte,
per lo zingaro che hai riempito
di cazzotti insieme ai tuoi amici.
Prego che se ne andassero
via da questa bella Italia nostra:
in treno, in nave, a piedi o in bici:
che se ne tornassero a casa loro!
E prego ancora, fino a tarda ora,
che il Cavaliere si ricordi di me, di te,
e ti trovasse una buona volta un lavoro.



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più, e ora leggermente rivista.)

Paragone


Come l’insetto che placido annaspa
sul manto purpureo del cocktail,

come il lento trasbordo dei galeotti
nel mare azzurro e calmo,

come l’incombere del sudore
in larghe chiazze, sul camice verde
del chirurgo.



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)

Polaroid


Dai, soffia: soffia! Aspettandolo il parto
nostro di noi in Polaroid, il sipario,
il velo nero e poi la luce che scuce
appena all’orlo una bocca che sorride,

pare, ma poi inghiotte - ché era pasto
piuttosto… O come quando la gatta
cacciò un pettirosso sulla terrazza
e lo mostrava orgogliosa frullare

pazzo tra i denti; e così in noi un lusso,
giriamo la foto con un piacere
non astratto e del sangue, contempliamo
già divorati il boccone. Hai presente

gli uomini che ribussano alla porta
per il conforto di un ultimo bacio
ma sussurrano d’un fiato: l’ombrello...



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)


Il sorbetto


Non c’è solo il sorbetto
ormai disciolto – traccia
d’un giallo tenue
dolce per cani o gatti
sulla sabbia – lo vedi:
c’è anche lo stecco nudo,
la scritta Sammontana,
l’uomo col frigo
a tracolla che in passi
svelti dirige al viola
acceso della sera...
 

Ma se l’attesa avrà
il suo premio, è questa
l’ora per la bimbetta
grassa di fare il bagno.




(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)

Marisa


Marisa:
9 anni,
8 in aritmetica,
7 bamboline,
6 pesciolini,
5 amichette,
4 nonni,
3 fratellini,
2 genitori,
1 fidanzatino
e nessun dubbio.


(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)

Il bersaglio


Non sono le ragioni a mancare
il bersaglio sempre vago,
sempre mosso: l'orsetto
curvo che attraversa lo spettro
d'occhio mirato a vista
e - quando centrato, colpito
in petto da nuova pupilla -
al cielo alza le zampe
invocando un discorde sguardo.



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più, e dedicata a Valerio Magrelli.)

Estate


Cemento muto,
estate colloquiale:
né ape, né altare.



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)

Paola vola a scuola


Paola vola a scuola.
La cartella però vola
anche quella,
insieme alla pagella
e alla scuola tutta
che vola lontano.

Solo la bidella
ha i piedi per terra,
e saluta con la mano.



(Poesia scritta circa dieci anni fa, o poco più.)

Primavera



Sta bianca e nera
lungo il lago una suora:
già primavera?



(Questo haiku, non ci crederete, ma l'ho sognato. Giuro. Il sogno e le sue parole sono sempre di una decina di anni fa.)

Manuela


Manuela è un'isola.
Se c'è sole, si consola.
Quando è sola si compiange.
Ma se passa una nave
lontana...
si nasconde tra le onde.



(Poesia scritta circa dieci anni fa e dedicata, ovviamente, alla mia amica Manuela: grande architetto e grande naufraga.)

C'era una volta


C'era una volta un omino
piccino piccino
ma così piccino
che forse non c'era
nemmeno davvero
né una volta
né mai

(Ho scritto questa poesia circa dieci anni fa, forse qualcuno di più)

venerdì 13 luglio 2012

Adesso o mai più, o sull’ultima scommessa dell’angelo

Il giorno in cui mi suiciderò lo farò lanciandomi da una finestra. Ma perché proprio in questo modo, questo gocciolare al suolo in agonia, senza la possibilità di riavvolgere il nastro all’attimo in cui i piedi, o le mani, chissà come avviene esattamente in quei momenti, si distaccano definitivamente dal cornicione? Molto più sicuro e confortevole il gas, o un tubetto giallo di medicinali, di capsuline rosa shocking come le caramelle di Suor Tecla. Eppure mi lancerò anche io da quella finestra, o, in alternativa, potrà essere un trampolino di ferro e asfalto e bulloni (dall’inaugurazione nel 1937, scavalcando i parapetti del Golden Gate Bridge hanno spiccato il volo più di 1200 persone), in ogni caso da un’altura. Ed è strana anche questa certezza – dobbiamo chiamarla vocazione? – da parte di una persona che, come me, ha sempre sofferto di vertigini. Così quando la cabina della funivia raggiungeva il pilone di campata, sotto cui si apre l’abisso trapuntato di chalet della vallata angusta di Chiesa Valmalenco, già da piccolo mi rincucciavo sotto la linea accalcata dei finestrini, da cui scorgevo solamente gli scarponi e le sigle sopra le solette innevate degli sci: Spalding, Rossignol, K2… E non nascondo una profonda tristezza nell’abbandonare tutto ciò: la neve bianchissima, soffice, con varchi tortuosi e lucenti tra i pini, su cui lasciarsi scivolare; all'inizio solamente brevi semipiani come seni levigati e acerbi, da cui discendere a spazzaneve con il cuore che batte forte, a intermittenza; ma man mano che gli anni crescono insieme alla sicurezza del fare, una moneta che all'altro lato esibisce l'immagine occhiuta di Superbia, a capofitto vengono le piste nere, i dossi infidi e ghiacciati; per terminare con lo scarto di lato che solleva una nuvoletta festosa, da cui mai e poi mai avresti detto che sarebbe potuto grandinare. E però si sa, i ricordi non sono mai stati un buon impermeabile – il senso vivo di una catastrofe già avvenuta in piena letizia, un dopostoria, come lo chiamava Pasolini – e anzi proprio ciò che inzuppa l'anima del suicida, armandone le intenzioni. In particolare di chi sceglie di abbattersi al suolo, opponendo alla garrula ricreazione del mondo, quale scandalo tangibile, malattia finalmente manifesta e non redenta, il suo corpo inerme e maciullato. Malattia, ecco, l’hai detto! Avete ragione: malattia, o più precisamente depressione, alla maniera in cui il verbo psichiatrico ci ha insegnato a sillabare, accompagnando una pigra alzata di spalle: L’ho incontrato ieri, stava benissimo, vai te a capire cosa passa nella testa di certa gente… Sarà stato depresso. Io però preferisco sottrarre il termine alla supponenza nominale dei formulari, la brossura opaca dell’AMDP o dei suoi numerosi derivati (vengono sterilizzati a vapore insieme alle fialette per l’urina), ugualmente privi di quel soffio di umana compassione che inspira almeno quando espira, ricambiando il dono, per riconsegnarlo all'ambito assai più concreto della geografia. Depressione, dunque, ma quella verde cupo del Mar Caspio. Un mare che si interra sotto al livello del mare, uno stare sotto soglia, superata la linea invisibile di galleggiamento. Simile in questo all'incubo della gondola di risvegliarsi sommergibile, o all'aquila che, lanciata la folle picchiata, si infili nel varco di una tana in cui ha ben visto rifugiarsi la lepre, e qui rimanga incastrata. Immaginate allora la scena: il becco adunco, la testa sanguinante e il collo arruffato e teso nello sforzo, conficcati nel terriccio umido e roccioso mentre le ali si dibattono furibonde, senza riuscire a liberarsi. E se siete di quelli che si accontentano di una metafora, troverete quel poco o tanto che ci rappresenta. Con l’uomo fermo sul davanzale – austero dall’alto che è finalmente un altrove –  a spalancare il soprabito per mostrare infine quel che è. Un angelo. E prima di lanciarsi, sussurra ai gerani distratti e alle automobili da lassù così piccine: Si vola adesso, Madre, o Padre mio mai più…

mercoledì 4 luglio 2012

Culo culo culo, o sui dubbi di un blogger

Ho iniziato a scrivere questo blog nella felice scoperta di una via alternativa a ogni compromesso editoriale. Mentre la tecnologia, con cui a malapena armeggiavo, si offriva a me come una vergine con le cosce fresche e dischiuse, che mi invita a entrare dentro quella caverna dove tutto è luminoso, tutto possibile.

Inebriato dalle sue promesse, mi sono lanciato nell’avventura di una scrittura libera e impregiudicata, ma non per questo disinvolta: alcuni dei testi che qui potete leggere mi sono costati ore di lavoro, e continue verifiche e solitarie correzioni. Sforzi ampiamente ripagati dal luccichio dell’eterna stella di Autarchia. O almeno, così credevo.

A distanza di quasi tre anni dell’inizio della mia esperienza come blogger, non posso, in ogni caso, negarne le premesse. E’ vero, in questo spazio affrancato e personale io scrivo ciò che voglio, ma soprattutto lo scrivo come voglio, senza alcun caporedattore occhiuto che pettina i miei testi a suo gusto e discrezione, affidandosi a una burocrazia sintattica (i lettori vogliono questo o quell’altro) del tutto presunta e semplificata.

Inoltre, parola dopo parola, ho visto crescere nel tempo i miei lettori – quando pubblico un nuovo post, il contatore quotidiano delle visite segna un numero che oscilla tra cento e trecento, assestandosi, negli altri giorni, ben oltre le cinquanta unità. Eppure, sono proprio tali cifre fantasmatiche –  quale il loro significato, che valore e merito attribuirgli? – che hanno iniziato a insinuarmi qualche dubbio…

Sono andato così a verificare quale fosse la chiave che conduce con maggior frequenza al mio sito, per il tramite di Google o altri motori di ricerca. Beh, ho scoperto che si tratta della voce: “Rosa Fumetto nuda”.

In effetti, di Rosa Fumetto scrivevo in un mio vecchio intervento, nel quale avevo inserito anche una foto in cui viene ritratta al tempo dei suoi fasti al Crazy Horse. Con la differenza che a prendersi la briga di leggere il testo per intero, uno scopre che, per quanto avvolte in un registro vagamente scanzonato e narrativo, sono in gioco decisive questioni di filosofia estetica, di cui la mia bellissima amica Rosa si faceva epitome e fulgida presenza incarnata, è il caso di dirlo.

Il dubbio diventa dunque: siamo sicuri che chi è stato indirizzato da Google a Fontana con soldino volesse leggere proprio di filosofia…? E che dunque a quelle parole sia rimasto, e non invece abbia preso solo ciò che legittimamente cercava: nemmeno tutta Rosa Fumetto ma un suo felice particolare anatomico, sineddoche di ogni fantasia erotica maschile.

Se confronto infine la mia presenza sul web con quella, trascorsa, su giornali, riviste o pubblicazioni cartacee in generale, mi accorgo che quando in precedenza lavoravo a un testo con particolare passione, quell'impegno e quello slancio mi venivano in qualche modo restituiti, per quanto i miei lettori non fossero certo numerosi. In ogni caso, se posso azzardare, il riconoscimento era proporzionale al valore e allo sforzo. Mentre su internet sperimento il contrario: un consenso che premia la brillantezza comica, l'effetto stuporoso, come avviene nelle barzellette.

Fate questa prova. Andate su Facebook e scrivete che vi è fuoriuscito un testicolo dalle mutande, che ridere, o un capezzolo dal reggiseno. Ecco, se anch’io lo facessi avrei di certo un'eco maggiore della filosofia estetica al netto di Rosa Fumetto – e infatti, quando ho scritto sempre di filosofia, ma riferendomi invece a Fulvio Abbate e alle sue intenzioni di voto al premio Strega, nessun motore di ricerca ha fatto saltare il banco.

E però – attenzione! – se pure un testicolo ha sul web molto più appeal della riflessione e del pensiero, questo non è un valore assoluto e anzi contempla alcune eccezioni, che pure tendono a una qualche generalità.

Date un'occhiata ai blog che hanno successo, ad esempio. Si dividono essenzialmente in due categorie: 1) quelli che creano il proprio consenso autonomamente; 2) quelli che invece trasferiscono sul web forme di riconoscimento ottenute altrove (scrittori o giornalisti o poeti o saggisti, ma anche sportivi e cantanti, starlet dello show biz, che hanno intravisto in internet una ribalta ulteriore, come una villetta per le vacanze).

Nel primo caso – blog che si affermano per intima forza – il registro di scrittura mi sembra conformarsi il più delle volte a un'ironia spavalda e compiaciuta, spesso ammiccante, rapida e sagace. Informazione e sarcasmo, ecco. Molta dietrologia e teorie complottiste. Al femminile mixati con un erotismo tendete al cinico e al ribaldo. Ciò che in ogni caso fa difetto – o meglio fa “merito”, nella particolare gerarchia di valore che viene qui confusa con la ricezione – è lo svolgersi articolato e consapevole di un pensiero, l’analisi razionale e il puntiglio stilistico e morale. Detto in una sola parola: la coscienza critica.

Per paradosso, quegli stessi vizzi capitali rifuggiti dai blogger sono il sigillo distintivo di quell'altra categoria di autori presenti in rete (Il primo amore, tanto per fare un nome, o scrittori come Giulio Mozzi e Giuseppe Genna), che traggono altrove la propria legittimità. Come a dire: se ti fai un nome fuori di qui, sui giornali, in letteratura, nei pigri gironi del web avrai diritto a un trattamento d’eccezione, e potrai perfino esasperare quei tratti di verbosità lambiccata normalmente poco idonei al mezzo.

Viceversa, il caso di blogger che, guadagnati i galloni sul numinoso campo dell’html, si sporgono sul terreno di media più tradizionali sperando di bissare i successi ottenuti, mi pare condurre a esiti poco memorabili. Insomma, la scrittura che si afferma nella rete, se tiriamo quella stessa rete in secco mostra tutto il suo fiato corto, come pescetti che dibattono le branchie misconoscendo l'oceano e reclamando un bicchier d'acqua, che è poi la loro misura.

Per l’insieme delle considerazioni appena esposte – che non pretendono certo di raggiungere la compiutezza di un’analisi – io dichiaro il più totale e misero fallimento del blog che state leggendo. Ciò non significa che ne interromperò l’attività. Semplicemente, nel futuro, dedicherò i miei sforzi anche a rimettere la mia penna fuori da questo calamaio, che essendo tanto grande finisce con l’essere tutto nero, per un eccesso di esposizione luminosa.

Quanto a Rosa Fumetto e a quel suo particolare anatomico, quanto è bello già lo so. Ma anche il suo pensiero sdrucciolevole, vi assicuro, le sue infinite digressioni dentro una lingua anarchica e torrenziale, ma non per questo approssimativa. E mi avvilisce un poco scoprire che invece i miei lettori questo vogliono sentirsi dire, questo sempre e soltanto: culo, culo, culo... (Per poi riderne da soli come i bambini quando dicono le parolacce).

lunedì 2 luglio 2012

Fulvio Abbate, o sull'amicizia e la verità



Fulvio Abbate è mio amico. Io non conosco Fulvio Abbate. Dal punto di vista della logica le due affermazioni si escludono, tanto che la precedente giustapposizione risulta visibilmente incongrua, al limite ascrivibile a un registro ironico e paradossale. Ma vi posso assicurare che le cose non stanno affatto a questo modo.

Effettivamente, io intrattengo una qualche forma di amichevole confidenza con Fulvio Abbate. Oltre a seguirlo, a distanza, nelle sue fosforiche incursioni nel ventre molle dell’ovvio, continuamente infilzato con l’affilato bisturi di Teledurruti, mi ha concesso la gentilezza di ospitare un mio intervento su una sua recente pubblicazione. Ci siamo quindi sentiti alcune volte per telefono, scambiati parole a gocce su Facebook, niente di più. Insomma, non ho mai incontrato le sue mani e il suo sguardo. E questo, malgrado l’effettiva relazione che si è stabilita tra noi, mi fa anche dire che non ci conosciamo.

La parola chiave mi sembra dunque proprio quella di relazione. Ci ripensavo nei giorni scorsi seguendo un suo filmato sul web, in cui dichiarava che non avrebbe votato Gianrico Carofiglio al premio Strega – Fulvio Abbate fa parte degli Amici della domenica, le persone con diritto di voto allo Strega – per la ragione che anche Walter Veltroni ha espresso il medesimo proposito. Ugualmente, non voterà nemmeno il candidato di Ponte alle grazie Emanuele Trevi, collocandolo nello stesso milieu culturale veltroniano. Con tutta probabilità, per esclusione, assegnerà la preferenza all’ultimo romanzo di Marcello Fois, a suo dire esterno a qualsiasi logica corporativa e salottiera.

E’ buffo, non pare anche a voi?

Intendo dire: Fulvio Abbate, per stigmatizzare e opporsi a forme di plauso fondate sulla cooptazione amicale, e non come si vorrebbe sul merito specifico delle opere in concorso, fa propria quella stessa premessa, cambiandola solamente di segno. Io non voto per chi viene votato da Veltroni, punto. Affermazione ben diversa dalla celebre sentenza attribuita ad Aristotele: Amicus Plato, sed magis amica veritas. La quale, come noto, significa che malgrado la propria amicizia con Platone, nella formulazione del giudizio si attiene a un vincolo di amicizia di segno superiore, corrispondente al principio imparziale della verità.

La verità, per Aristotele, va identificata dunque in qualcosa di esterno e assoluto. Da ciò discende che non è corruttibile dalla relazione contingente, mediante cui ci accostiamo ad essa senza intaccarne la sostanza.

Diversamente, Fulvio Abbate non ci parla della verità, che nella fattispecie potremmo far coincidere con la qualità intrinseca dei testi in questione, ma rinvia anch'egli il giudizio a una relazione personale, ossia all'inimicizia con Plato\Veltroni. In tal modo, per quanto la sua intenzione sia cristallina, demistificante, finisce con l'incorporare a sua volta il metodo di qualsiasi struttura corporativa e salottiera.

Abbate, in altre parole, per negare il salotto inamidato della sinistra virtuosa e di regime, si consegna definitivamente alle poltrone di velluto della filosofia contemporanea. Sì, ho parlato proprio di filosofia, perché se ci pensiamo bene questa strana circostanza contiene una morale filosofica, che è poi ciò che a me interessa indagare. Un tempo, per la filosofia estetica, esistevano solamente le opere, termine in cui si racchiudeva un universo di parole che rinviavano in modo indubitabile all’esperienza, e perciò con una propria riconoscibile autonomia. Esistevano quindi libri belli o libri brutti, ma anche libri modesti, libri così così. In ogni caso, le qualità di un libro, o meglio di un’opera, erano intime ad essa. E venivano indagate al netto dall'amicizia con Platone.

In questa granitica convinzione – l’opera esiste in sé, indipendentemente dalla sua ricezione –, col tempo si è però venuta a creare una lieve incrinatura, inizialmente tenuta a bada come il bimbo olandese con la diga: infilandoci un dito. Ma quando la pressione del dubbio, con Nietzsche, è diventata troppo forte, si è cominciato a parlare di interpretazione, di ermeneutica, fino ad arrivare alla semiotica e più recentemente al pensiero debole. Tutte forme di riflessione, altamente sofisticate e dotte, che hanno messo in luce l’elemento relazionale dell’esperienza conoscitiva e quindi artistica, la cui qualità e valore discende proprio da tale rapporto vissuto: tra un insieme di parole, o più in generale di segni, e il loro interprete particolare.

Era la rivincita dell'amicizia sulla verità.

Per la stessa ragione anche il termine opera, non di rado scritto con l’iniziale maiuscola, è stato progressivamente accantonato, lasciando spazio a quello di testo, molto più laico ed aperto agli spifferi del mondo, molto più amichevole. Ma se un libro, un romanzo, una poesia o per estensione un qualsiasi manufatto umano non sono più un’Opera, sigillata dentro il proprio scrigno intarsiato, questa dimensione relazionale ha finito col prendersi tutta la scena. Al punto che, in una prospettiva filosofica radicale, non appare del tutto incongruo affermare che Fulvio Abbate è mio amico, sebbene io non lo conosca.

Un'affermazione in perfetta simmetria con le intenzioni di voto dello stesso Fulvio Abbate. In entrambi i casi abbiamo una relazione svincolata da un'esperienza oggettiva, che genera e legittima la conoscenza. Io che parlo della nostra amicizia senza conoscerlo personalmente, mi muovo così nella stesso solco del suo giudicare unicamente in base agli elementi relazionali, le camarille politiche ed editoriali. Ma prescindendo totalmente dalla sostanza verbale – il significato, si sarebbe detto un tempo, ma anche dallo stile –, che in tal modo finisce con l'essere riassorbita dalla testualità dei rapporti umani, che la precedono e la integrano.

Rimane però il dubbio che, sia io sia il mio “amico” Fulvio Abbate, ci siamo sporti oltre una misura sopportabile dal cornicione filosofico della modernità, e ora stiamo precipitando dentro un cielo senza più appigli credibili per le nostre affermazioni. Se dunque Fulvio Abbate avrà la bontà di raccontarci qualche buona ragione – letteraria, estetica – per cui voterà per Marcello Fois piuttosto che per altri, io mi impegno a offrirgli un vinello fresco con molte bollicine. Ma beninteso, non dentro un testo ma in quel macrotesto che chiamano realtà. O se preferisci, Fulvio, continuiamo a chiamarla vita vera, anche se io e te sappiamo che è invece tutto finto…