domenica 22 luglio 2012

Itaca, o sull'amor proprio

Siamo una società egocentrica, si dice. O meglio, sviluppando le implicazioni che fanno tana nell'assunto, siamo un insieme disarticolato di singolarità che hanno fatto della dimora privata un totem da venerare. In un certo senso, è vero.

Ma in quale senso?

Io diffido del dilagare del termine egocentrico. Forse perché lo sono, non lo nascondo, un poco egocentrico. Così questo modo di dire moralistico e sbadatamente sommario, a me ricorda, ma davvero a orecchio e dunque con possibile imprecisione, cosa pensava al riguardo Hervé Guibert.

Intimo di Michel Foucault e come lui morto di AIDS nei primi anni novanta, lo scrittore francese attinse da una sfortunata biografia anche abbondante materia artistica, e per tale motivo venne accusato di egocentrismo estetico. “Spesso viene scambiato per egocentrismo”, fu il suo modo di liquidare la faccenda in un'intervista, “quell’attenzione a sé utile per accompagnare la propria anima nei suoi molti e necessari mutamenti.”

Dichiarazione che entra in risonanza con il pensiero di un altro grande francese, Claude Lévi-Strauss, quando afferma che la nostalgia rappresenta un eccesso di dialogo interiore con se stessi, mentre l’oblio è la figura speculare a tale ridondanza: una sorta di assopimento di ogni voce individuale, che avrebbe invece la funzione, senza arrivare all'iperattività "nostalgica", di mantenere aggregata una soggettività che si percepisce come tale.

Ma se la sua intuizione corrisponde a verità, bisogna concludere che questo tempo non manifesta il sentimento centripeto della nostalgia – specchio dolente, nel suo ruminare interno, a una personalità egocentrica, ovvero centrata su di sé – ma tutto all’opposto quello estroverso dell’oblio.

L’atteggiamento particolaristico e disinteressato ai grandi temi sociali, che comunemente si riscontra nei comportamenti dei più, non corrisponde infatti a una centratura interna, un brusio che si leva consapevole dal sancta sanctorum della carne. Piuttosto a qualcosa come una disgregazione festosa di superficie, uno smottamento dell'identità personale osservato con un telescopio dal sicuro riparo di un contrafforte posticcio, sistemato al di fuori dei precari confini dell'Io.

Ciò che viene detto con enfasi sospetta relazione, rappresenta forse proprio questa terra di tutti – e dunque di nessuno – in cui viene posta la specula da cui guardare alle faccende private. Da cui lo stare sempre in contatto, in costante e ossessivo scambio attraverso le chiassose forme che la tecnica magnanima ci offre, quali ad esempio i social network. Tutto ciò si traduce davvero nel colmo dell’oblio: dimenticarsi che esiste una dogana, ovunque essa sia, cercando semplicemente di non pagare dazio.

Diviene allora un gesto naturale e disinvolto quello di accedere a Facebook, nell'urgenza di digitare frasi come cucu, eccomi, amici miei, rivolgendosi a degli semi-sconosciuti ugualmente mormoranti, oppure ciao ciaoooooo con un sontuoso strascico di o, che nessuna damigella avrebbe la pazienza di sostenere. Ma anche un’arguta citazione degli stessi Guibert o Lévi-Stauss, corrispondono, in tale prospettiva, a un comportamento di perversa modestia, altro che egocentrismo!

Come a dire: io non sono niente, io sono solamente l’eco degli infiniti altri che mi hanno preceduto, ma che invece di varcare il traguardo e passare la mano, continuano nella loro corsa, giro dopo giro, alla maniera di un disco in loop.

Ed è così che anche adesso mi parlano, o meglio ancora da essi sono parlato, agito da invisibili fili che si perdono tra le quinte dei secoli o dei minuti, in un classicismo della contemporaneità. E mentre io mi ricordo di loro e ricapitolo a fil di labbra il presente, piano, dolcemente, mi dimentico di me, assentandomi come i compagni di Ulisse dopo aver inghiottito le prelibate pietanze dei Lotofagi.

Mangiare e dimenticare, ecco. Parlare, scrivere, chattare e dimenticarsi, autosmemorarsi in un'inesauribile e pubblica conversazione. Sono questi i rituali in cui si emblematizza la nostra epoca, il testimone che per la prima volta non solo non consegneremo alle generazioni future, ma nemmeno avremo il privilegio di stringere forte tra le dita, e solo carezziamo distrattamente come un gattone che fa le fusa.

Quando un po’ di sano egocentrismo –  ma se preferite potete chiamarlo amor proprio, come facevano le vecchie zie – corrisponderebbe invece a quella spinta che rimette il timone in una direzione per nulla compiaciuta ed egoistica, e anzi necessaria a trasformare il viaggio in esperienza. O altrimenti detta con un linguaggio più aggiornato, provate a inserire, la prossima volta che salite in macchina, questa destinazione dentro al vostro Tom Tom: Itaca...



1 commento:

  1. grazie Guido, grazie per questa generosa operazione di riportar le parole al loro senso primigenio, grazie per far la fatica di unire il pensiero più fine alla realtà più grezza così da rendere la grana del mondo attorno un po' più sottile, meno ottusa. le parole di Guibert da te citate sono oro puro. Riflettevo giusto poco tempo fa sui cambiamenti delle nostre anime e su come essi siano necessari e siano il segno del nostro essere vivi e su quanto sia difficile trovare le parole, i contesti, i pensieri che siano all'altezza di tali mutamenti. Non a caso credo proprio sulla spinta di tale riflessione mi è venuta come un'urgenza di scrivere, di spiegarmi, di dare espressione al sentire cangiante.

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