lunedì 2 luglio 2012

Fulvio Abbate, o sull'amicizia e la verità



Fulvio Abbate è mio amico. Io non conosco Fulvio Abbate. Dal punto di vista della logica le due affermazioni si escludono, tanto che la precedente giustapposizione risulta visibilmente incongrua, al limite ascrivibile a un registro ironico e paradossale. Ma vi posso assicurare che le cose non stanno affatto a questo modo.

Effettivamente, io intrattengo una qualche forma di amichevole confidenza con Fulvio Abbate. Oltre a seguirlo, a distanza, nelle sue fosforiche incursioni nel ventre molle dell’ovvio, continuamente infilzato con l’affilato bisturi di Teledurruti, mi ha concesso la gentilezza di ospitare un mio intervento su una sua recente pubblicazione. Ci siamo quindi sentiti alcune volte per telefono, scambiati parole a gocce su Facebook, niente di più. Insomma, non ho mai incontrato le sue mani e il suo sguardo. E questo, malgrado l’effettiva relazione che si è stabilita tra noi, mi fa anche dire che non ci conosciamo.

La parola chiave mi sembra dunque proprio quella di relazione. Ci ripensavo nei giorni scorsi seguendo un suo filmato sul web, in cui dichiarava che non avrebbe votato Gianrico Carofiglio al premio Strega – Fulvio Abbate fa parte degli Amici della domenica, le persone con diritto di voto allo Strega – per la ragione che anche Walter Veltroni ha espresso il medesimo proposito. Ugualmente, non voterà nemmeno il candidato di Ponte alle grazie Emanuele Trevi, collocandolo nello stesso milieu culturale veltroniano. Con tutta probabilità, per esclusione, assegnerà la preferenza all’ultimo romanzo di Marcello Fois, a suo dire esterno a qualsiasi logica corporativa e salottiera.

E’ buffo, non pare anche a voi?

Intendo dire: Fulvio Abbate, per stigmatizzare e opporsi a forme di plauso fondate sulla cooptazione amicale, e non come si vorrebbe sul merito specifico delle opere in concorso, fa propria quella stessa premessa, cambiandola solamente di segno. Io non voto per chi viene votato da Veltroni, punto. Affermazione ben diversa dalla celebre sentenza attribuita ad Aristotele: Amicus Plato, sed magis amica veritas. La quale, come noto, significa che malgrado la propria amicizia con Platone, nella formulazione del giudizio si attiene a un vincolo di amicizia di segno superiore, corrispondente al principio imparziale della verità.

La verità, per Aristotele, va identificata dunque in qualcosa di esterno e assoluto. Da ciò discende che non è corruttibile dalla relazione contingente, mediante cui ci accostiamo ad essa senza intaccarne la sostanza.

Diversamente, Fulvio Abbate non ci parla della verità, che nella fattispecie potremmo far coincidere con la qualità intrinseca dei testi in questione, ma rinvia anch'egli il giudizio a una relazione personale, ossia all'inimicizia con Plato\Veltroni. In tal modo, per quanto la sua intenzione sia cristallina, demistificante, finisce con l'incorporare a sua volta il metodo di qualsiasi struttura corporativa e salottiera.

Abbate, in altre parole, per negare il salotto inamidato della sinistra virtuosa e di regime, si consegna definitivamente alle poltrone di velluto della filosofia contemporanea. Sì, ho parlato proprio di filosofia, perché se ci pensiamo bene questa strana circostanza contiene una morale filosofica, che è poi ciò che a me interessa indagare. Un tempo, per la filosofia estetica, esistevano solamente le opere, termine in cui si racchiudeva un universo di parole che rinviavano in modo indubitabile all’esperienza, e perciò con una propria riconoscibile autonomia. Esistevano quindi libri belli o libri brutti, ma anche libri modesti, libri così così. In ogni caso, le qualità di un libro, o meglio di un’opera, erano intime ad essa. E venivano indagate al netto dall'amicizia con Platone.

In questa granitica convinzione – l’opera esiste in sé, indipendentemente dalla sua ricezione –, col tempo si è però venuta a creare una lieve incrinatura, inizialmente tenuta a bada come il bimbo olandese con la diga: infilandoci un dito. Ma quando la pressione del dubbio, con Nietzsche, è diventata troppo forte, si è cominciato a parlare di interpretazione, di ermeneutica, fino ad arrivare alla semiotica e più recentemente al pensiero debole. Tutte forme di riflessione, altamente sofisticate e dotte, che hanno messo in luce l’elemento relazionale dell’esperienza conoscitiva e quindi artistica, la cui qualità e valore discende proprio da tale rapporto vissuto: tra un insieme di parole, o più in generale di segni, e il loro interprete particolare.

Era la rivincita dell'amicizia sulla verità.

Per la stessa ragione anche il termine opera, non di rado scritto con l’iniziale maiuscola, è stato progressivamente accantonato, lasciando spazio a quello di testo, molto più laico ed aperto agli spifferi del mondo, molto più amichevole. Ma se un libro, un romanzo, una poesia o per estensione un qualsiasi manufatto umano non sono più un’Opera, sigillata dentro il proprio scrigno intarsiato, questa dimensione relazionale ha finito col prendersi tutta la scena. Al punto che, in una prospettiva filosofica radicale, non appare del tutto incongruo affermare che Fulvio Abbate è mio amico, sebbene io non lo conosca.

Un'affermazione in perfetta simmetria con le intenzioni di voto dello stesso Fulvio Abbate. In entrambi i casi abbiamo una relazione svincolata da un'esperienza oggettiva, che genera e legittima la conoscenza. Io che parlo della nostra amicizia senza conoscerlo personalmente, mi muovo così nella stesso solco del suo giudicare unicamente in base agli elementi relazionali, le camarille politiche ed editoriali. Ma prescindendo totalmente dalla sostanza verbale – il significato, si sarebbe detto un tempo, ma anche dallo stile –, che in tal modo finisce con l'essere riassorbita dalla testualità dei rapporti umani, che la precedono e la integrano.

Rimane però il dubbio che, sia io sia il mio “amico” Fulvio Abbate, ci siamo sporti oltre una misura sopportabile dal cornicione filosofico della modernità, e ora stiamo precipitando dentro un cielo senza più appigli credibili per le nostre affermazioni. Se dunque Fulvio Abbate avrà la bontà di raccontarci qualche buona ragione – letteraria, estetica – per cui voterà per Marcello Fois piuttosto che per altri, io mi impegno a offrirgli un vinello fresco con molte bollicine. Ma beninteso, non dentro un testo ma in quel macrotesto che chiamano realtà. O se preferisci, Fulvio, continuiamo a chiamarla vita vera, anche se io e te sappiamo che è invece tutto finto…

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